L’installazione di una base militare permanente in Gibuti è un fatto nuovo e significativo
Il cosiddetto “corno d’Africa” è la zona a est del continente africano con la forma di un grande corno d’animale. Comprende stati come l’Eritrea, la Somalia e l’Etiopia e fu in larga parte sotto il controllo italiano alla fine degli anni ‘30 del secolo scorso. Se guardiamo una mappa della cosiddetta Africa Orientale Italiana, tuttavia, notiamo la presenza, ai tempi, di due lembi di terra in cui gli italiani non avevano alcun potere: la “Somalia francese” e la “Somalia britannica”. Lembi di terra, certamente, ma di importanza economica e strategica ben superiore a tutto il resto della regione, perché permettevano – e permettono tutt’ora – il controllo del golfo di Aden e il passaggio delle navi commerciali nelle due direzioni tra Oceano Indiano e Mar Mediterraneo. Evidentemente francesi e inglesi avevano fatto i propri calcoli, al contrario degli italiani.
Torniamo al 2017. Sono passati più di ottant’anni dalla «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», e il corno d’Africa è formalmente indipendente. Al posto della Somalia britannica c’è il cosiddetto Somaliland, stato non riconosciuto di cui parleremo in un prossimo articolo; la Somalia francese ha assunto il nome di Gibuti (o Djibouti), che riprende quello della capitale. Gibuti è uno stato povero (al 172° posto dell’ Indice di Sviluppo Umano del 2015) ma in una posizione che rimane strategica ancora oggi. Nel 2001, il Gibuti ha concesso una vecchia base militare francese, Camp Lemonnier, al governo americano, per accogliere una forza permanente che oggi prende il nome di AFRICOM (“United States Africa Command”).
Fin qui, niente di nuovo. Gli Stati Uniti hanno basi in tutto il mondo – ricordate la storia delle atomiche italiane? - ed è evidente che abbiano sfruttato la debolezza economica e strategica del Gibuti per ottenere il controllo di un’area di rilevanza strategica. La notizia è che il governo cinese ha fatto praticamente la stessa cosa, spiazzando gli americani e allarmando la comunità internazionale. A partire dalla seconda decade di luglio 2017, infatti, la Repubblica Popolare Cinese ha organizzato il trasferimento in Gibuti delle attrezzature per l’installazione della prima base militare permanente in terra africana. Proprio nello stesso stato che accoglie gli americani. I cinesi hanno dichiarato che si tratta di una scelta “a difesa dei propri interessi commerciali”, in cui dunque non ci sono volontà di espandere la propria influenza politica. Il golfo di Aden è solcato da innumerevoli navi cinesi, ed è al contempo infestato dai pirati.
Eppure, non occorre una grande conoscenza dell’economia politica per rendersi conto che questa nuova base rappresenta una svolta nella politica estera cinese. Da un lato, la già notevole penetrazione economica in terra africana si traduce per la prima volta in una presenza militare. In secondo luogo, la rincorsa agli americani non è più solo sul piano economico (la Cina è oggi la seconda economia al mondo), ma anche su quello della supremazia militare. Mentre l’Unione Europea non ha ancora capito cosa farà da grande (pur essendo già ben cresciuta), la Cina intende proporsi come superpotenza, con tanto di programma spaziale. ![]()
Prima di salutarci, torniamo a parlare di Cina per segnalare la scomparsa di Liu Xiaobo, scrittore e attivista per i diritti umani e la libertà d’espressione, noto per la partecipazione alle proteste di Piazza Tienanmen (1989) e per aver ricevuto il premio Nobel per la pace (2010). Xiaobo, 61enne, aveva un tumore al fegato in stato terminale, ma il governo cinese non aveva accolto nessuna proposta internazionale per sottoporlo a cure palliative, in quanto riteneva il trasferimento “troppo dannoso per un malato terminale”. Di fatto, lo scrittore era in carcere da anni per il reato di sovversione, in quanto sottoscrittore del manifesto “Charta ‘08” a favore della democratizzazione del sistema politico cinese.
Immagini tartte da:
Immagine di copertina tratta dal sito http://www.cbsnews.com/news/china-deploys-forces-in-djibouti-africa-opens-first-military-base-abroad/. La cartina dell’AOI è tratta da http://storicamente.org/gagliardi_colonie_italiane_africa_fascismo, mentre la mappa di Limes è sulla pagina https://chinageopolitics.wordpress.com/2017/03/14/il-ruolo-della-forze-armate-della-cina-lungo-la-via-marittima-della-seta/. La foto di Liu Xiaobo è tratta da https://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/2010/xiaobo-facts.html.
0 Commenti
Tutti ricordiamo del recentissimo dibattito pubblico sulla possibile scarcerazione di Riina: levate di scudi da più parti hanno certificato la ferrea volontà del popolo italiano di tenere in cella un pericoloso mafioso, reo di numerosi e indicibili delitti, pur in condizioni di salute ormai disastrose. Sembrava un rigurgito di passione civile, invece si è trattato dell’ennesima baruffa da social network, che non ha lasciato alcuna traccia tangibile nelle coscienze collettive. Perché?
Perché, a una settimana dalla polemica sul boss corleonese, la Direzione Nazionale Antimafia ha diffuso un rapporto sullo stato di salute delle organizzazioni criminali in Italia, delineando un quadro sconcertante: nessuna levata di scudi questa volta; calma piatta, spallucce, indifferenza patologica. La politica sull’argomento latita, e questo verbo risulta incredibilmente appropriato. La relazione della DNA descrive con cura il grado di radicamento delle mafie, arrivando a dire che la ‘ndrangheta, ad esempio, è collegata sostanzialmente a tutti i centri nevralgici del potere politico, dirigenziale e imprenditoriale, al punto da riuscire con relativa semplicità a orientare voti, nomine, appalti, candidature locali e nazionali, in quasi tutte le regioni d’Italia. Sono osservazioni che farebbero sussultare un’intera classe dirigente, che dovrebbe almeno discutere dell’argomento, mettere in agenda misure legislative penetranti e mezzi, risorse e uomini per contrastare il fenomeno. Eppure la risposta più gettonata è stata il silenzio. La DNA arriva a dire che la sistematicità del metodo corruttivo-mafioso “fa acquisire alle organizzazioni il ruolo di autorità pubblica” – roba da saltare sulla sedia. Bisogna concludere quindi che Montesquieu si sbagliava: nella ripartizione dei poteri dello Stato l’incauto pensatore francese ometteva di citare la Mafia, accoccolata al potere legislativo, talvolta con un occhio di riguardo per quello esecutivo, concorrente solo con quello giudiziario. Quello giudiziario per l’appunto, scorporato da disgustosi (ma per fortuna rari) casi di collusione ambientale, è argine inascoltato da quasi 30 anni: è stato necessario il sacrificio di vite innocenti affinché la politica si destasse dal suo sonno e avviasse una lotta seria alla criminalità organizzata, ad esempio specializzando e concentrando le autorità di contrasto settoriale come le Direzioni Distrettuali. Dal 1992 esse stilano rapporti e delineano statistiche sulle attività mafiose, dalle quali si apprende che negli ultimi 24 anni sono stati sequestrati e confiscati beni per un valore di 25 miliardi di euro. Dunque bisogna constatare che il giro d’affari è molto superiore, giacché secondo l’Unodc (agenzia ONU sul monitoraggio di droga e criminalità) le organizzazioni criminali in Italia muovono annualmente 116 miliardi di euro – al netto dell’evasione fiscale, ovviamente. Una quantità di denaro impressionante, che vale il 7% del PIL del Paese, meriterebbe attenzioni diverse dalle autorità. In epoche di tagli alla spesa corrente sarebbe sensato andare a prendere i soldi là dove proliferano: occorrono però leggi più severe e chiare sulla confisca, da anni terreno scivoloso e complesso, teatro di delicati dibattiti giurisprudenziali. Le misure coercitive personali, come l’attenuazione di alcune garanzie per gli indagati/imputati per mafia o isolamento e carcere duro esistono già, e hanno dimostrato la loro efficacia. Ciò che manca, tuttavia, è un contrasto massiccio sul terreno economico poiché il potere mafioso, prima che racchiudersi in alcune figure di spicco, è intrinsecamente legato alla moneta circolante, ai beni materiali, agli averi. Interrompere la possibilità di comunicare non spezza la catena del potere, che trapassa di mano in mano perché il denaro risulta sfuggente a celle e polizia, a differenza degli uomini. Quanto sono commoventi le fiction sul giudice Falcone, bontà loro. Quanto cordoglio scenico, quanta sensibilità a orologeria. Diamo una strana immagine: sembriamo quelli che nel bel mezzo di un incendio guardano piangendo la foto del pesce rosso, maledicendosi per la sua scomparsa, dimenticandosi di quanto quella famosa ‘montagna di merda’ abbia sommerso definitivamente le istituzioni di un Paese allegro e disperato.
Mai come in questo momento storico è delicato, a tratti pericoloso, parlare di ius soli, ovvero del diritto del nato di acquisire la cittadinanza del Paese in cui è venuto alla luce. Le ondate migratorie degli ultimi anni rendono il terreno troppo bollente, come un tappeto di carboni ardenti, per poter avere una discussione seria sul tema. E infatti nei lavori parlamentari, durante l’iter della legge, la dialettica politica ha lasciato in breve tempo posto al tifo da stadio: da un lato i promotori della legge, buonisti favorevoli all’introduzione del diritto, dall’altro le destre inorridite da questo esercito di nascituri pronti alla sostituzione etnica della cristianissima Europa, e dall’altro ancora i parlamentari del Movimento 5 Stelle, che hanno scelto la strada di una vigliacca astensione motivandola con il disaccordo sulla forma della legge (non è dato sapere se riguardo al contenuto siano favorevoli o contrari). Piccolo appunto sui pentastellati: già lo scorso anno, in occasione dell’approvazione della legge sulle unioni civili, mascherarono il proprio dissenso, adducendo motivi di forma della legge e delle procedure sulla sua approvazione, senza esprimersi nel merito. Malignamente è lecito credere che adottino sistematicamente questo trucco per deresponsabilizzare i parlamentari su provvedimenti normativi che creano potenzialmente scontento nella base, formata per lo più da cittadini privi di idee politiche, inclini a opinioni eterodirette dallo Zeitgeist, filtrato dai social, dell’uomo qualunque.
Ripulendo il campo dalle opinioni, è necessario un minimo di approfondimento sull’argomento dello ius soli, ad esempio guardando ai Paesi nei quali è in vigore. Forse può sorprendere sapere che nel continente americano è previsto quasi ovunque, compresi gli Stati Uniti: non vi sono condizioni o mediazioni, semplicemente chi nasce sul suolo americano è cittadino statunitense. In Europa tendenzialmente è applicato con delle condizioni: ad esempio in Francia l’acquisto della cittadinanza del bambino avviene dopo 5 anni di ininterrotta permanenza su suolo transalpino. Il sistema attualmente in vigore in Italia, invece, è fondato sullo ius sanguinis, ovvero la cittadinanza si acquisisce se il bambino ha un genitore italiano o risulta residente in Italia ininterrottamente fino alla maggiore età. La proposta normativa in discussione al Senato, invece, prevede di concedere automaticamente la cittadinanza al neonato se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da minimo cinque anni, oppure se il bambino conclude un ciclo di studi (elementari o medie) nel sistema scolastico italiano. Dunque basterebbe questo appunto per smentire il terrorismo mediatico, cavalcato dalle destre, che paventa l’africanizzazione del Bel Paese in caso di approvazione della legge. L’unico effetto immediato sarebbe evitare i cortocircuiti logici del sistema attualmente in vigore: non è raro imbattersi in storie di ragazzi nati e cresciuti in Italia, magari fino ai 15/16 anni, che sono costretti a tornare nel Paese originario dei genitori perché magari il permesso di soggiorno dei genitori è scaduto. È una evidente irrazionalità del sistema legislativo, legata all’obsolescenza della disciplina (del 1992) che deve ovviamente essere aggiornata per tenere conto delle modificazioni socioculturali che hanno solcato l’Europa negli ultimi anni. Nota a margine: i pentastellati, pur nella fragilità delle scuse cerchiobottiste di cui sopra, hanno sottolineato un aspetto molto serio della legge di cui bisogna dargli atto. L’acquisto della cittadinanza italiana significa, ovviamente, diventare cittadini dell’Unione Europea. Assunto questo dato, è irrazionale pensare che i 28 Paesi dell’UE abbiano 28 discipline differenti di acquisto della cittadinanza, posto che gli effetti di ogni singola normativa interna si riflettono indifferentemente su tutto il territorio comunitario. Un segnale intelligente delle istituzioni europee, in epoca di crisi profondissima di rappresentatività, potrebbe essere quello di discutere una normativa generale sull’acquisto di cittadinanza, prevedendo magari uno ius soli comunitario che scremerebbe considerevolmente la questione stomachevole delle “quote” di migranti da distribuire nei vari Paesi e darebbe contezza di come l’Unione non sia solo un agglomerato di burocrazia finanziaria ma anche un’istituzione tangibile per i popoli europei. Come sottolineato dagli studiosi di diritto internazionale, durante le grandi crisi economiche è necessario implementare misure di estensione dei diritti civili per fronteggiare socialmente e culturalmente le storture del sistema finanziario: quale occasione migliore per testare su larga scala questa idea? Immagini tratte da: Corriere della Sera
Quanto accaduto in Piazza San Carlo a Torino la sera della finale di Champions League mette a dura prova ogni spiegazione. A 36 ore dall’accaduto ancora non è chiaro quale evento abbia scatenato il panico che ha causato oltre 1500 feriti, tra cui alcuni in gravissime condizioni. La dinamica è ormai nota: qualcosa ha spaventato una parte della folla, sul lato sinistro della piazza, folla che ha iniziato a correre innescando un’immensa reazione a catena. I racconti dei presenti trasudano paura, sgomento: nessun dato utile, però, a segnalare in minima parte cosa abbia causato la stampede all’ombra della Mole. E’ arduo immedesimarsi nei presenti, dal proprio divano con gli occhi sul televisore difficilmente si può capire cosa si provi a ritrovarsi in mezzo a 30mila persone che fuggono senza nessuna direzione, senza nessun motivo. Per questo abbiamo provato a contattare uno dei presenti, L., per avere contezza di come la folla abbia percepito il pericolo. Quello che filtra dal suo racconto, in verità, rende il tutto ancora più inspiegabile. E’ tutto un susseguirsi di “non so perché”. Nessuno sparo, nessuna esplosione, nessun allarme. Solo panico, panico allo stato puro. “Ti passano davanti mille scene”. E corri. “Ho corso più di Higuain durante la partita”. L. era con degli amici nel pieno centro della piazza durante il primo tempo: si è allontanato nell’intervallo per cercare di ricongiungersi con altri amici che sostavano proprio sul lato sinistro della piazza, dunque ha visto da molto vicino quello che è successo (o più correttamente quello che non è successo). Non un rumore, solo panico. E il passaparola irrazionale che riempiva di spiegazioni artificiose ciò che non appariva comprensibile: le versioni dell’accaduto si sprecavano, ma L. – e crediamo migliaia di altri – è riuscito a non attingere alla fonte dell’angoscia ma, pur navigando nel fiume di vetri rotti, ha constatato come il racconto di bombe, mitra, arabi inneggianti allo sterminio dell’Occidente stridesse con la realtà percepita dai suoi sensi: non era dato vedere fumo o fiamme; non era stata udita alcuna esplosione, sparo; l’aria puzzava di gente sudata e non di misture chimiche. Questa semplice evidenza, semplice per chi sta su un divano a mangiare patatine, molto meno per chi aveva un bambino per la mano, ha tranquillizzato i presenti nel giro di alcuni minuti. Sicuramente nei prossimi giorni una spiegazione plausibile a tutto ciò dovrà venire a galla. Magari qualche idiota ha sparato un petardo troppo vicino alla folla e alcuni troppo suggestionabili hanno confuso quel rumore con quello di una bomba; magari qualche idiota si è messo a urlare per il puro gusto di sciacallare sulle tensioni sociali degli ultimi anni. Magari ancora è stato un puro caso che ha ingenerato terrore tra pochi, i quali sono riusciti a sconvolgere una folla di persone che, senza sapere perché, si è trovata suo malgrado a coronare il sogno di ogni terrorista: terrorizzare le masse senza muovere un dito. A Torino, sabato, il terrore ha vinto una partita. Ma d’ora in avanti ogni volta che entreremo in uno stadio, in un aeroporto, ad un concerto, avremo modo di prenderci una giusta rivincita.
Professore di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa dal 2016, precedentemente ha lavorato come ricercatore e professore associato presso l’Università di Bari oltre ad aver concluso un’esperienza di circa dieci anni a Stoccolma presso l’ECDC (Centro Europeo per la Prevenzione delle Malattie), l’agenzia dell’Unione Europea preposta al monitoraggio delle malattie infettive. Nel tempo libero è stato co-autore di un capitolo della sesta edizione di ‘Vaccines’, un bignami di sole 1500 pagine dal costo di 500 dollari scritto da tre medici statunitensi (non sappiamo se prezzolati da Big Pharma o meno). Un tale curriculum, dicevamo, non osta alla linearità dell’esposizione del professore, che si dimostra una persona disponibile oltre quanto fosse lecito attendersi.
Professore, iniziamo dalle basi più elementari. Che cos’è un vaccino? Un vaccino è un prodotto biologico: in esso sono contenuti gli antigeni, ovvero microrganismi o parti di essi che, una volta somministrati ad un soggetto, ingenerano la risposta immunitaria del suo corpo. […] Non sarebbe il caso di rendere coercitivo l’obbligo di vaccinazione per il personale medico, impedendo ai non vaccinati di lavorare in strutture sanitarie, e ancor più per i bambini, subordinando l’accesso a scuole e asili al corretto adempimento delle vaccinazioni? L’obbligo è declinabile in differenti modi. In Australia ad esempio è prevista l’esclusione dall’assicurazione sanitaria per chi sceglie di non vaccinarsi. Loro dicono: non ti vaccini? Allora ti curi a pagamento da solo. È una coercizione indiretta che però funziona. Negli Stati Uniti ci si può sottrarre alla vaccinazione dichiarando espressamente al medico la volontà di non vaccinarsi e i motivi di tale scelta, ed è impedito l’accesso alle scuole per i bambini non vaccinati. Diventa così impossibile sottrarvisi. Bisogna parlare quindi di incentivi e disincentivi, non di obbligo. Perché i genitori non vaccinano i bambini? Io non credo che si possa ridurre tutto alla diffusione di Internet. No, infatti non è solo quello. Premettiamo: la stragrande maggioranza dei genitori vaccina i propri figli, siamo comunque intorno al 90%. …però colpisce la diminuzione degli ultimi anni, dal 95% al 90%. Non è assurdo? C’è un motivo sociologico. Abbiamo genitori molto informati che però vivono un periodo storico di enorme sfiducia nelle istituzioni, che travolge tutto ciò che viene visto come “sistema”, e quindi indistintamente professori, medici, politici. […] Quali sono i reali rischi di un vaccino? I rischi sono ben conosciuti dalla scienza. In un soggetto sano, come ogni medicinale, un vaccino ha degli effetti collaterali molto accettabili. […] L’argomento dei vaccini è tristemente importante: è singolare che uno dei traguardi migliori della scienza medica, che insieme agli antibiotici ha contribuito a raddoppiare l’aspettativa di vita nel mondo nell’ultimo secolo, sia messo oggi in discussione. Ci sono esempi, però, che parlano da soli: forse molti ignorano che a causa del vaiolo, nel XX secolo, sono morte oltre 300 milioni di persone. A seguito di una massiccia campagna di vaccinazione portata avanti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’ultimo caso al mondo registrato si è avuto nel 1977. Da allora la malattia è stata eradicata, ovvero è letteralmente scomparsa dalla faccia della Terra, primo caso nella storia. Oggi, infatti, il vaccino contro il vaiolo non esiste più. E questo è forse lo scopo ultimo, fondamentale, di un vaccino: serve a fare a meno di esso. Per approfondire maggiormente la questione, a questo link troverete la versione integrale dell'intervista.
La caratteristica più notevole del Professor Lopalco è senza dubbio la chiarezza, dono piuttosto raro tra gli addetti ai lavori. Professore di Igiene e Medicina Preventiva all’Università di Pisa dal 2016, precedentemente ha lavorato come ricercatore e professore associato presso l’Università di Bari oltre ad aver concluso un’esperienza di circa dieci anni a Stoccolma presso l’ECDC (Centro Europeo per la Prevenzione delle Malattie), l’agenzia dell’Unione Europea preposta al monitoraggio delle malattie infettive. Nel tempo libero è stato co-autore di un capitolo della sesta edizione di ‘Vaccines’, un bignami di sole 1500 pagine dal costo di 500 dollari scritto da tre medici statunitensi (non sappiamo se prezzolati da Big Pharma o meno). Un tale curriculum, dicevamo, non osta alla linearità dell’esposizione del professore, che si dimostra una persona disponibile oltre quanto fosse lecito attendersi. Professore, iniziamo dalle basi più elementari. Che cos’è un vaccino? Un vaccino è un prodotto biologico: in esso sono contenuti gli antigeni, ovvero microrganismi o parti di essi che, una volta somministrati ad un soggetto, ingenerano la risposta immunitaria del suo corpo. La differenza tra il vaccino e la malattia vera e propria è che il primo simula la malattia, induce il corpo a rispondere ad una malattia - che non c’è - per mettere in condizione l’organismo di essere già pronto alla reazione qualora entrasse in contatto con la malattia vera, “selvaggia”. Pertanto dire che con il vaccino viene somministrata la malattia nell’organismo del ricevente è del tutto sbagliato, un luogo comune privo di fondamento: ad essere somministrato è un antigene, non il virus o il batterio causa della malattia. Sappiamo che esistono dei vaccini obbligatori ed altri che non lo sono. Quali sono quelli obbligatori e perché per alcuni è previsto un regime differente? I vaccini obbligatori oggi, per legge, sono tre: per la difterite, per il tetano e per la polio. Il motivo per cui questi sono obbligatori è un motivo puramente storico. La loro obbligatorietà è molto risalente nel tempo, intorno agli anni ‘50/’60, periodo in cui era mediamente diffusa l’incidenza di simili patologie. Nel ’91 è stata introdotta l’obbligatorietà anche del vaccino contro l’epatite B. Accanto a questi vi è una importante sequela di vaccini fortemente raccomandati, ma la cui eventuale evasione non comporta alcuna sanzione: sono i vaccini contro pertosse, morbillo, rosolia, parotite ed emofilus. E’ molto discutibile lasciare che alcuni di questi non siano obbligatori. Ad esempio la polio è una malattia quasi del tutto eradicata ma continua la vaccinazione obbligatoria, mentre l’emofilus è attualmente circolante con conseguenze pericolosissime: un bambino non vaccinato colpito dal virus potrebbe sviluppare la meningite e morire. Questo dualismo tra vaccini raccomandati ed obbligatori è finto, inutile o addirittura dannoso. Dunque dalle sue parole pare di capire che occorra un ripensamento della legislazione in materia. Assolutamente si. Le leggi sulle vaccinazioni sono obsolete e frammentarie. Sarebbe auspicabile un Testo Unico che regoli integralmente la materia e che superi questo dualismo artificioso tra vaccinazioni obbligatorie e raccomandate. L’obsolescenza della materia è tangibile: si pensi al neonato che fa il vaccino contro la pertosse, ma il medico che gli somministra il vaccino non è vaccinato poiché 30-40-50 anni fa tale vaccino non esisteva. E’ recente il caso di un’infermiera di un reparto di oncoematologia che ha contratto la varicella. La varicella di per sé è una malattia piuttosto banale, ma contratta da un bambino immunodepresso è mortale. Alla luce di quanto lei sta affermando non sarebbe il caso di rendere coercitivo l’obbligo di vaccinazione per il personale medico, impedendo ai non vaccinati di lavorare in strutture sanitarie, e ancor più per i bambini, subordinando l’accesso a scuole ed asili al corretto adempimento delle vaccinazioni? L’obbligo è declinabile in differenti modi. In Australia ad esempio è prevista l’esclusione dall’assicurazione sanitaria per chi sceglie di non vaccinarsi. Loro dicono: non ti vaccini? Allora ti curi a pagamento da solo. E’ una coercizione indiretta che però funziona. Negli Stati Uniti ci si può sottrarre alla vaccinazione dichiarando espressamente al medico la volontà di non vaccinarsi e i motivi di tale scelta, ed è impedito l’accesso alle scuole per i bambini non vaccinati. Diventa così impossibile sottrarvisi. Bisogna parlare quindi di incentivi e disincentivi, non di obbligo. Perché i genitori non vaccinano i bambini? Io non credo che si possa ridurre tutto alla diffusione di Internet. No, infatti non è solo quello. Premettiamo: la stragrande maggioranza dei genitori vaccina i propri figli, siamo comunque intorno al 90%. …però colpisce la diminuzione degli ultimi anni, dal 95% al 90%. Non è assurdo? C’è un motivo sociologico. Abbiamo genitori molto informati che però vivono un periodo storico di enorme sfiducia nelle istituzioni, che travolge tutto ciò che viene visto come “sistema”, e quindi indistintamente professori, medici, politici. Questi individui, sfiduciati, trovano in internet una quantità di informazioni spropositata che risponde alla loro disaffezione verso tutto quel che viene visto come istituzione, si auto-convincono delle loro opinioni finendo col ritenerle vere. Internet agisce come un amplificatore della sfiducia di questo periodo storico, è diventata la cassa di risonanza di un malanimo che ha le sue radici in tutt’altro, principalmente la crisi economica, ma che finisce col travolgere anche la scienza. E così si mescola la realtà con il complotto permanente, tutto diventa corrotto, pagato da Big Pharma, veicolato dalle lobby. Qual è la soglia di sicurezza? Il cosiddetto “effetto-gregge” a quale percentuale statistica risponde? Innanzitutto l’immunità di comunità – è abbastanza fastidiosa definirla “di gregge” – dipende dalla contagiosità della malattia. Ad esempio il morbillo, che si trasmette con molta facilità, richiede la più alta copertura possibile [è notizia recente un aumento, in Toscana, dei casi di morbillo: la percentuale di bambini vaccinati è scesa all’88%, ndA]. Esistono invece malattie come il tetano che non sono trasmissibili, quindi non si può definire alcuna soglia di copertura. Molto spesso la soglia del 95% è solo un obiettivo di sanità pubblica, rappresenta l’obiettivo concretamente realizzabile nelle campagne di vaccinazione. Il restante 5% è costituito da soggetti che non possono essere vaccinati o perché troppo piccoli o perché immunodepressi o semplicemente soggetti che non figurano nelle liste dell’Asl per problemi burocratici. Quali sono i reali rischi di un vaccino? I rischi sono ben conosciuti dalla scienza. In un soggetto sano, come ogni medicinale, un vaccino ha degli effetti collaterali molto accettabili. Partiamo con un esempio: gli effetti collaterali di alcuni farmaci usati per la cura di neoplasie sono devastanti, caduta di capelli, vomiti, desquamazione della pelle. Possono essere letteralmente tossici. Però questi farmaci vengono somministrati a causa della altissima probabilità di morte del soggetto: in una semplice analisi rischi/benefici è preferibile un effetto collaterale terribile rispetto al naturale decorso della malattia che sarebbe ancora peggiore. Il vaccino, essendo destinato ad un neonato, per forza di cose ha degli effetti collaterali estremamente blandi e tollerabili in confronto alla malattia che con esso si previene. Gli effetti collaterali tipici sono febbre, rossore, indurimento, dolore, che rapportati alla gravità, per esempio, della difterite, sono del tutto tollerabili. Il vaccino contro il morbillo, in 1 caso su 40mila, può dar luogo ad una diminuzione delle piastrine (piastrinopenia): la malattia del morbillo, invece, provoca piastrinopenia in 1 caso su 10. La differenza statistica è abissale. Esistono vaccini che hanno effetti collaterali gravi? No, nessuno. Si parla spesso dello shock anafilattico: questo è un falso problema dato che varrebbe per qualsiasi tipo di medicinale, e viene controllato tenendo il soggetto in osservazione per i dieci minuti successivi alla somministrazione del vaccino. Altre reazioni avverse invece non sono documentate, o lo sono in misura talmente minima – nell’ordine di 1 su un milione o anche meno – da non avere alcuna rilevanza statistica. Vale il discorso di prima: i benefici sono talmente elevati e diffusi da compensare enormemente eventuali svantaggi. Per quel che riguarda invece autismo o malattie neurologiche siamo di fronte a vere e proprie bufale, non esiste nessun caso di correlazione diretta tra la somministrazione del vaccino e l’insorgenza di patologie del genere: detto in termini poveri, è una balla colossale. Eppure risale a febbraio una sentenza della Cassazione che ha riconosciuto un danno da vaccino in un bambino, oggi quasi quarantenne, che nel 1981 ha contratto una encefalopatia epilettica dopo la somministrazione del vaccino. Come la spiega? Nutro forti dubbi su questa vicenda. Dopo 36 anni faccio fatica a pensare che le cartelle cliniche possano essere affidabili, ma ammettiamo anche che sia vero: i vaccini usati negli anni passati erano diversi da quelli odierni. Ad esempio il vecchio vaccino contro la poliomielite aveva come effetto collaterale, in 1 caso su 600mila, una paralisi post-vaccinale. In pratica un caso ogni tre anni. Quindi qualche caso effettivamente c’è stato. In molti altri casi, e posso parlare per esperienza personale avendo lavorato come perito in Tribunale, spesso viene accertata una verità puramente processuale, che è tutt’altra cosa rispetto a quella scientifica. Spesso ci si trova di fronte a cartelle cliniche vecchie, illeggibili, discordanti. Basta che su una delle svariate cartelle compilate da differenti medici in differenti ricoveri ci sia scritto “possibile danno da vaccino”, se non si riesce a dimostrare la diversa reale causa della malattia, si ricorre al danno da vaccino. Ma spesso così non è. Tuttavia gli antivaccinisti traggono linfa da queste sporadiche sentenze per confermare le proprie tesi, senza tener conto della realtà dei fatti, molto più complessa delle equazioni “vaccino = autismo” non comprovate da nessuna base scientifica. Il Professore si lascia andare, alla fine di questa chiacchierata, ad alcune considerazioni più personali, ma l’impressione che rende è sempre quella di un professionista equilibrato e preparato, che non ha bisogno di iperboli o paroloni per spiegare le proprie tesi, circostanza che infonde di per sé fiducia nell’ascoltatore. L’argomento dei vaccini è tristemente importante: è singolare che uno dei traguardi migliori della scienza medica, che insieme agli antibiotici ha contribuito a raddoppiare l’aspettativa di vita nel mondo nell’ultimo secolo, sia messo oggi in discussione. Ci sono esempi, però, che parlano da soli: forse molti ignorano che a causa del vaiolo, nel XX secolo, sono morte oltre 300 milioni di persone. A seguito di una massiccia campagna di vaccinazione portata avanti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità l’ultimo caso al mondo registrato si è avuto nel 1977. Da allora la malattia è stata eradicata, ovvero è letteralmente scomparsa dalla faccia della Terra, primo caso nella storia. Oggi, infatti, il vaccino contro il vaiolo non esiste più. E questo è forse lo scopo ultimo, fondamentale, di un vaccino: serve a fare a meno di esso.
Nel corso della storia si sono sempre susseguite icone di grandi uomini e donne, affreschi di vite che si sono contraddistinte per un innato senso di ribellione, di resistenza all’oppressore e che sono diventate con gli anni successivi dei modelli da cui attingere i paradigmi necessari e i valori per affrontare le epoche successive. È questo il caso di Tashunka Uitko , Cavallo Pazzo, o Crazy Horse così come lo chiamavano i bianchi, capo guerriero degli Oglala, una delle sette tribù indiane dei Lakota Sioux. Il suo nome è diventato un famosissimo night club di Parigi, una marca di birra particolarmente alcolica, ed è servito ad etichettare tutto quello che nel mondo bianco sembrava essere bizzarro, stravagante, eccessivo. Un nome dai connotati sinistri, inquietanti. Uno nome che è una minaccia.
La sua breve seppur intensa storia si intreccia con un destino beffardo e fatale che lo portò a morire giovane il 5 settembre 1877 ucciso a baionettate da un soldato già inerme e prigioniero. La sua morte è pregnante di significati e in particolare riassume in maniera simbolica la vigliaccheria e l’infamia perpetuata dai pionieri americani e dal governo federale degli Stati Uniti d’America ai danni di un popolo millenario e affascinate che abitava quelle pianure da ben più tempo dei conquistatori europei attraverso la sottrazione forzata dei loro territori fino alla distruzione sistematica dello stile di vita del popolo Lakota.
Fu un incredibile epoca di violenza, rapacità, audacia, sentimentalismo, sfrenata esuberanza, caratterizzata da un atteggiamento quasi reverenziale verso l’ideale di libertà personale di coloro che già la possedevano. Dipinti come primitivi urlanti e assetati di sangue dei pionieri, poi, dopo gli anni Settanta, come vittime innocenti e mansuete della crudeltà imperialistica dei bianchi, gli indiani sono intrappolati negli opposti stereotipi costruiti dalla cultura dei vincitori. Schiavo di questa dicotomia era lo stesso Cavallo pazzo considerato da una parte il nemico pubblico numero uno dai bianchi e un implacabile sanguinario, dall’altra una figura quasi sovrannaturale tra la sua gente, un guerriero mistico, un leader spirituale che i Sioux , venerano oggi come un messia segreto come uno spirito che ancora vive e vola sulla Prateria del Nord e sulla desolata miseria degli indiani di oggi. Quando fu decisa la “soluzione finale” William Sherman, comandante delle truppe del West, la teorizzò con lucido cinismo: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche a costo di sterminare donne e bambini”.
Alle parole seguirono i fatti: l’episodio più atroce (1864), che ha ispirato anche una canzone di Fabrizio De André, non toccò i Sioux ma i loro vicini Cheyennes: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono, scalparono e mutilarono 150-200 persone inermi, senza riguardo per il sesso o per l’età.
Fu qui che entrò in scena Cavallo Pazzo, prima a fianco di Nuvola Rossa, poi di Toro Seduto, infine da solo. La guerriglia andò avanti per due anni, poi i bianchi vennero a patti: i fortini sarebbero stati sgomberati e bruciati. La guerra sembrava chiusa con la vittoria degli indiani, invece si era solo spostata su un terreno più subdolo: se non si riusciva a sterminare i Lakota, si poteva però privarli dei bisonti, loro unica risorsa. Così la caccia, che i bianchi praticavano già dal 1850, diventò una strage sistematica e incoraggiata. Campione dell'impresa fu William Cody, detto Buffalo Bill, che tra il 1868 e il 1872 uccise da solo 4mila capi. La guerra aperta riprese quando si scoprì l'oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il colonnello George Custer, un avventuriero in divisa, cercò di occupare la regione. Ma Custer era odiatissimo dagli indiani, che lo chiamavano "Figlio della stella del mattino" per la sua abitudine di attaccare i villaggi all'alba, quando tutti dormivano. Perciò la sua entrata in scena fece da collante: ai Sioux, guidati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, si affiancarono i Cheyennes, memori del Sand Creek. Si arrivò così a Little Big Horn, dove l'odiato ufficiale fu ucciso con quasi tutti i suoi soldati. Era il 25 giugno 1876: per Crazy Horse fu il trionfo. Ma durò poco, Cavallo Pazzo e gli indiani, stremati dal freddo e dalla fame si rassegnarono a perdere quelle colline sacre, e combatterono la loro ultima battaglia nel gennaio 1877, poi a maggio il loro leader si consegnò in un campo profughi: di fatto era la resa e da li a poco sarebbe sovvenuta anche la morte. Nella nostra foga di demonizzare prima gli indiani e poi di beatificarli ci siamo dimenticati probabilmente di una verità tanto ovvia e fondamentale. Gli indiani non erano altro che un popolo con i propri usi e costumi, né santi né demoni ma prima di tutto un popolo composto da uomini inclini a tutto ciò che riguarda l’animo umano e le sue manifestazioni cui il ciclo implacabile della storia non ha concesso la corona dei vinti. Immagini tratte da: Immagine 1: https://www.google.it/search?q=cavallo+pazzo&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwiGjezCvYHUAhVJaxQKHYQGApEQ_AUIBigB&biw=1366&bih=659#q=cavallo+pazzo&tbm=isch&tbs=isz:l&imgrc=DsHPhlPQKpi5DM Immagine 2: http://www.qualitygroup.it/images/varie/in-evidenza/america-world/BuffaloRoundup_1.jpg Immagine 3: http://mediad.publicbroadcasting.net/p/hppr/files/201410/sand_creek_battleground_marker.jpg Immagine 4: Monumento a "Cavallo Pazzo" http://4.bp.blogspot.com/-2OrxCPtbeok/VdC-9EVgH4I/AAAAAAAAWO8/TKicg_-hk_8/s1600/crazy-horse-4.jpg “Hipsteroni di tutto il mondo, unitevi!” Poteva essere questo lo slogan del concertone del Primo Maggio 2017 che si è svolto a Roma, nella solita Piazza di San Giovanni, con la solita diretta della Rai, con i soliti sindacati ad organizzare l’evento che richiama migliaia di giovani da ormai 27 anni. Meno solito del solito è stato il nugolo di artisti esibitisi quest’anno. La classica linea politico-popolare ha ceduto il passo al fenomeno della musica indie, esplosa negli ultimi mesi, come dimostra la proliferazione incontrollabile di artisti che ruotano intorno all’orbita di questo genere. E a Roma c’erano quasi tutti: Le Luci della Centrale Elettrica, Motta, Brunori Sas, Lo Stato Sociale, Levante, Ex Otago solo per citare i più noti di questo genere che fa della scarsa notorietà un paradossale punto di forza. Alluvioni di critiche sono piovute da più parti, incentrate sull’inopportunità della scelta degli organizzatori di snaturare il senso profondo del concerto e della festa che fa da sfondo all'evento. Forse che i Modena City Ramblers sono più adatti a narrare le fatiche del lavoro, le nostalgie di un’ideale perduto a Cuba nella Rivoluzione, di quanto non lo sia un ragazzino pisano un po’ autistico che conturba gli occhi delle matricole universitarie col septum e lo zaino viola? Chissà. Probabilmente siamo di fronte a un passaggio generazionale che ha trovato conferma nella svolta compiutasi a Roma. La crisi delle ideologie o altre retoriche del genere, a guisa di rassegnazione nostalgica, che tanto garba agli opinionisti del Bel Paese, non attacca più. E non ci riesce perché chi muove queste critiche lo fa da un pulpito di moralismo noioso, slegato dalla realtà. I sindacati, Dio benedica i sindacati! Così obsoleti da sembrare i caratteri mobili di Gutenberg in un mondo di fibra ottica, forse c’hanno visto giusto nell’avallare la strategia di iCompany e Ruvido Produzioni, le due agenzie che hanno organizzato e prodotto l’evento. Non è un segreto che negli ultimi anni il concerto del Primo Maggio sia stato sempre meno frequentato: forse il disamore verso certe tematiche ha svuotato i treni dei portoghesi che, zaino in spalla, filtravano nei vagoni in viaggi della speranza per andare a riempire San Giovanni di vino e urlacci, con la gioia dei vent’anni e la partecipazione di un insieme. I sindacati hanno tentato paraculisticamente di cavalcare l’onda della moda per rilanciare l’evento, parlando ad una platea di giovani diversa, moderna, riuscendoci – numeri alla mano – solo parzialmente. Chi disconosce questa scelta pregiudizialmente è bene che rimanga in casa ad ascoltare i suoi artisti preferiti ché qui all’improvviso è arrivato il futuro. Il fenomeno indie è intrinsecamente legato alla mutazione del panorama sociale: in un mondo in cui il collettivo conta sempre meno sta emergendo una musica che parla all’individuo, ma con le stesse tematiche di trent’anni fa. Ciò che sta cambiando sono il modo e il linguaggio, ma non il contenuto. I professionisti della sinistra fatta bene andassero a guardare l’esercito dei giovani che aderiscono al mondo indie: si accorgeranno che ogni classificazione è liquida e pertanto inutile. Sì, i ragazzi dei Parioli con l’Audi di papà ascoltano indie leggero perché suona bene. Ma anche nei centri sociali di Bologna ascolta indie il punkabbestia con la ketamina nascosta nel collare del cane. E poi ascolta indie la liceale di Milano che vive di collarini e big like su Instagram. Però pure quella che studia medicina a Napoli ed è un cranio, che passa le giornate sugli atlanti di anatomia ascoltando gli Eva Mon Amour che la fanno stare bene. Perché oggi c’è bisogno di parole nuove, ed è questo il messaggio che bisogna cogliere. Non chiamatela musica leggera. Qualcuno di loro sì, la fa. Ma molti, molti altri di leggero hanno solo la voce e la chitarrina in sottofondo. La modernità ci sta facendo riscoprire la musica cantautorale e non è un caso che stia accadendo ora, dopo il crollo di un sistema economico e sociale che ha lasciato parecchie macerie e una tonnellata di incertezza per centimetro cubo di materia grigia nella generazione nata negli anni ’90. Le parole di Vasco Brondi piuttosto che di Francesco Motta parlano alla confusione. Non danno risposte perché risposte non ce ne sono. Non cantano di un’ideologia, e nemmeno della fine dell’ideologia. Parlano ai testimoni di un dopoguerra senza guerra. Ai nativi digitali che consumano cristalli liquidi e giga come l’eroina negli anni ’70. Dunque no, non scandalizziamoci se invece di "Beppeanna" della Bandabardò da quest’anno avremo nelle orecchie "L’uomo nero" di Brunori Sas. E tu che scuoti la testa mentre ti dico che ora servono nuove parole, ricorda che l’utopia è rimasta ma la gente è cambiata: la risposta ora è solo più complicata. 1/5/2017 Una storia sbagliata – la Liberazione dalle parole nello squallore umano di Sant’AnnaRead NowA metà della salita l’auto sembra cedere. Superato il terzo, il quarto tornante della collina su cui sorge il fantasma di Sant’Anna di Stazzema, le piccole frane vicino la carreggiata iniziano a mettere ansia: un senso di sordo pericolo ti sfiora la mente, in un andirivieni di sensazioni ambigue, diviso come sei tra i generosi fianchi rocciosi della montagna e le vedute sterminate che affondano nel mare blu della Versilia. L’auto però non cede e coraggiosa si inerpica su per una strada infame, un contagocce d’asfalto delimitato dal guardrail arrugginito piuttosto che dagli strapiombi verdeggianti cipressi e olivi. Posso solo immaginare, a costo di sforzarmi non poco, quanto fosse drammatico percorrere negli anni ’40 questo squarcio obliquo, ricavato dall’uomo tra le pietre selvagge. La tenacia di obbedienti quadrupedi condusse attraverso questa lingua di fatica decine e decine di famiglie. L’orrore della guerra metteva più paura della montagna e l’inaccessibilità geomorfologica di Sant’Anna doveva rappresentare una salvezza più che una minaccia. Il mare rappresenta la libertà, la montagna la serenità. Dev’essere per questo che percorrendo la litoranea, sia essa in Salento o nel Sud della California, alziamo il volume dello stereo con i pezzi che ci ricordano un’adolescenza mai del tutto sopita, un amore lontano, con la voglia di canticchiare che contagia tutti, insieme ai finestrini tirati giù e il braccio penzoloni che stringe una sigaretta e tocca i ramoscelli di rosmarino selvatico che spuntano dalle dune fin sul ciglio della strada. Dev’essere per questo che lo stereo si spegne da sé mentre percorri certe salite. Quasi per devozione il segnale telefonico che ti collega perennemente al tuo circo preferito salta, tranciando la canzone di Guccini che avevi in sottofondo. Parli con i tuoi compagni di viaggio ma lo fai a bassa voce. Spontaneamente, ma te ne accorgi solo dopo. Arrivi nel paesino di Sant’Anna e sei accolto dalla pietra. È tutto roccia, pietra, granito, marmo. Una sensazione di pura durezza, acuita da nuvole così basse e grigie che sembrano pronte ad accarezzarti il capo e piovere nel cappuccio del tuo giubbino. Non è comodo qui. Non doveva esserlo nemmeno il pomeriggio dell’11 agosto 1944. Da alcuni mesi migliaia di persone avevano trovato riparo sulle montagne dell’appennino tosco-emiliano per sfuggire ai combattimenti sanguinosi che si consumavano sulla linea Gotica, pochi chilometri più a sud. I padri avevano portato mogli e figli a ripararsi nei paesini di montagna, convinti che l’alba stesse per arrivare, che i partigiani stessero per liberare queste terre d’acqua e allegria dal dominio delirante di uomini bui, che giocavano a far la guerra dai loro quartier generali abbracciati da mura di cemento spesse due metri, senza suoni, senza amputazioni, senza emozioni. Quegli uomini avevano ragione: l’alba arrivò per davvero. E l’alba del 12 agosto 1944 non la scorderanno più. Non bisogna faticare per immaginare come andò quella mattina. Saranno i videogame, i telegiornali, i telefilm americani, ma sappiamo come raffigurarci la violenza più spietata. Sappiamo come riprodurre nella testa il suono di un mitra, pur non avendolo mai visto sparare. Sappiamo quanto sia semplice eseguire un ordine, dal momento che la disobbedienza non è contemplata nei codici militare, meno che mai nel bel mezzo di un conflitto. Sappiamo immaginare come dev’essere un fienile in fiamme con le bestie che gridano impaurite. Non c’è niente di speciale in tutto questo. È quasi scontato, non ci sarebbe molto da raccontare. Ciò che rende Sant’Anna di Stazzema una violenza psicologica è l’immagine della minuscola piazza centrale del paese, a cui non si può chiedere più che una chiesa e quattro case. Ciò che non si riesce a immaginare è l’odore che ha sentito il primo soccorritore, appena giunto in questa gioielleria di pietre non preziose quel 12 agosto. Pensare all’odore del sangue di Anna Pardini, che aveva due mesi quando morì vittima di una aritmetica malvagità, è come pensare alle dimensioni dell’universo: posso sforzarmi, ma a un certo punto la testa si ferma da sola perché smette di avere senso ciò a cui sto pensando, perché sono un essere limitato e ne sono consapevole. Un particolare di Guernica, riprodotto su una targa posta sul Museo della Resistenza, raffigura una donna che urla. Probabilmente non è l’urlo delle vittime. E’ l’urlo di chi ha visto le vittime, e non resiste a pensare di condividere lo stesso suolo, la stessa aria, la stessa specie animale delle bestie che hanno sterminato centinaia di donne una mattina d’agosto che doveva essere meravigliosa, nell’esplosione dei fiori violetto che agghindano i bordi dei sentieri e i concerti dei volatili che abitano i rami degli alberi. Una scultura bronzea disperata accoglie noi, pellegrini della memoria, al centro della piccola piazza, insieme ai pannelli di marmo con le frasi di poeti e intellettuali che hanno tentato di dare parole a un orrore innominabile. Sarà che già solo il rumore delle foglie secche che si rompono sotto i miei passi mi pare un frastuono, una musica inopportuna, ma le parole di quelle incisioni mi appaiono ridondanti. Utili per capire, per capire l’incomprensibile, eppure ne voglio fare davvero a meno. Quella statua invece no. Un corpo rachitico, schiena a terra, con le ginocchia sollevate a indicare la vulnerabilità del presente. Un corpo ferito. Scolpito con cruda destrezza dai piedi alla bocca. Al corpo mancano le braccia e il volto, e questo spiega meglio di mille parole come sia stato difficile, per chi è venuto dopo, guardare dentro l’abisso e toccare la crudeltà scientifica. La chiesetta che domina la piazza, il suo piccolo campanile coi larghi mattoni a vista, mi ricorda che è esistito un Dio qui, o almeno qualcuno che c’ha creduto. Fatico. Fatico a credere che si possa credere nel perdono mentre calpesto la terra della piazza che si imbevve del sangue più inutile che potesse versarsi. In pace come in guerra. Non cercherò Dio. Salgo. Salgo su un percorso che definirebbe agevole solo uno stambecco. Un nastro trasportatore di ciottoli e massi che si ficcano sotto le suole e fanno male davvero, come se la pendenza del sentiero non bastasse di per sé a ustionare i muscoli. Questa salita è dolorosa. Non deve essere un caso il nome, via Crucis. Quasi uno scherzo di cattivo gusto chiamare così la strada che porta all’Ossario delle vittime, nel punto più alto del paese. Andando avanti nel faticoso incedere dei passi il fiato è sempre più risicato, un debito d’ossigeno che stringe le corde vocali e induce a un silenzio forzato. Come se le parole fossero, ancora una volta, superflue, come se la croce di una storia infame la dovessi portare tu, casuale ospite della Storia. Un albero sradicato da chissà quale burrasca dorme sdraiato a lato del piccolo sentiero di sassi e acido lattico. Palesa così il suo lato più nascosto, occulto rifugio di vermi durante le piogge autunnali e ora cuore aperto durante l’operazione chirurgica del meteo, che l’anestesia del tempo sembra aver addormentato. Mi suggerisce di avere uno sguardo diverso, perché ciò che siamo abituati a vedere rigido e fiero accuccia sotto di sé un cuore di terra che pulsa di vita, a cui le radici sono violentemente aggrappate per morire un po’ meno, un po’ dopo, un po’ più lontano. Giunto in cima riprendo fiato. È la prima reazione naturale, ispirata dalla fatica e dal paesaggio maestoso che mi si para davanti. Ma dura poco, ché gli occhi vengono rapiti dal prisma di pietra che spicca alla mia sinistra. Quella che avevo scambiato da lontano per una torretta d’avvistamento, risalente alle guerre d’inizio Novecento, è in realtà il monumento più denso di significato. Un significato che in verità non c’è affatto. Alla base del monumento si trova una scultura agghiacciante. Una tomba di marmo bianchissimo con pezzi di corpi adagiati sopra, tra i quali spicca una donna che tiene in braccio un bambino. Ma gli occhi della donna sono impressionanti, quasi disturbanti, quasi penso che lo scultore e le autorità abbiano esagerato a donare uno sguardo così insopportabile ai pellegrini che si arrampicano su questo lembo di Appennino, schiantato di fronte al Tirreno. E la pesantezza psicologica di questo dolore marmoreo trova una pesantezza visiva, se possibile, ancora più atroce sullo sfondo: un’immensa lapide di granito con sopra incisi i nomi di oltre quattrocento delle cinquecentosessanta vittime della strage. È talmente grande, talmente densa di lettere, che mi avvicino e la tocco con le mani perché gli occhi possono essere ingannati, le mani no. È spessa quasi mezzo metro, alta oltre due, larga più di tre. Grigio scuro, come il cielo di questo 25 aprile. Mi colpiscono le vittime: sono tutte donne, o quasi, e moltissimi bambini. Ed è forse questa la prova più schiacciante della meschina bestialità della strage. Nessun pericoloso nemico, nessun centro logistico partigiano, nessuna santabarbara, nessun rifornimento. Donne che accudivano la prole, usualmente numerosa, in attesa che tornassero i mariti e che finisse quella cazzo di guerra diventata ormai priva di senso. E non ci sono molte altre parole di fronte a una carneficina così. Non dirò che sia stata una tragedia disumana, no, questo no. Sarebbe una giustificazione inaccettabile. È stata una strage pensata, voluta, studiata. Umanissima. Umani che hanno trucidato umani. I monumenti, le commemorazioni, le targhe, i musei, le lapidi. Questo sì che è disumano, freddo, artifici della memoria per sviscerare un dolore intraducibile, odio antico di un'umanità sempre alla ricerca di un nemico. Riscendo nella piazza, e torno con la mente a quel tizio, il primo soccorritore salito quassù dopo l’eccidio. E mi sento più vicino a lui che alle vittime, lo ammetto. Da qui, dalla prospettiva delle pupille di un giovane e anonimo abitante del terzo millennio, la sensazione non è mutata. Siamo cresciuti nell’illusione che ad aspettarci in cima alla salita ci fosse un mondo florido e virtuoso, salvo trasalire e ingoiare veleno per la delusione di trovare un paesaggio atroce, bruciato dalle guerre, violentato dal guadagno, affogato nella paura della diversità. Un rumore straziante di occasioni crollate e vite sprecate nell’inganno della forza che travalica la ragione. Verrebbe da mollare tutto, da sfogarsi in un pianto liberatorio e scappare da soli in un rifugio di apatia. Ma la storia non dice che quel soccorritore, il primo, fuggì via in preda alla disperazione. La storia racconta che il primo soccorritore chiamò il secondo. Poi il terzo. Poi il quarto. Poi il quinto. E poi le mani si sporcarono del sangue dei bambini e poi della polvere delle case e poi del letame delle bestie e poi della terra del selciato e poi della paglia dei fienili e poi e poi e poi. E poi ci sono uomini che hanno chiesto poco e dato tanto. Che non si sono fatti uccidere dal dolore del dolore. Che sono stati qualcuno che nessuno ricorda, a cui tutti dobbiamo rendere conto di aver avuto il coraggio di non morire lì dove io lo avrei fatto, ma anche tu. E non esiste insegnamento più grande dell’amore verso la vita quando la vita non c’è. Ché io, nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore; ma nella pietà che non ha ceduto al rancore, forse, una volta davvero, ho imparato l’Amore.
Quanto sta accadendo in Turchia nelle ultime settimane è destinato a finire nei libri di storia. Difficilmente cambiamenti così radicali passeranno sotto silenzio, ma anzi sono destinati a far rumore. Forse più di quello che possiamo udire noi contemporanei, che apprendiamo distrattamente frammenti di notizie senza riuscire a misurarne la portata. Volendo cercare un filo da riavvolgere occorre partire probabilmente dalle proteste del 2013 contro la costruzione di un centro commerciale nel parco Gezi di Istanbul. Una protesta pacifica e di stampo ecologista si trasformò ben presto in una contestazione del governo del Presidente Erdogan, che tentò di reprimere con la forza la manifestazione. Da lì in poi una escalation di autoritarismo ha inebriato il Sultano, che si è spinto fino alla chiusura di alcuni quotidiani d’opposizione nel solco del più classico dei regimi dittatoriali. Ma per ora noi la chiameremo democrazia. Il delirio di onnipotenza del governo turco ha raggiunto l’apice a seguito del tentato, presunto, ambiguo golpe del luglio 2016, operato da una frangia delle forze armate del Paese, cui è seguita la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Circa 150 morti, quasi 3000 arresti e 2500 tra magistrati e insegnanti rimossi dall’incarico. Il Presidente Erdogan ha assunto poteri straordinari consacratisi nel referendum costituzionale del 16 aprile 2017 col quale è stato di fatto sostituito il sistema parlamentare con un sistema presidenziale forte. Il quesito referendario ha ottenuto una risicata maggioranza, oltrepassando di poco la soglia del 50%; per tale motivo sono stati avanzati forti dubbi di brogli elettorali, stante la fortissima pressione mediatica e politica che il governo ha esercitato nei giorni precedenti e soprattutto il caso, sollevato dai partiti d’opposizione, delle schede elettorali non recanti il timbro ufficiale. I tribunali hanno tuttavia respinto questa ricostruzione dei fatti, e le opposizioni hanno minacciato di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che invero non ha competenza in Turchia poiché l’adesione del Paese venne sospesa all’indomani del golpe del luglio 2016. Una situazione che, insomma, traccia una linea di demarcazione nettissima tra la struttura statale del Paese di mezzo, epico ponte geografico tra Europa e Asia, e la democrazia. Nello specifico, la riforma della Costituzione approvata dal referendum ha come primo effetto quello di sovrapporre le cariche di Premier e di Capo dello Stato, con maggiori poteri a quest’ultimo che potrà nominare personalmente i ministri, alcuni alti funzionari pubblici e 3 membri del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre a sottoporre la legge di bilancio al Parlamento. Il Parlamento, inoltre, si vede ridurre i margini di controllo sull’operato dell’esecutivo attraverso nuovi ostacoli ai suoi poteri di vigilanza. In buona sostanza stiamo assistendo a un accentramento dei poteri statali in un unico ruolo, attualmente ricoperto da Erdogan, palesando in maniera preoccupante la reversibilità del sistema democratico, monito per tutti i Paesi ‘evoluti’ che non basta aver raggiunto uno standard accettabile di democrazia ma occorre mantenerlo. In periodi come quello attuale, sferzato dal terrorismo internazionale e dalla crisi economica, la storia insegna che il populismo cede facilmente il passo all’autoritarismo, anticamera di conflitti sanguinosi. La Turchia rappresenta anche geograficamente il primo Paese di frontiera, al confine tra la civile Europa e la barbarie delle guerre mediorientali: è stato il primo a cadere vittima dell’uomo forte al comando, che sa come, dove, cosa e quando risolvere i problemi, per quanto grandi siano, calpestando elementari diritti umani proprio come in quei Paesi martoriati da guerre e terrorismo. Calpestando i diritti di Gabriele Del Grande, ad esempio, giornalista italiano detenuto da ormai 13 giorni nel Paese turco senza un capo d’imputazione, colpevole di provenire dalla Siria, dove era andato a intervistare profughi di guerra. Il clima è tesissimo e la comunità internazionale sta prendendo pericolosamente tempo, conscia del fatto che Erdogan è diventato ben più di un Presidente di uno Stato di frontiera, bensì è a tutti gli effetti il capo indiscusso di uno Stato dove la libertà ha subìto una restrizione inaccettabile, ma effettiva. E per ora, noi, la chiameremo col suo nome: dittatura.
Immagine tratta da vignetta di Joep Bertrams “Mi sono rotto il cazzo della sicurezza come fiera della forca, sarebbe bello bruciassero meno fabbriche e crollassero meno scuole e scippassero più vecchiette” ha scritto Alberto Cazzola, cantante de Lo Stato Sociale. Un verso sarcastico che circoscrive però un problema sentito dalla società moderna, ovvero la sicurezza. O meglio, la percezione della sicurezza. I due concetti divergono in maniera piuttosto netta, specialmente negli ultimi anni. È notizia delle ultime ore che il Questore di Milano Marcello Cardona abbia ammesso di essere sommerso dalle richieste di concessione di porto d’armi, che vengono puntualmente negate. Non è difficile capire il motivo di un numero così alto di cittadini spaventati dall’aumento della criminalità: negli ultimi anni abbiamo assistito a un’esplosione delle notizie di cronaca riprese dai mass media. Notizie crude, bagni di sangue, rapine violente. E poi l’annosa questione della legittima difesa e dei suoi limiti legali, su cui non ci soffermeremo in questa sede ma che costituisce naturale corollario della smania di difendersi in modo sempre più libero, forse fino al punto di offendere. Tuttavia, questa escalation di terrore mediatico si scontra con la realtà e con l’aritmetica. Una rapida occhiata alle statistiche giudiziarie dell’Istat delinea un quadro ben diverso da quello percepito: negli ultimi anni i reati sono costantemente calati. Tra il 2014 e il 2015 (gli ultimi anni per i quali siano disponibili statistiche complessive) sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria circa 200mila reati in meno. Anche i reati che creano più allarme sociale, quali furti e rapine, sono in costante decremento, soprattutto queste ultime. Eppure la sensazione di insicurezza è capillarmente diffusa nella società moderna. Un ruolo enorme è svolto dai social media: il costante profluvio di informazioni microscopiche, vaghe, frammentate, talvolta completamente false aumenta lo scollamento tra quanto percepito e il reale status quo. Tuttavia questo argomento ci porterebbe lontano, a discutere sull’analfabetismo funzionale, che non può essere spiegazione esauriente del problema in oggetto. Argomento più pertinente, invece, che contribuisce ad aumentare una sensazione di scarsa tutela del cittadino, è il funzionamento dell’apparato giudiziario. Secondo una diffusa opinione, suffragata da un recentissimo sondaggio apparso su La Repubblica nelle ultime ore, il sistema giudiziario italiano è visto come scarsamente indipendente: oltre il 60% degl’intervistati lamenta la mancanza di terzietà degli organi giudicanti, e solo il 2% è molto soddisfatto della giustizia (in Danimarca è l’86%, in ossequio all’esterofilia del “fuori è meglio” sempre e comunque). Trattando di sicurezza, circoscriveremo l’analisi al funzionamento del sistema penale. Anche qui, infatti, la popolazione denuncia carenze enormi che non sembrano essere così fondate. Ad esempio siamo portati a pensare che i processi durino troppo: ciò è indiscutibilmente vero nel sistema giudiziario civile e amministrativo, mentre è del tutto falso per ciò che riguarda quello penale. I tre gradi di giudizio si svolgono, in media, in tre anni e mezzo, poco oltre la media europea, equivalente al periodo medio di tempo del solo processo di primo grado nel settore civile. Ciò significa che i reati vengono perseguiti eccome, in barba alla teoria un po’ qualunquista secondo cui nel nostro Paese delinquere conviene. E in barba a chi dice che in galera non ci va mai nessuno: il problema del sovraffollamento carcerario dovrebbe bastare, di per sé, a smentire quest’altro assunto. Anzi, probabilmente nel nostro Paese si va in galera un po’ troppo facilmente: circa un terzo dei detenuti non ha una condanna definitiva ma è in attesa di giudizio. Tutti questi dati messi in fila possono confondere, ma una lettura sistematica ci consente di affermare che il nostro Paese è ben più sicuro di quanto non ci appaia, che delinquere non conviene affatto, che in galera si va eccome, forse addirittura troppo. Le spinte populiste degli ultimi tempi hanno contribuito senza dubbio ad accrescere le paure dei cittadini, sempre più scollati dalla realtà, non solo in tema di sicurezza ma anche di immigrazione; per citare un caso clamoroso, gli extracomunitari nel nostro Paese sono il 5,8% della popolazione ma un sondaggio della Ipsos nel 2016 ha svelato che gli italiani suppongono siano il 30%, ovvero oltre un quintuplo del reale. Il vero dramma, in questo dedalo di numeri e statistiche, è la constatazione che ci si affida più alle notizie apprese di sfuggita in un telegiornale o alle flash news dei social piuttosto che dei propri stessi occhi. La lamentela perenne sta sostituendo il calcio come sport nazionale e stiamo giocando una partita in cui, pur avanti nel punteggio, continuiamo a credere di essere sempre in fondo. Finendo così per starci davvero. Immagine tratta da pinterest.com Chi scrive, esattamente come chi legge, non ha alcuna prova certa e inoppugnabile che il governo del Presidente siriano Bashar Al-Assad sia diretto responsabile dell’attacco del 4 aprile scorso, compiuto con armi chimiche nella provincia di Idlib nella Siria nord-occidentale, che ha causato oltre 70 morti civili di cui circa 20 bambini. Ci sono però indizi gravi, precisi e concordanti sulla responsabilità del governo centrale, tale che sia possibile attribuirgli con discreto margine di sicurezza la paternità dell’attacco. Innanzitutto i precedenti: è stato accertato da organizzazioni internazionali (l’Onu) che nell’agosto del 2013, nell’aprile 2014 e nel marzo 2015 in Siria si sono verificate operazioni di guerra attraverso l’uso di armi chimiche; si è trattato di missili carichi di gas sarin, una neurotossina che paralizza il sistema nervoso, e bombe al cloro, che provoca morte per asfissia. Gli attacchi, compreso quello recente, sono sempre avvenuti sul territorio controllato dai ribelli, i gruppi islamisti che puntano a sovvertire il governo legittimo di Assad. Tale eventualità sembrerebbe deporre con una certa ragionevolezza per la tesi che vuole il Governo responsabile dei massacri. Per loro natura le armi chimiche, quelle batteriologiche e quelle radioattive hanno effetti incontrollati sul territorio circostante, non è possibile definire con esattezza il loro raggio d’azione, ed è questo il motivo – ipocrita ma comprensibile – per il quale il loro uso è sanzionato come crimine di guerra. Appare dunque inverosimile che possano essere gli stessi insorti a utilizzare tali armi nel loro stesso territorio; il terrorismo, invero, non segue criteri logici, ma punta ad ingenerare irrazionale paura nei civili per renderli fragili e manovrabili. Tuttavia per quanto detto poc'anzi, una simile strategia politico-militare sarebbe sconclusionata se portata avanti con armi non convenzionali, stante la possibilità per i carnefici di danneggiarsi da sè. Infatti esse possono avere effetti sinergici imprevisti, avvelenare falde acquifere o la stessa aria: quale organizzazione, per quanto criminale, punterebbe a difendere o conquistare territori avvelenati? Inoltre le armi chimiche hanno canali differenti dalle armi “comuni”: la loro produzione è controllata (in virtù della Convenzione Internazionale sulle armi chimiche del 1997) e dunque la loro circolazione è ben più ardua dei kalashnikov onnipresenti negli scenari di guerra e guerriglia da 30 anni a questa parte in Africa e in Medioriente. Pare quindi molto difficile che i ribelli possano accedervi; tuttavia secondo la rivista Bloomberg “non è da escludere che i ribelli possano avere accesso ai depositi militari”. Un’ipotesi da prendere in considerazione, ma che tuttavia si scontra con la logica di utilizzare tali strumenti di sterminio umano ed ambientale sul proprio territorio. Inoltre le testimonianze dell’attacco del 4 aprile sono univoche nel dichiarare che l’attacco è piovuto dall’alto a opera dell’aviazione militare; la difesa isolata del Presidente Assad – sostenuta solo dall’alleato russo in sede di Consiglio di Sicurezza dell’Onu – ha invece dichiarato che è stato un attacco convenzionale su alcuni depositi militari dei ribelli, contenenti armi chimiche, a perpetrare la strage. Le autopsie eseguite in Turchia su alcune vittime (alla presenza di delegati dell’Oms) hanno appurato che è stato usato del cloro nell’attacco: le immagini dei corpi spastici e schiumanti sono lì a testimoniarlo. La tragedia siriana pare infinita, l’Unicef ha sentenziato che nell’attacco del 4 aprile nella provincia di Idlib “l’umanità è morta”. Morta in un esperimento sbagliato, proprio come noi, idioti, che moriamo di paura ogni giorno che cambiamo canale per sentirci meno colpevoli, meno coinvolti. Meno umani. Immagine tratta da www.tgcom24.mediaset.it
Consegnata la lettera di notifica dell'articolo 50 del trattato di Lisbona che dà il via all'operazione Brexit. Intanto la Scozia vuole un nuovo referendum per staccarsi dalla Corona.
Ci sono voluti ben 9 mesi, ma alla fine Brexit sarà. Dopo tutto questo tempo qualcuno aveva sperato in possibili ripensamenti dell'ultima ora, dato che il parlamento avrebbe dovuto approvare quanto il referendum dello scorso giugno aveva sancito. In effetti, nel corso di questi mesi, diverse sono state le manifestazioni, i dibattiti e i talk show in Inghilterra (e non solo) che contestavano la decisione popolare, evidenziandone rischi e difetti per il popolo anglosassone, ma non hanno prodotto gli effetti sperati. Mercoledì 29 marzo, l'ambasciatore britannico all'UE, Tim Barrow, all'indomani dell'approvazione referendaria del parlamento, ha presentato la lettera di notifica al presidente del consiglio europeo, Donald Tusk, così come previsto dal trattato di Lisbona. La lettera, firmata dal premier Theresa May, ha dato il via all'iter burocratico che sancirà l'uscita definitiva della Gran Bretagna dall'UE tra due anni.
Dopo i grandi dibattiti in seguito al risultato del referendum, altri se ne sono aggiunti dopo la consegna della lettera. Com'era prevedibile, diverse sono stati le reazioni. Theresa May ha parlato di scelta storica, dichiarando di aver voluto credere nel suo popolo e sostenendo che i giorni migliori per la Gran Bretagna arriveranno dopo la Brexit. Di orientamento completamente opposto le dichiarazioni dei più importanti capi di stato che fanno parte dell’UE (almeno per il momento). La cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato come sperasse che questo giorno non arrivasse mai; il Presidente francese Hollande ha previsto giorni difficili per la Gran Bretagna dopo l'uscita dall' UE e il premier italiano Gentiloni ha auspicato che questo shock rappresenti un'opportunità di rilancio e risveglio per l'Europa. Non poteva poi mancare la reazione di Bruxelles che, a dirla tutta, è stata meno diplomatica rispetto a quella dei suoi partners. Infatti, il presidente della commissione europea Jean Claud Juncker, ha predetto che un giorno i britannici rimpiangeranno la loro scelta perché, a parer suo, l'unione è il miglior posto dove stare nel mondo. Ancora più duro è stato il commento del presidente del consiglio Tusk che non solo ha ribadito che a perderci saranno i britannici, ma ha sottolineato come non ci saranno negoziazioni di nessun genere. L'uscita della Gran Bretagna sarà totale, neanche la sicurezza sarà moneta di scambio e, soprattutto, dovrà rispettare gli impegni finanziari presi fino a oggi con tutti i 27 paesi dell'UE. Il premier May sembra aver percepito una certa ostilità di Bruxelles da parte dell'ex partner e ha anche ribadito che la Gran Bretagna non farà parte del mercato comune perché con il referendum sulla Brexit il regno si è riaggiudicato il pieno controllo sui confini e la piena sovranità. Intanto è proprio su queste ultime tematiche che la Scozia, per voce del suo premier Nicola Sturgeon, è tornata a richiedere a gran voce e ufficialmente un nuovo referendum per l'indipendenza dalla Corona britannica. Ricorderete che nel 2014 ci fu già un referendum in Scozia dove si votò per la permanenza, ma oggi, dopo la Brexit, le condizioni sono cambiate per il premier scozzese. In effetti nella regione scozzese il no alla Brexit fu piuttosto netto e ora, in nome di quella piena sovranità che ha portato la Gran Bretagna all'uscita dall'UE, la Scozia pretende di avere la stessa opportunità.
Questa ondata scozzese di europeismo è comunque in netto contrasto con quello che succede in tutta Europa. Se da una parte in Olanda la vittoria del liberale europeista Rutte nei confronti del populista e antieuropeista Wilders ha dato ossigeno all'UE, dall'altra i prossimi appuntamenti elettorali rischiano di minare seriamente la credibilità della stessa. Le elezioni, prima in Francia poi in Germania e, chissà, magari anche in Italia, ci diranno molto sull'effetto che la Brexit ha avuto sull'intera Europa.
Immagini tratte da: -http://www.ansa.it/sito/notizie/speciali/2017/03/28/brexit-may-e-un-momento-storico.-scozia-chiede-referendum-bis-su-indipendenza_5bf3663a-e90d-4c6b-85f5-b29f68604629.html -http://www.repubblica.it/esteri/2017/03/31/news/brexit_tusk_sicurezza_non_sara_moneta_di_scambio_-161859241/ Com’è noto, a un anno esatto dagli attentati di Bruxelles, il 22 marzo Khalid Masood ha compiuto un atto terroristico nel cuore di Londra, tra il ponte di Westminster e il Palazzo di Westminster, sede del Parlamento inglese. La dinamica sembra essere stata chiarita dagli investigatori: l’uomo, insegnante di inglese, dopo aver noleggiato un Suv, lo ha diretto sulla folla che attraversava il ponte di Westminster – per lo più turisti – finendo per schiantarsi sulla cancellata del limitrofo Palazzo delle Camere. Sceso dall’auto, si è diretto contro un uomo della sicurezza accoltellandolo a morte, per essere poi ucciso a sua volta da due agenti in borghese che pattugliavano l’edificio. In totale le vittime sono 5 (compreso Masood), quaranta i feriti tra cui alcuni in condizioni molto gravi. Fin qui la stretta cronaca. A metter bocca su temi del genere si rischia di sprofondare in un oceano di qualunquismo, retorica e luoghi comuni. Possiamo invece provare una delle credenze popolari più diffuse snocciolando dati, perché per trovare risposte occorre innanzitutto porsi le domande giuste. Il multiculturalismo è dai più additato come causa degli attentati, poiché gli immigrati sarebbero gli autori degli attacchi ai valori occidentali. Nulla di più falso, come spesso non si sottolinea a sufficienza. L’attentatore di Londra, Khalid Masood, era nato a Erith, contea di Kent, nel sud della Gran Bretagna, col nome di Adrian Russell. Era inglese quanto la Regina Elisabetta, per intenderci. Nel successivo processo di radicalizzazione pare avesse aderito alle correnti più estremiste dell’Islam e avesse cambiato il suo nome in quello con cui i giornali e le autorità lo hanno identificato. Gli autori dell’assalto alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, sanguinoso apripista degli attentati francesi degli ultimi due anni – ma anche dell’ipocrisia 2.0 della communis opinio occidentale – furono tre ragazzi francesi, Said Kouachi, Chèrif Kouachi nati a Parigi, e Hamyd Mourad. Parigini come i bistrot di Monmartre e le muse dei pittori del Novecento. Gli attentatori che la sera del 14 novembre 2015 commisero una vera strage tra le vie di Parigi, colpendo in diversi modi e tempi obiettivi sensibili ma anche centri del tutto casuali, erano probabilmente 7 e solo uno di loro era nato fuori dai confini della Vecchia Europa, in Siria, entrato nell’UE infiltrandosi tra i migranti sbarcati in Grecia. Gli altri erano cittadini francesi e belgi. Ancora. Gli attentati del 22 marzo 2016, all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles, furono compiuti da Najim Laachraoui, Khalid e Ibrahim El Bakraoui, tutti e tre nati in Belgio, gli ultimi due nella stessa Bruxelles, belgi quanto i famosi e odiati cavolini che la Clerici ha sdoganato in tv. Infine, l’attentatore che il 14 luglio dello scorso anno fece strage per le vie di Nizza, lanciandosi con un camion sulla folla festante, che godeva lo spettacolo dei fuochi sul lungomare per celebrare la festa della Repubblica, era Mohamed Bouhlel, nato in Tunisia, residente dal 2005 in Francia. Così come tunisino era Anis Amri, attentatore che, con le medesime modalità, aveva falciato i passanti tra le strade del mercatino natalizio di Charlottenburg, a Berlino; era in Europa dal 2010. Dunque, la maggior parte degli attentatori che negli ultimi due anni ha seminato il panico nelle capitali europee non solo ha la cittadinanza comunitaria, bensì è nata nel territorio europeo. Non sarà sfuggito, tuttavia, che i nomi appena elencati richiamano la cultura araba. E infatti tutti gli stragisti hanno origini arabe, sono le cosiddette Seconde Generazioni, ovvero figli di immigrati che sono nati e cresciuti sul territorio del Paese in cui si trasferirono tempo addietro i genitori. Pertanto il problema dell’immigrazione e del suo eventuale blocco è del tutto fuorviante se rapportato al terrorismo di matrice islamica. Il vero nocciolo della questione appare piuttosto l’inclusione/esclusione sociale delle Seconde Generazioni. Bisogna comunque essere obiettivi: i figli della Seconda Generazione sono milioni, e se non sono tutti intenti a farsi saltare in aria in qualche stazione della metro vuol dire che il binomio radicalizzazione più stragismo attiene più a cause psicologiche, individuali, che a cause sociopolitiche. Il collegamento tra gli stragisti e lo Stato maggiore dell’Isis deve essere dunque preso con le molle, per non rinfocolare semplificazioni pericolose. Nelle paure è fin troppo facile generalizzare e addossare le colpe di tutto questo orrore a una religione, a un’ideologia. Il mondo dell’Islam è frammentato e spinoso; complessivamente i musulmani sono oltre un miliardo e mezzo e criminalizzare un simile numero di persone è banale come l’intervista di un calciatore a fine partita. Il multiculturalismo, semmai, appare la vittima degli stragisti: infatti gli attentati sono stati compiuti in metro, aeroporti, stadi, locali notturni, mercatini, strade principali affollate. Posti di passaggio, di ritrovo di comunità, nei più grandi centri d’Europa. Nessuno può aspettarsi di camminare sul ponte di Westminster e trovarci solo britannici doc, né tantomeno trovare pura razza teutonica per le strade di Berlino in prossimità del Natale, figurarsi in un aeroporto belga un martedì mattina qualunque. Il multiculturalismo è la vera vittima: sono decine le nazionalità delle vittime di tutti questi attentati, mentre pochissime quelle degli attentatori. L’islamizzazione – espressione apocalittica in voga ai giorni nostri – della cristianissima Europa pare essere uno spauracchio da sventolare nei talk show più che una reale minaccia. Quello che è intollerabile per gli attentatori, a mettere in fila i dati a nostra disposizione, è la possibilità di un mondo aperto, dove lo scambio supera di gran lunga l’avida difesa delle proprie posizioni. La stessa espressione ‘guerra di civiltà’, che viene tirata fuori a ogni piè sospinto da cinici sobillatori delle masse, è estremamente fuorviante. La guerra presuppone due entità che si controbattono mentre attualmente la rappresaglia è a senso unico. È uno stile di vita, quello della generazione Erasmus, per semplificare, che viene odiato, la dinamicità del mondo moderno. I muri sarebbero la guerra, impedire a un ragazzo africano o mediorientale o indiano di studiare nelle nostre Università sarebbe una guerra di in-civiltà che, se è vero come è vero che siamo figli della Grande Europa, la quale è un’idea prima ancora che un continente geografico, dobbiamo a tutti i costi evitare. Immagine tratta da www.ilrepubblica.it Alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare, direttamente o tramite amici parenti e conoscenti, con i voucher. Il voucher (termine improprio, la dicitura corretta sarebbe “buono lavoro”) è una forma di retribuzione semplice e veloce, dal valore di 10 €, perché funge da pagamento di una prestazione lavorativa senza bisogno di contratti, buste paga e lungaggini burocratiche varie. Peculiarità: si riferiscono alla prestazione di lavoro occasionale, dunque sono inutilizzabili per i rapporti di lavoro stabili. Almeno in teoria. La loro introduzione si deve alla Legge Biagi del 2003, dal nome del giuslavorista Marco Biagi assassinato dalle Nuove Brigate Rosse l’anno prima, a opera del Governo Berlusconi. Inizialmente destinati a retribuire solo le prestazioni di lavoro domestico (per intenderci colf e badanti), il loro utilizzo è stato progressivamente esteso da tutti i governi che si sono succeduti dal 2011 in poi – i famosi governi “non eletti” dal popolo – fino ad abolire quasi tutti i limiti alla loro diffusione: si pensi che nel 2008 ne vennero venduti 500mila, nel 2016 circa 134 milioni. Naturalmente presentano pregi e difetti: il loro pregio indiscutibile, motore di ogni riforma volta alla loro diffusione, è la tracciabilità di pagamenti destinati altrimenti al nero. L’uso dei voucher ha fatto emergere una moltitudine sterminata di rapporti di lavoro, consentendo allo Stato di incamerare una fetta importante di gettito fiscale che sarebbe rimasta nelle tasche dei datori di lavoro. D’altronde, in un mercato del lavoro come quello moderno, caratterizzato dalla frammentazione dei rapporti di impiego che sono brevi, precari, saltuari, incerti, avere un mezzo che renda possibile pagare legalmente e senza formalità un prestatore d’opera è un indubbio vantaggio per entrambi i soggetti del rapporto, dipendente e imprenditore. Tale beneficio però cede molto facilmente il fianco al rovescio della medaglia, che diventa il peggior difetto di questo strumento: la fittizia attribuzione dell’appellativo “occasionale” a prestazioni di lavoro che sono tutt’altro che saltuarie. Non occorre una laurea per capire come gli imprenditori abbiano facile gioco a raffigurare come provvisori taluni rapporti, pagandoli con i voucher, per sottrarsi alle problematicità che portano in dote i contratti di lavoro “veri”. Quello che doveva essere uno strumento di emersione del nero è diventato spesso uno strumento di immersione del bianco, creando un’enorme zona grigia di lavoratori, spessissimo under35, privi di qualsiasi tipo di tutela, con dei contributi previdenziali microscopici (il 13% del costo di un voucher è rappresentato dai contributi destinati all’Inps), dunque ricattati dal solo miraggio di un guadagno immediato. Di questa espansione abnorme si è resa portavoce critica la Cgil, dando prova di aver dato – forse – vita a un primo passo verso un ammodernamento delle lotte sindacali, appiattite per anni sulle problematiche dei lavori subordinati ‘classici’, i quali appaiono oggi dei privilegiati di extra lusso agli occhi dei moderni subordinati sociali, trentenni flessibili come giunchi, precari come equilibri di trapezisti, che guardano al futuro con la prospettiva di un quadro di Gauguin. Dimenticato per anni, questo esercito di disoccupati o di male occupati viene finalmente preso in considerazione dal più grande sindacato nazionale che ha proposto e ottenuto l’indizione di un referendum abrogativo sulla normativa vigente che disciplina i voucher, con l’intento di circoscrivere il loro utilizzo al lavoro domestico, così come previsto in origine. Di fatto, condividendo l’impostazione del Governo Berlusconi II, all’epoca osteggiata con vigore, nel più classico dei paradossi in salsa tragicomica. Il Governo Gentiloni ha individuato la data del referendum, 28 maggio, ma due giorni dopo un decreto legge lo ha implicitamente annullato, poiché è intervenuto per modificare la disciplina legislativa che sarebbe stata abrogata dal referendum stesso, iniziando a invertire la rotta riducendo gli ambiti e i limiti legali del loro utilizzo. Di là dal caso concreto, quello cui stiamo assistendo è un ottimistico rigurgito di forza del diritto sindacale che esce dal suo classico giardinetto per curarsi di chi oggi assomiglia, a livello di tutele economiche e occupazionali, molto più ai coltivatori di cotone dell’Alabama di fine ‘800 che all’operaio metalmeccanico dell’acciaieria sotto casa. Un solco che le politiche del lavoro europee stanno contribuendo a scavare, ponendo inadeguati argini alla post-industrializzazione aiutata dalla crisi economica, in un mondo che torna ai suoi albori nello squilibrio tra lavoro e capitale. Purtroppo, la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Eppure qui non ride nessuno. Immagini tratte da http://www.ilfattoquotidiano.it/
La giungla del web si arricchisce quotidianamente di pagine di cui avremmo fatto, forse, volentieri a meno. Una diatriba su tutte sta rappresentando il paradigma moderno della dialettica sociale che viaggia sui social, nell'obsolescenza della carta stampata. La guerra dei mondi, indefinibile nei suoi contorni penalistici e moralistici: stiamo parlando della faida tra la giornalista Lucarelli e un indistinto agglomerato di utenti dei social media, rappresentati dal sindacato di 'Sesso Droga e Pastorizia'. Innanzitutto definiamone i contorni soggettivi: da un lato una persona, una giornalista, una professionista più o meno nota, più o meno apprezzabile. Dall'altro lato l'operazione è impossibile. "Popolo della rete" è un'espressione priva di senso e indica solo individui in possesso di una connessione interne, senza alcuna garanzia di collegare un volto a un profilo: le identità dei cosiddetti fake sono sì rintracciabili, ma solo in seguito a indagini approfondite. Si aggiunga che i confini geografici sono inutili nel web, mentre sono fondamentali per le autorità. Tale premessa da sola è sufficiente per misurare l'indeterminatezza del fenomeno. Portavoce del suddetto "popolo" nel caso di specie è la pagina facebook "Sesso Droga e Pastorizia", presa di mira dalla Lucarelli in quanto ricettacolo di cyber-bulli/e. Chiariamo subito che la pagina (e le altre del medesimo filone) ha scopo ironico, e ai meno bigotti riesce bene ridere di gran parte dei suoi contenuti. Ma la discussione corre su un filo piuttosto sottile: la linea di demarcazione tra humor e cattivo gusto si misura in micron. Ancor peggio la linea che separa la libertà di espressione dalla calunnia, dalla diffamazione o dall'ingiuria. Qui il moralismo lucarelliano trova ragion d'essere nelle leggi, ed è difficile dissentire. Quale è il limite fino a cui si può criticare qualcuno, fosse anche un personaggio pubblico? Se accadesse per strada, nella realtà reale (a cosa siamo arrivati, "realtà reale", mah) che Tizio coprisse di insulti volgarissimi Caio nessuno avrebbe dubbi sulla censurabilità di quel comportamento. In rete invece no. Non è affatto raro imbattersi in ragazzi (talvolta davvero giovanissimi, scuole medie o giù di lì) che danno sfogo a ogni istinto becero sulle pagine in discorso. È lecito farlo? E fino a che punto? Non menzioniamo volutamente la diffusione di materiale pedopornografico: a differenza dell'insulto offensivo essa è un reato "facilmente" individuabile. La crociata della giornalista romana appare francamente stucchevole nei toni e nelle modalità; peraltro si dubita che la signora abbia la coscienza pulita sui medesimi argomenti, vista la condanna per l'illecita diffusione di un video hard di Belen Rodriguez e una serie di altri "passi falsi" nell'esercizio della professione. Tuttavia, scremando il moralismo di facciata, si pone una questione seria: la perdita di soggettività delle parole sul web, lasciate libere di ferire, insultare, denigrare, discriminare e offendere, facendo rientrare nel concetto di libertà d'espressione tutto e il contrario di tutto, finendo per svilire un sacrosanto diritto costituzionale che indica e tutela tutt'altro. 'Je suis Charlie' resta uno slogan, di cui entrambe le fazioni si appropriano in base alle contingenze per mero opportunismo, e la famosa massima illuminista ormai deve essere aggiornata: "Non condivido quello che dici ma darei la tua vita affinchè tu possa postarlo". Immagini tratte da: - Immagine 1 da https://www.facebook.com/selvaggia.lucarelli?fref=ts - Immagine 2 da https://www.facebook.com/SessoDrogaPastorizia1/?fref=ts
Eu. Bene. Thanatos. Morte. La parola che scaturisce da questi due termini greci rappresenta forse l’accostamento più ardito che una lingua possa fare. Inconcepibile associare questi due concetti, ancor di più se ci muoviamo nel background culturale paracattolico che conforma la morale pubblica. Pertanto ci vuole coraggio per parlarne. Il dibattito in merito all’eutanasia dev’essere ripulito da sovrastrutture religiose perché uno Stato laico non può tollerare alcuna deformazione teologica nella produzione e applicazione delle sue leggi. Non è un caso, dunque, che i Paesi dove era o è maggiore la distanza dai precetti strettamente ecclesiastici si siano dotati di una legislazione sul fine vita già da molti anni: senza arrivare a esempi estremi come l’URSS che depenalizzò la pratica dell’eutanasia già nel 1922, in tempi recenti Paesi democratici come la quasi totalità di quelli europei hanno dato ampio spazio alle diverse forme di eutanasia. Attualmente solo in Belgio e Olanda è ammessa la forma più estrema, ovvero l’eutanasia attiva, mentre nella stragrande maggioranza d’Europa è consentita solo quella passiva. Differenza fondamentale tra le due forme è l’attività terapeutica: in quella attiva la morte viene indotta dal personale medico, nell’altra vi è solo un’astensione dall’accanimento curativo che determina il medesimo effetto. Il nostro Paese, insieme al Portogallo, alla Repubblica Ceca e alla Polonia, non consente la possibilità di procedere all’arresto delle cure in caso di malattie terminali: il dibattito c’è eccome, ma non si è mai pervenuti ad una regolamentazione della materia tanto è vero che, secondo Wikipedia, versiamo in uno stato di “ambiguità” della legislazione. Invero gli articoli 575, 579 e 580 del codice penale, allo stato dell’arte, sembrano ostacolare la pratica. Due isolate sentenze della Cassazione nel 2007 e nel 2008 hanno – con estrema cautela – consentito l’interruzione delle cure su pazienti in stato vegetativo i cui processi vitali di base (respirare, nutrirsi) avvenivano solo tramite macchinari. Casi estremi ed isolati insomma.
o
Il dibattito dell’attualità costringe ad interrogarci in maniera definitiva sull’argomento. Troppi i casi mediatici, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, Elena Moroni e, da ultimo, Fabiano Antoniani – noto come Dj Fabo. Ma tanti anche i casi molto meno noti; malati terminali, impossibilitati a provvedere da soli alla fine delle proprie sofferenze. Il nocciolo della questione pare essere questo. I reati penali sopracitati (rispettivamente omicidio volontario, omicidio volontario del consenziente ed istigazione al suicidio) appaiono solo forzatamente applicabili alle fattispecie in questione. Tuttavia restano, se applicati pedantemente, ostacoli insormontabili. Lungi da ogni opinione, che è e resta intima e privata soprattutto su argomenti personalissimi, il dibattito dovrebbe trovare un coagulo nel principio di libertà. Un individuo, per qualsiasi disparata ragione, intima e cosciente, può decidere da sé di togliersi la vita. Può salire sul cornicione di un palazzo e decidere. Decidere. Decidere. E nessuno è autorizzato a sindacarne i motivi, abissi psicologici la cui esplorazione è inopportuna fin dal più timido principio di conoscenza. A un individuo che invece ha non solo dei motivi soggettivamente validi ma soprattutto oggettivamente apprezzabili (nel senso di valutabili dall’esterno), quali la fine di una sofferenza fisica e psicologica continuata e destinata a non avere termine, tale facoltà viene negata. Solo perché incapace di riuscirci da solo. Anche ai lettori a digiuno di concetti giuridici apparirà chiarissima la differenza di manipolazione della volontà dell’individuo, col sistema penale che gioca a fare Dio con i più deboli. Tralasciando i deliri di chi paragona le moderne legislazioni sull’eutanasia col programma T4 di hitleriana memoria, uno Stato laico ha il dovere di astenersi da certe decisioni, lasciando all’individuo la facoltà di decidere sulle proprie sofferenze, preoccupandosi solo di verificarne la capacità d’intendere e volere. Il resto è narrativa. Il resto è cattiveria. Il resto sono opinioni vuote. Il resto non è vita. E sul resto deve poter avere diritto di parola soltanto chi quel resto se lo tiene. Immagini tratte da: - Immagine 1 da fedaiisf.it 27/2/2017 La fine della democrazia rappresentativa ? Conferenza con il professor Alessandro VolpiRead Now
L'incontro organizzato dalla Scuola di Cultura dei Giovani Democratici pone l'accento su alcuni temi della contemporaneità. L'occasione per discutere del concetto di democrazia e della sua stessa entrata in crisi. Ospite d'onore il sindaco di Massa Alessandro Volpi, nonchè professore di storia moderna e contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell'Università di Pisa.
La dottrina dei "corsi e i ricorsi" della Storia è erroneamente attribuita all'italiano Gianmbattista Vico. O meglio, il significato che vuole comunicare il filosofo è stato mutato e non corrisponde al pensiero originale. La Storia non è di per sé sempre ciclica, ma in determinate situazioni di crisi o di stallo si possono ripresentare alcune situazioni già viste e analoghe a epoche storiche passate. La conferenza che si è tenuta lo scorso giovedì a Viareggio, organizzata dai Giovani Democratici, ha voluto tener conto di un argomento che si insinua nelle crepe della nostra contemporaneità: la messa in dubbio della democrazia rappresentativa e dei suoi istituiti. Una situazione, quella attuale, che per certi versi ricorda il pensiero profetico dello storico George L. Mosse, il quale constatò che la democrazia può entrare in crisi non solo attraverso una guerra ma anche attraverso l'imperversare di una crisi economica.
L'ambiguità in cui si è trovato il sistema economico italiano al momento dell'entrata nella comunità Europea e la recessione che ci ha colpito dal 2008 sono alcune della cause, nell'opinione dell'ospite della serata, il professor Alessandro Volpi, che hanno contribuito a mettere in crisi il nostro sistema democratico- rappresentativo. Prima di arrivare a ciò, il professore si concede un' introduzione storica sul concetto di democrazia in Italia. L'Italia è una democrazia sostanzialmente giovane, non vi è intrinseca una lunga tradizione democratica nella sua storia. Basti pensare che il suffragio universale maschile viene introdotto nel 1912; si può parlare di un paese liberale più che di un paese democratico fino al 1946. Anche la figura di Mazzini e la sua ideologia è da intendersi più come un modello che ambisce all'indipendenza del Paese piuttosto che alla creazione di un pensiero democratico organizzato. Anche nei socialisti, guidati da Filippo Turati, non si riscontra una logica meramente riformista ma piuttosto un'azione che avesse come obiettivo il conseguimento della rivoluzione marxista. Una prima riflessione democratica nel Paese si innesta dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Dopo il referendum del 2 giugno 1946, la Costituente, che si pone l'obiettivo di redigere il testo democratico, condensa perfettamente, nella selezione dei 75 eminenti personaggi politici, quel pezzo di tradizione culturale e politica del Paese che meglio riusciva a sintetizzare l'esperienza della Resistenza. La Costituzione diventa così, per il sindaco di Massa, il mito fondativo del Paese. A comprovare che il risultato, la nostra Costituzione, fosse una sinergia tra le tradizioni fondative del Paese, si può ben notare per quanto riguarda l'articolo numero 7 della stessa. Il Pci, contro la sua tradizione spiccatamente anti- clericale, vota a favore della recezione dei Patti Lateranensi da parte della neo-nata Repubblica. L'imperativo è veicolare la costituzione ed evitare rotture.
E' chiaro, da questo ragionamento, che il nostro Paese e la sua fondazione è strettamente legata a ciò che grandi partiti di massa hanno rappresentato e va da sè, quindi, che dal momento che quest'ultimi entrano in crisi la democrazia si indebolisce. E' quello che stiamo vivendo adesso, i partiti non riescono più a interpretare le esigenze dei cittadini. Per il professore esistono poi altri fattori che hanno contribuito alla crisi della democrazia che vanno identificati in un altro campo classificatorio: quello economico. Il processo di costituzionalizzazione è passato anche attraverso il boom economico che ha portato un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita. I partiti si sono fatti garanti di questo processo attraverso un sistema economico basato sulla spesa pubblica e il continuo svalutamento della lira, che prevede l'indebitamento. Questo modello, con l'ingresso nell'Unione Europea attraverso il trattato di Maastrich e i suoi vincoli, è venuto meno. Il sistema entra in crisi. Nonostante ciò il professore non rinuncia all'idea di Europa, anzi: ne è un estremo protettore. Senza la moneta unica, nella sua visione, l'Italia non avrebbe resistito allo scossone finanziario che ci ha coinvolto a partire dal 2008. Rivedere i vincoli di Maastrich e formare un'Europa meno tecnica e burocratica appare un imperativo necessario da realizzarsi nel più breve tempo possibile. La guerra all'euro è una guerra post-ideologica utilizzata dalle "nuove destre", come ci spiega il sindaco.
La conferenza finisce ed è tempo di domande per l'ospite. All'improvviso, dalla sala, si alza la voce di uno dei presenti che stava ascoltando in disparte la conferenza. La sua non è una domanda ma un vero e proprio intervento. Si lamenta che i giovani, quella stessa sera, non abbiano fatto domande all'ospite e che queste siano pervenute solo da un pubblico di età superiore. Invita i giovani a mettersi in gioco, a tornare a occuparsi di politica, a discutere animatamente ma con lealtà. È proprio questo il punto: tornare all'entusiasmo del coinvolgimento in prima persona. La società è cambiata, la qualità del discorso politico è diminuita. È il mondo "liquido-moderno" teorizzato dal sociologo Zygmunt Bauman, dove l'incertezza è divenuta una categoria dello spirito, l'unica certezza in un mondo veloce, appunto "liquido". La crisi del singolo e delle ideologie, la crisi dello Stato e del suo diritto: la fine di quei valori a cui l'individuo poteva rivolgersi in tempi di crisi. La politica non sembra aver compreso questo fenomeno di cambiamento epocale. Immagini tratte da: immagine 1: https://yt3.ggpht.com/-RbLSRf35gIs/AAAAAAAAAAI/AAAAAAAAAAA/qRkdZxObsMM/s900-c-k-no-mo-rj-c0xffffff/photo.jpg immagine 2: http://lacnews24.it/filemanager/luglio2015/giovani-democratici.jpg Immagine 3: http://image.archivioluce.com/foto/high/150/A00172122.JPG Immagine 4: http://www.opinione-pubblica.com/wp-content/uploads/2016/02/bandiera-europa.jpg
La sinistra occidentale è di fronte a un bivio. Riuscirà a rigenerarsi?
Abbiamo visto la scorsa settimana che il primo turno delle prossime presidenziali francesi dovrebbe ricordare quello del 2002: all’epoca, contro ogni previsione, passarono al ballottaggio Jacques Chirac, presidente uscente di centrodestra, e Jean-Marie Le Pen, leader della destra xenofoba. A 15 anni di distanza, i sondaggi non prevedono un socialista al ballottaggio, ma un esponente di centro (Macron) o di centrodestra (Fillon) e, quasi sicuramente, Marine Le Pen, figlia del già citato Jean-Marie ed attuale segretaria del Front National.
In Spagna vi abbiamo raccontato in più articoli che ben due elezioni a distanza ravvicinata non sono riuscite a permettere alla sinistra di riprendersi il governo: PSOE e Podemos, vale a dire il centro-sinistra e la sinistra movimentista, si guardano come il fumo negli occhi e non sono riusciti a fare alcun accordo, con la conseguenza che il popolare Mariano Rajoy è rimasto alla Moncloa. Nel Regno Unito, il segretario del Labour Jeremy Corbin fa fatica anche solo a mantenere il controllo sui suoi, al punto che proprio pochi giorni fa Tony Blair ha dichiarato che si sarebbe potuta evitare la Brexit, se solo i laburisti avessero avuto l’influenza di un tempo sugli elettori. Negli Stati Uniti, Trump ha davanti a sé quattro anni di governo ed entrambe le Camere con maggioranza repubblicana. I Democratici hanno davanti a loro una lunga opposizione, a meno che il Presidente non combini qualche grosso guaio. Non parliamo della situazione della sinistra italiana, divisa tra un partito di governo – il PD – e infiniti rivoli di quella che era la sinistra di lotta: vendoliani, civatiani, pisapiani e chi più ne ha più ne metta. La sinistra occidentale, insomma, è ridotta ai minimi termini. A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, proprio quando una crisi di lunghissima durata mette in luce gli aspetti più devastanti del sistema capitalistico, le forze del riformismo non riescono a dare risposte al proprio elettorato, che si è in larga parte rifugiato nelle accoglienti braccia dei movimenti populisti (di destra, come la Lega, di sinistra, come Syriza in Grecia, né-di-destra-né-di-sinistra, come il Movimento 5 Stelle). L’unico lumicino rimasto acceso è proprio là dove nacque la socialdemocrazia: in Germania, dove Angela Merkel si è ricandidata a un quarto mandato, ma i sondaggi attribuiscono buone percentuali al suo sfidante da sinistra Martin Schulz. Mancano ancora sei mesi, tuttavia. Durante la guerra fredda, la sinistra si divideva in comunisti, che guardavano a Mosca, e socialdemocratici, che si affidavano a sistemi misti, capitalisti e statalisti, per accrescere il tenore di vita della classe operaia. Con la fine del comunismo, è arrivata la “terza via”: apriamoci al mercato, abbattiamo lacci e lacciuoli, apriamo la strada a un mercato del lavoro fluido. Così parlavano Blair, Clinton e D’Alema. Ma nel 2017 si è scoperto che la fluidità non ha cambiato in meglio l’economia, con il risultato che è nata l’incredibile categoria dei working poors, i “poveri che lavorano”, pagati male e tutelati peggio. I risultati elettorali di oggi nascono dal non aver voluto riflettere su questo tema. La sinistra, anziché cercare nuove risposte alle nuove domande, si è divisa tra chi voleva usare le risposte della “terza via” e chi si affidava a categorie più vecchie ancora, buone per l’epoca di Breznev. C’è da dire che a destra non si è saputo fare, in genere, di meglio, e questo ha aperto praterie sconfinate per i populisti. Se la sinistra e la destra vogliono sopravvivere, devono cercare nuove risposte alle nuove domande che pongono la società e l’economia. Altrimenti, il loro destino – e quello delle istituzioni che esse hanno contribuito a creare, come l’Unione Europea – è segnato.
Immagini tratte da:
Il neo eletto Presidente degli Stati Uniti sta incontrando più di qualche difficoltà nell’attuazione del suo progetto politico.
Detto fatto, o almeno provato. Dopo appena qualche giorno dal suo insediamento, il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha tentato di dare seguito alla sua campagna elettorale passando dalle parole ai fatti.
Molte sono state le promesse di Trump durante la campagna per strappare la presidenza all’establishment americano, ma forse in pochi immaginavano che per prima cosa si occupasse degli immigrati islamici. Forse l’attenzione era più rivolta verso il famoso muro al confine col Messico o alla battaglia politica con la Cina e le istituzioni internazionali; invece Trump ha iniziato il suo mandato con l’emanazione di un provvedimento che vieta l’ingresso sul suolo americano di immigrati musulmani provenienti da sette paesi (Iraq, Iran, Yemen, Siria, Somalia, Libia e Sudan). Tuttavia il decreto non ha avuto vita lunga. Le proteste sono dilagate velocemente in tutto il Paese e gli aeroporti hanno vissuto giorni concitati e, in alcuni casi, sono stati completamente bloccati.
Inoltre, nonostante questa situazione già di per sé complicata, il neo presidente ha dovuto incassare un duro colpo quando un giudice federale di Seattle, James Robart (Repubblicano per giunta), ha sospeso il decreto, seguito a ruota da tanti altri giudici di altrettanti stati. I motivi di questa bocciatura sono da rintracciarsi nei gravi danni economici, sociali e soprattutto dei diritti umani che il decreto avrebbe comportato, riaprendo così le frontiere a quanti ne erano stati esclusi nei giorni precedenti.
Ovviamente Trump non si è arreso: la casa bianca ha presentato ricorso, prontamente respinto dalla corte d’appello federale di San Francisco ampliando addirittura gli errori del decreto. Infatti, si è fatto notare non solo come la sospensione non rechi nessun pericolo di sicurezza al Paese ma addirittura che il decreto in nessun caso possa essere utile alla lotta al terrorismo, che era il motivo centrale per cui era stato emendato. L’ultima carta rimasta da giocare per il tycoon è la corte suprema, ma persino i suoi più stretti collaboratori sconsigliano ciò visto che la parità dei suoi componenti (8 in tutto) tra repubblicani e democratici e un pareggio lascerebbe inalterato la sentenza della corte d’appello. Detto questo le conseguenze del decreto presidenziale sono state davvero importanti, tanto negli States quanto all’estero. In alcuni stati il decreto è stato eccessivamente rispettato e questo ha portato a centinaia di fermi di immigrati con l’obbiettivo di rispedire a “casa” gli irregolari con precedenti. La stampa americana afferma che, nella stragrande maggioranza dei casi, sono state fermate persone in regola, con la fedina pulita o macchiata da reati minori. Anche dall’estero la risposta al decreto non si è fatta attendere, soprattutto dall’Iran dove sia l’ayatollah Ali Khamenei che il presidente Rohani hanno manifestato il loro malcontento accusando Trump di rilevare l’America per quello che è in realtà, un paese ipocrita e corrotto, il che chiude di fatto quel periodo di disgelo nei rapporti tra le due nazioni voluto dal predecessore Obama con il programma nucleare iraniano. Probabilmente Trump non si aspettava una tale politica ostruzionista nei suoi confronti; tanto dall’opinione pubblica, quanto dalla stampa oltre che ovviamente dalla magistratura. Di fatto il neo presidente ha comunque annunciato l’emendazione di un nuovo decreto volto a contrastare in qualche misura l’immigrazione, sfidando tutti coloro che si oppongono alla sua decisione e in generale alla sua presidenza. La battaglia del “giovane” presidente, nonostante i tanti contrasti e oppositori, è destinata dunque a proseguire e vedremo come andrà a finire.
Immagini tratte da:
- http://www.lastampa.it/2017/02/10/esteri/nuovo-decreto-di-trump-permetter-alle-aziende-usa-il-commercio-di-minerali-insanguinati-dAQWWKxgG3c6CsiBcAXpEN/pagina.html - http://www.today.it/mondo/decreto-trump.html
Tra aprile e settembre, le due principali potenze dell’UE andranno alle elezioni. Sarà l’inizio della fine o il momento della svolta?
Il 2017 è un anno decisivo per l’Unione Europea, non solo per l’arrivo di Trump alla Casa Bianca e per l’avvio delle trattative sulla Brexit. Nell’arco di pochi mesi, infatti, Francia e Germania cambieranno governo, chiedendo al popolo conferma delle politiche adottate, anche a livello continentale, negli anni passati. Trattandosi delle due principali potenze dell’Unione, il risultato di queste elezioni può avere effetti significativi sulla stessa esistenza dell’alleanza e sull’uso della moneta unica.
I francesi andranno alle urne per le Presidenziali il 23 aprile e il 7 maggio. Lo scenario dei candidati è piuttosto variegato, ma quelli che più probabilmente si contenderanno il passaggio al secondo turno sono:
A sinistra
Al centro
A destra
I dati che abbiamo riportato riguardano il primo turno. Non essendoci candidati in grado di superare da subito il 50%, è praticamente certo il secondo turno del 7 maggio. Nei sondaggi sul ballottaggio, ovviamente non sono riportati i candidati della sinistra, visto che al momento non sono tra quelli con i valori più alti. In sintesi, si prevede che Marine Le Pen perda sia contro Fillon che contro Macron; in caso di scontro tra questi ultimi due, prevarrebbe Macron. Questo panorama è tutt’altro che definitivo, perché Hamon proverà a recuperare terreno e in ogni caso le Presidenziali americane ci hanno insegnato che i sondaggi significano poco, al giorno d’oggi. Ma noi che raccontiamo l’attualità dobbiamo tenerne conto.
Lo facciamo anche per la situazione tedesca, dove Angela Merkel si candida al quarto mandato, ma si trova di fronte un candidato in ascesa, Martin Schulz della SPD (Socialdemocratici). Vi ricorderete di Schulz, divenuto famoso quando il nostro premier Berlusconi lo insultò al Parlamento Europeo. Da allora, di acqua ne è passata sotto i ponti: l’eurodeputato è divenuto Presidente dell’Europarlamento (ha preceduto il nostro Antonio Tajani) ed è stato poi richiamato in patria per opporsi alla potentissima Kanzlerin. I sondaggi dicono che una sua vittoria è possibile, con Socialdemocratici e Democristiani alla pari (30%). La strada è ancora lunga – si voterà il 24 settembre – ma è chiaro che una riconferma della Merkel potrebbe orientare l’Unione ancora più decisamente sulla strada del rigore finanziario, mentre la vittoria di Schulz potrebbe modificare le posizioni tedesche.
Approfondimenti:
- Un riepilogo sulle elezioni francesi alla pagina https://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_presidenziali_in_Francia_del_2017. Molte altre informazioni, nella dettagliatissima newsletter di Francesco Maselli http://mail01.tinyletterapp.com/FrancescoMaselli/pr-sidentielle-2017-ventesima-settimana-i-comizi-paralleli-di-macron-e-le-pen/7460245-francescomaselli.net/2016/09/23/presidentielle-2017-tutte-le-puntate/?c=df45a4f8-7eae-4c21-b462-c0bbfbd8351c. - [francese] I sondaggi sulle Presidenziali https://fr.wikipedia.org/wiki/Liste_de_sondages_sur_l'%C3%A9lection_pr%C3%A9sidentielle_fran%C3%A7aise_de_2017#F.C3.A9vrier_2; - Un riepilogo sulle elezioni tedesche alla pagina https://it.wikipedia.org/wiki/Elezioni_federali_in_Germania_del_2017. Anche in questo caso, abbiamo una ricca newsletter, a cura di Edoardo Toniolatti http://mail01.tinyletterapp.com/Tonjolly/noch-4-jahre-germania-2017-5/7467917-tinyletter.com/tonjolly/archive?c=0de5008b-947a-4bec-9bc4-aa2f71ad46a0. - [tedesco] Un riepilogo sui sondaggi e non solo https://de.wikipedia.org/wiki/Bundestagswahl_2017.
Immagini tratte da:
- L’immagine di copertina è tratta di Rama — Opera propria, CC BY-SA 2.0 fr, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2067181; - La foto di Hamon è di Marion Germa — Benoit Hamon Saint-Denis 280816 mains.jpg, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=56090564, quella di Macron è di Claude Truong-Ngoc / Wikimedia Commons - cc-by-sa-3.0, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=39834126, quella di Fillon è di G.Garitan — Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=53624547 e quella della Le Pen di Foto-AG Gymnasium Melle, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45585285. - La foto di Schulz è di Foto-AG Gymnasium Melle, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=31001018, quella della Merkel di https://www.flickr.com/photos/eppofficial/ - https://www.flickr.com/photos/eppofficial/25738722632/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=47997163.
La filosofia di Sartre torna attuale nella nostra epoca segnata dalla crisi delle democrazie
L' Esistenzialismo è un umanismo di Sartre costituisce uno dei tentativi del secolo scorso di portare la filosofia fuori dalle aule universitarie per rivolgersi a un pubblico ben più ampio e di cercare di mutare la prospettiva e la concezione di uomo nel mondo. E' una conferenza pubblica dell'ottobre del 1945 con cui Sartre prova a rispondere ad alcuni attacchi ideologici alla sua nuova filosofia e che solo successivamente divenne un libro che darà nuovo slancio alla forma di pensiero del filosofo.
Dopo la seconda guerra mondiale e le sue atrocità l'uomo si pone degli interrogativi. Dove ha fallito l'umanismo e il progresso? Si avverte che quel mondo, fuoriuscito da due guerre mondiali, stia andando verso una direzione anti-umana e che quella fosse la fine di una epoca sanguinosa e delle sue identità ingombranti. L'uomo deve cercare quindi alcune soluzioni a cui appigliarsi per farsi di nuovo padrone del suo destino e affinchè non si verifichino,di nuovo, le barbarie che hanno contraddistinto la prima metà del Novecento. Per di più l'introduzione della catena di montaggio e delle nuove tecnologie che di fatto, meccanizzavano il lavoro umano, infiltra nell'uomo la sensazione della propria “inutilità” nel mondo e la conseguente “alienazione”. Si pensa che il progresso tecnologico risolva ogni sorta di problema, comprese le guerre. Non è così: la guerra porta morte, per la prima volta, non solo tra i soldati ma anche tra i civili. Lo stato d'animo della società post-guerra, seppur con le dovute proporzioni, ricalca in buona parte i sentimenti che attanagliano gli animi degli uomini della società in cui viviamo. L' incapacità delle democrazie occidentali di far fronte a problematiche nuove, nei numeri, come le grandi migrazioni e l'accoglienza o il far fronte a una crescente disoccupazione nei paese europei e l'incomunicabilità tra i partiti e la middle class, ha fatto si che si diffonda nelle masse un senso di sfiducia verso il futuro e le istituzioni. Se la nostra è l'epoca del nichilismo, o almeno è avvertita come tale, ciò non significa che ci si debba abbandonare a esso. E qui Sartre ci viene in aiuto come superamento del negativismo, del pessimismo, dell’assurdità dell’esistenza e la reinterpreta come una responsabilità. L’esistenzialismo è quella teoria filosofica che pone l’uomo di fronte alle sue possibilità, l’uomo è chiamato a decidersi, è un progetto. Questa libertà è sempre segnata dall’angoscia, l’uomo è sempre solo quando deve decidere, non c’è nessun altro che possa decidere al suo posto. Questa angoscia che c’è ed è il sentimento della libertà e non sfocia in una sorta di pessimismo radicale, anzi l’uomo è chiamato a essere più responsabile, Sartre riafferma come l’esistenzialismo non può che essere una forma di radicale ateismo. Proprio perchè dio non c’è non c’è nessuna garanzia, nessuna promessa, la responsabilità cade tutta sulle spalle del singolo uomo. Sartre riprende la famosa frase di Dostoevskij “Se Dio non esiste tutto è permesso”, se viene meno dio l’uomo è abbandonato, non ha nessuna ancora né dentro né fuori di sé, non potrà mai trovare delle scuse né fornire delle giustificazioni, dire che la sua vita è così per la natura, per le condizioni date e fissate. Non c’è nessun determinismo, tutto è ricondotto alla responsabilità del singolo. Non possiamo più guardare il cielo cercando di trovare un aiuto ma dobbiamo reinventarci di continuo sapendo che non c’è nessuna consolazione. Bisogna agire nella consapevolezza che nulla potrà salvarci dagli esiti delle nostre azioni. La vita di un uomo è soltanto quella che lui ha saputo vivere e decidere senza alibi. Insomma “l'esistenza precede l'essenza”. Immagini tratte da: immagine 1: http://chinese.fansshare.com/gallery/photos/10832468/sartre-jp/?displaying immagine 2:http://www.pacefuturo.it/wp-content/uploads/2015/04/migranti.jpg immagine 3:https://ilricciocornoschiattoso.files.wordpress.com/2016/04/viandante-sul-mare-di-nebbia.jpg
Per l’ennesima volta, in Italia “legifera” la Corte Costituzionale. Adesso si può votare, ma con quali risultati?
Parlando dello scenario politico italiano, avevamo detto che la situazione sarebbe rimasta sonnacchiosa fino al pronunciamento della Corte Costituzionale sull’Italicum, previsto per fine gennaio. Mercoledì scorso, i giudici della Consulta hanno finalmente annunciato la sentenza, riscrivendo parte della legge elettorale che secondo il suo promotore, Matteo Renzi, il mondo ci avrebbe invidiato e copiato. La sentenza ha modificato in parte la legge, dichiarando incostituzionale uno degli aspetti più significativi del provvedimento: il ballottaggio, nel caso che nessun partito avesse raggiunto la quota necessaria al premio di maggioranza. Senza ballottaggio, appare evidente che sarà molto difficile ottenere una maggioranza solida in Parlamento, come vedremo più avanti.
Prima di raccontarvi come si configurerà a questo punto l’Italicum, ricordiamo che la situazione attuale vede le due Camere essere votate con leggi elettorali diverse: a Montecitorio abbiamo l’Italicum “corretto”, a Palazzo Madama il vecchio Porcellum, a sua volta corretto da una precedente sentenza della Corte Costituzionale. Nel pacchetto di riforme di Renzi non era stata indicata una legge elettorale nuova per il Senato, perché era previsto che i cittadini non eleggessero più i senatori in modo diretto. Il voto del 4 dicembre scorso ha cambiato le carte in tavola. L’Italicum 2.0 è una legge elettorale proporzionale che assegna un premio di maggioranza molto ampio (340 seggi su 617, cioè il 55%) alla lista che raggiunge il 40%. Non è previsto ballottaggio, dunque se nessuno arriva alla fatidica soglia del 40%, i seggi saranno ripartiti proporzionalmente ai voti ottenuti (grossomodo: se ottieni il 25% dei voti, avrai il 25% dei seggi). L’Italia sarà divisa in 100 collegi di circa 600.000 elettori; ogni partito presenterà una lista con un capolista già indicato e circa altri 5 candidati. La scelta dei candidati non capilista avverrà con le preferenze, lasciando agli elettori la possibilità di indicare fino a due nomi, purché il secondo sia di sesso diverso dal primo, come nelle Comunali. In ogni caso le liste dovranno essere costituite da un 50% di candidati uomini e da un 50% di candidate donne. Un singolo candidato potrà essere capolista in più collegi, per un massimo di 10. La Consulta ha mantenuto dunque l’aspetto delle pluricandidature, ma ha stabilito un curioso criterio di assegnazione, in caso di vittoria in più collegi: il sorteggio. Le liste avranno uno sbarramento del 3%, dunque chi non lo raggiungerà non vedrà eletto nessun deputato. Le regioni con minoranze linguistiche riconosciute, tuttavia, avranno uno sbarramento del 20%, in modo da garantire l’elezione dei deputati che le rappresentano (per fare l’esempio più noto, il Südtiroler Volkspartei). Per essere precisi, la Val d’Aosta e le province autonome di Trento e Bolzano avranno una legge elettorale propria di tipo maggioritario. Questa è la situazione alla Camera. Al Senato, come dicevamo, c’è ancora il Porcellum, che con le modifiche della Consulta è in pratica una legge proporzionale secca, senza premi di maggioranza. È evidente che, se i partiti attualmente in Parlamento non saranno in grado di approvare una legge elettorale nuova o di “armonizzare” l’Italicum e il Porcellum rivisti, come ha auspicato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, andremo a votare con entrambe le leggi: la possibilità di sapere la sera stessa del voto il vincitore delle Politiche sarà praticamente nulla. Il Movimento 5 Stelle, che spinge per le elezioni quanto prima possibile, non vuole fare alleanze, ma si dice convinto di arrivare al 40%. Se anche ci riuscisse alla Camera, siamo sicuri che possa avere una maggioranza solida anche in Senato? Anche Matteo Renzi vorrebbe andare al voto presto, sempre che riesca a convincere i parlamentari del proprio partito e l’attuale Presidente del Consiglio Gentiloni. Ma anche il PD non pare in grado di raggiungere la soglia. A leggere le simulazioni di Youtrend – ve ne proponiamo una, ma negli approfondimenti trovate il link all’articolo completo – l’unica maggioranza possibile visti gli attuali sondaggi è costituita da una coalizione di PD, Forza Italia e Nuovo Centro Destra. Una Große Koalition simile a quella che votò la fiducia a Enrico Letta nel 2014, ma con pochissimi deputati in più dell’eventuale opposizione. Se i dati cambiassero un po’, l’altra improbabile maggioranza possibile vedrebbe il M5S allearsi – contravvenendo al proprio Statuto – con Lega e Fratelli d’Italia.
In pratica, rischiamo cinque anni di governi instabili, il che non rende così auspicabile la possibilità di votare subito. C’è chi, come Salvini e Renzi, pensa a riesumare il Mattarellum, la legge elettorale maggioritaria con cui abbiamo votato nel 1996 e nel 2001. Il problema è che Forza Italia non vuole assolutamente votarlo, perché in tal caso dovrà costituire una coalizione con la Lega che, essendo più forte sulla base dei sondaggi chiederà un grande numero di candidati.
Una situazione politica tripolare come quella che abbiamo oggi – con Forza Italia, PD e M5S come principali partiti – può difficilmente produrre governi stabili con un sistema elettorale proporzionale. Il punto è che, oggi come oggi, è estremamente difficile intervenire. Del resto, la Consulta ha affermato che Italicum e Porcellum rivisti possono essere usati fin da subito, il che renderà molto improbabile modificarli. Sarà una durissima campagna elettorale a riequilibrare lo scenario politico? Il voto a breve è molto probabile: lo vogliono sia Renzi che Grillo. Grillo vuole monetizzare il consenso nei sondaggi, Renzi vuole evitare il referendum sul lavoro che si terrà in primavera, a meno che non si sciolgano le Camere. Ma chi governerà in caso di elezioni, e quanto ci riuscirà, è praticamente impossibile a dirsi.
Immagini tratte da:
Approfondimenti:
L’insediamento del 45° Presidente degli Stati Uniti d’America
Anche otto anni fa (20 gennaio 2009) a Washington faceva molto freddo. Ma non abbastanza da fermare le centinaia di migliaia di persone accorse ad assistere all’insediamento di Barack Obama, quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Venerdì scorso, diciamo che il freddo è stato più forte di qualsiasi fiducia nel nuovo Presidente, Donald John Trump. In realtà, le folle che salutavano Obama come un eroe non sono sparite, ma hanno cambiato posizione: la Women’s march on Washington del giorno seguente all’insediamento avrebbe attirato almeno 500.000 persone non convinte dal nuovo Presidente. Ma torniamo alla cerimonia d’insediamento. Il discorso di Trump è stato passionale e schierato come ai tempi della campagna elettorale, smentendo quanti confidavano in una “normalizzazione” del Presidente. Prima di leggerne i momenti salienti, diamo uno sguardo alla tag cloud del discorso. Come era prevedibile, le parole più ricorrenti sono America e American. A seguire, le fondamenta del successo politico del magnate statunitense: people, country, great, back. Il popolo, la nazione, la grandezza (perduta) e il ritorno a un’epoca in cui gli Stati Uniti “non perdevano posti di lavoro a causa della concorrenza dei paesi stranieri”. Il programma perfetto per un candidato che si è rivolto in primo luogo alla classe operaia e media bianca, attaccando volutamente quelle minoranze che erano state l’elettorato di riferimento del predecessore. Noi, cittadini americani, siamo uniti in un grande sforzo nazionale per ricostruire il nostro paese e recuperare la sua promessa per tutti noi. Insieme, orienteremo il corso dell’America e del mondo per molti, molti anni a venire. Affronteremo sfide. Sarà difficile, ma ce la faremo. […] La cerimonia di oggi ha un significato particolare, perché oggi non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’Amministrazione a un’altra, o da un partito a un altro, ma stiamo trasferendo il potere da Washington per restituirlo a voi, il popolo. Il discorso è proseguito con l’argomento principe delle arringhe populiste: fino a oggi, la classe politica si è arricchita a spese degli elettori. Tutto questo cambia a partire da qui e ora, perché questo momento è il vostro momento. Appartiene a voi. Appartiene a chiunque è riunito qui oggi e chiunque ci sta guardando in tutta l’America. È il vostro giorno. È la vostra festa. E questi, gli Stati Uniti d’America, sono la vostra nazione. Quello che conta non è quale partito controlla il governo, ma se il governo è controllato dal popolo. Il 20 gennaio 2017 sarà ricordato come il giorno in cui il popolo è tornato di nuovo a comandare la nazione. Uomini e donne dimenticate di questo paese non lo saranno più. Se c’è una cosa del programma del nuovo Presidente che lo distingue rispetto alla tradizionale politica del partito repubblicano, è il rifiuto di un impegno attivo, sul piano economico e su quello strategico-militare, nel resto del mondo. La NATO è superata; i trattati transatlantici e transpacifici sono dannosi. Una politica decisamente lontana da quanto accaduto negli ultimi decenni, con effetti ancora imprevedibili sul piano dell’economia globale. Per decenni abbiamo arricchito l’industria estera a spese di quella americana, sovvenzionato gli eserciti di altri paesi mentre permettevamo il triste esaurimento del nostro. Abbiamo difeso i confini delle altre nazioni mentre ci rifiutavamo di difendere i nostri, e speso migliaia di miliardi di dollari oltreoceano mentre le infrastrutture americane cadevano in rovina. […] Siamo riuniti qui oggi per stabilire un ordine che dovrà essere udito in ogni città, in ogni capitale straniera, e in ogni stanza del potere: da oggi in poi, una nuova visione governerà la nostra terra. Da oggi in poi, l’America sarà al primo posto. L’America al primo posto. Ogni decisione su accordi commerciali, tasse, immigrazione, affari esteri sarà compiuta per beneficiare i lavoratori e le famiglie americani. Dobbiamo proteggere i nostri confini dalle devastazioni di altri paesi che fanno prodotti uguali ai nostri, ci rubano le aziende e distruggono i nostri posti di lavoro. Il protezionismo creerà prosperità e forza. “Compra americano, assumi americano” è il mantra della politica economica trumpista, e le polemiche sul presunto razzismo del presidente vanno stemperate perché “che siamo neri o marroni o bianchi, abbiamo lo stesso sangue da patrioti, godiamo delle stesse gloriose libertà e salutiamo la stessa grande bandiera americana”. Allora a tutti gli americani, di ogni città vicina e lontana, piccola e grande, da montagna a montagna, da oceano a oceano, ascoltate queste parole: non sarete mai più ignorati. La vostra voce, le vostre speranze e i vostri sogni definiranno il nostro destino americano. E i vostri coraggio e bontà e amore saranno per sempre la nostra guida. Insieme renderemo l’America di nuovo forte. Renderemo l’America di nuovo ricca. Renderemo l’America di nuovo orgogliosa. Renderemo l’America di nuovo sicura. E, sì, insieme, renderemo l’America di nuovo grande. Prima di lasciarvi, un aggiornamento sulle notizie di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Antonio Tajani è stato eletto Presidente del Parlamento Europeo. Il PPE, quindi, governa le tre principali istituzioni dell’Unione Europea, mentre il PSE è rimasto all’asciutto. A Londra, Theresa May ha annunciato, in modo non perfettamente limpido, che il suo obiettivo è la clean Brexit, ossia la hard Brexit: fuori da Unione e mercato comune, recuperando un ruolo di protagonista a livello globale. Il come è tutto da chiarire. Immagini tratte da:
Approfondimenti:
Tra un Regno Unito ancora indeciso su come uscire e un M5S che saltella da un gruppo all’altro, Bruxelles rimane prepotentemente in prima pagina
Nel 2017, come nell’anno che l’ha preceduto, si parla molto di Europa. Che la si voglia denigrare o si proponga di cambiarla, l’Unione rappresenta un orizzonte quanto mai vicino, specialmente se teniamo conto che nei prossimi mesi si concretizzerà la Brexit e si svolgeranno le elezioni in Francia, Germania e (forse) Italia, a seguito di campagne elettorali in cui le questioni europee saranno fondamentali.
A Downing Street pare che non ci sia una visione così chiara di come portare avanti l’uscita dall’Unione. La premier Theresa May, chiamata ironicamente Theresa Maybe (“forse”) dall’Economist, non ha ancora chiarito se preferisce una separazione “morbida”, rimanendo nello Spazio Comune Europeo, o una separazione “netta” con la rescissione di tutti i trattati internazionali. Nel primo caso, i britannici si troverebbero a operare in un’area economica senza aver voce in capitolo sulle leggi che la governano, ma perlomeno lascerebbero un significativo canale di comunicazione aperto con il Continente. L’incertezza è tale che l’ambasciatore britannico a Bruxelles, Ivan Rogers, ha rassegnato le dimissioni, parlando di “carenza di una seria esperienza negoziale multilaterale”. In realtà la May sta prendendo tempo. Un po’ come da noi in Italia, dove la politica si è praticamente appisolata in attesa del giudizio della Consulta sull’Italicum, a Londra si sta aspettando una sentenza. Entro pochi giorni, la Corte Suprema è chiamata infatti a esprimersi sul verdetto dell’Alta Corte che chiedeva al Parlamento britannico il voto sulla Brexit. Il parere dei cittadini, non essendo ufficialmente vincolante, non ha valore giuridico, secondo i giudici, per cui è obbligatorio che voti la Camera dei Comuni. I conservatori al governo vorrebbero evitare il passaggio parlamentare, perché l’elettorato si sentirebbe privato della propria sovranità e forse non c’è tutta questa unanimità tra i parlamentari (cosa accadrebbe se a Westminster vincesse il Remain?). La Corte Suprema, dunque, parlerà a breve: secondo alcuni retroscena confermerà l’obbligo di voto in Parlamento. Il resto è tutto da vedere. Ma gli eurodeliri non finiscono qui. Ricordate quando abbiamo parlato della corsa alla presidenza del Parlamento Europeo? Erano ai posti di partenza quattro italiani: Antonio Tajani (Forza Italia, Gruppo del Partito Popolare Europeo), Gianni Pittella (Partito Democratico, Gruppo dell'Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento europeo), Eleonora Forenza (Rifondazione Comunista, Gruppo Confederale della Sinistra Unitaria Europea - Sinistra Verde Nordica) e Piernicola Pedicini (Movimento 5 Stelle, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta). La notizia è che Pedicini è fuori gioco, a causa di una maldestra strategia politica attuata dal Movimento 5 Stelle su richiesta dell’arrembante liberale belga Guy Verhofstadt.
Verhofstadt, presidente dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE), credeva di potersi infilare nella corsa alla Presidenza, mediando fra Popolari e Socialisti. Per farlo, tuttavia, aveva bisogno che il suo gruppo conquistasse un peso più rilevante, in termini di eurodeputati. I 68 liberali erano troppo pochi: perché non accogliere anche i 15 italiani eletti con il Movimento 5 Stelle, attualmente collocati nel gruppo euroscettico di Nigel Farage? In fin dei conti i britannici stanno per uscire dall’Europa. Contava poco, nel suo calcolo aritmetico, il fatto che i pentastellati non condividano larga parte delle idee dei liberali, a partire dall’europeismo. Come molti osservatori italiani hanno raccontato, l’ALDE è il gruppo di Mario Monti e di Romano Prodi. Prima dell’adesione al PSE del Partito Democratico, ne facevano parte anche i centristi del PD e della Margherita.
Eppure, grazie a un accordo firmato segretamente da David Borelli e condiviso sia da Grillo che da Davide Casaleggio, si è arrivati a far votare gli iscritti del Movimento sull’adesione al gruppo ALDE. La scelta era stata presentata per quello che era: un calcolo politico, non un’adesione a principi morali. I liberali puzzavano di europeismo, di “Europa delle banche”, ma garantivano soldi e prebende. Gli iscritti hanno capito, confermando la propria fiducia ai leader del Movimento con una cifra vicina all’80%: non sapevano che Verhofstadt aveva fatto i conti senza l’oste. Poche ore dopo il voto degli attivisti italiani, infatti l’ALDE ha fatto retromarcia, a seguito delle proteste dei suoi eurodeputati: impossibile confrontarsi con gli italiani, che non condividono le proprie posizioni. Il Movimento è rimasto con Farage, evitando il rischio di finire nel gruppo misto, dove non avrebbe diritto di parola e non riceverebbe neppure i fondi per l’attività politica. Questa spericolata manovra – il deputato grillino Carlo Sibilia l’ha definita una “Caporetto” – ha comunque comportato effetti: l’abbandono del partito da parte degli eurodeputati Marco Affronte e Marco Zanni. Il messaggio con cui Farage ricompone l’alleanza accenna ad un referendum sull’Euro da tenersi in Italia: secondo alcuni, è proprio questa la condizione posta dall’inglese per riprendersi gli eurodeputati pentastellati. Era solo una questione di soldi? Non secondo Massimo Giannini di Repubblica: C’è allora una seconda spiegazione, sicuramente più complessa, che è invece di natura strategica. Grillo sa che siamo ormai in pieno ciclo elettorale. [...] I Cinquestelle non se la possono cavare riproponendo ai cittadini il loro “onesto dilettantismo”: può bastare se il tuo orizzonte è l’opposizione, non te ne fai nulla se ti candidi a guidare il Paese. Per questo il Movimento di lotta deve dare almeno qualche segnale di sapersi ripensare come forza di governo. L’alleanza con i liberali in Europa, con tutti i suoi limiti evidenti e le sue contraddizioni patenti, riflette questo tentativo. Un tentativo fallito, per il momento.
Immagini tratte da:
|
Details
Archivi
Novembre 2020
Categorie |