La sinistra occidentale è di fronte a un bivio. Riuscirà a rigenerarsi?
Abbiamo visto la scorsa settimana che il primo turno delle prossime presidenziali francesi dovrebbe ricordare quello del 2002: all’epoca, contro ogni previsione, passarono al ballottaggio Jacques Chirac, presidente uscente di centrodestra, e Jean-Marie Le Pen, leader della destra xenofoba. A 15 anni di distanza, i sondaggi non prevedono un socialista al ballottaggio, ma un esponente di centro (Macron) o di centrodestra (Fillon) e, quasi sicuramente, Marine Le Pen, figlia del già citato Jean-Marie ed attuale segretaria del Front National.
In Spagna vi abbiamo raccontato in più articoli che ben due elezioni a distanza ravvicinata non sono riuscite a permettere alla sinistra di riprendersi il governo: PSOE e Podemos, vale a dire il centro-sinistra e la sinistra movimentista, si guardano come il fumo negli occhi e non sono riusciti a fare alcun accordo, con la conseguenza che il popolare Mariano Rajoy è rimasto alla Moncloa. Nel Regno Unito, il segretario del Labour Jeremy Corbin fa fatica anche solo a mantenere il controllo sui suoi, al punto che proprio pochi giorni fa Tony Blair ha dichiarato che si sarebbe potuta evitare la Brexit, se solo i laburisti avessero avuto l’influenza di un tempo sugli elettori. Negli Stati Uniti, Trump ha davanti a sé quattro anni di governo ed entrambe le Camere con maggioranza repubblicana. I Democratici hanno davanti a loro una lunga opposizione, a meno che il Presidente non combini qualche grosso guaio. Non parliamo della situazione della sinistra italiana, divisa tra un partito di governo – il PD – e infiniti rivoli di quella che era la sinistra di lotta: vendoliani, civatiani, pisapiani e chi più ne ha più ne metta. La sinistra occidentale, insomma, è ridotta ai minimi termini. A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, proprio quando una crisi di lunghissima durata mette in luce gli aspetti più devastanti del sistema capitalistico, le forze del riformismo non riescono a dare risposte al proprio elettorato, che si è in larga parte rifugiato nelle accoglienti braccia dei movimenti populisti (di destra, come la Lega, di sinistra, come Syriza in Grecia, né-di-destra-né-di-sinistra, come il Movimento 5 Stelle). L’unico lumicino rimasto acceso è proprio là dove nacque la socialdemocrazia: in Germania, dove Angela Merkel si è ricandidata a un quarto mandato, ma i sondaggi attribuiscono buone percentuali al suo sfidante da sinistra Martin Schulz. Mancano ancora sei mesi, tuttavia. Durante la guerra fredda, la sinistra si divideva in comunisti, che guardavano a Mosca, e socialdemocratici, che si affidavano a sistemi misti, capitalisti e statalisti, per accrescere il tenore di vita della classe operaia. Con la fine del comunismo, è arrivata la “terza via”: apriamoci al mercato, abbattiamo lacci e lacciuoli, apriamo la strada a un mercato del lavoro fluido. Così parlavano Blair, Clinton e D’Alema. Ma nel 2017 si è scoperto che la fluidità non ha cambiato in meglio l’economia, con il risultato che è nata l’incredibile categoria dei working poors, i “poveri che lavorano”, pagati male e tutelati peggio. I risultati elettorali di oggi nascono dal non aver voluto riflettere su questo tema. La sinistra, anziché cercare nuove risposte alle nuove domande, si è divisa tra chi voleva usare le risposte della “terza via” e chi si affidava a categorie più vecchie ancora, buone per l’epoca di Breznev. C’è da dire che a destra non si è saputo fare, in genere, di meglio, e questo ha aperto praterie sconfinate per i populisti. Se la sinistra e la destra vogliono sopravvivere, devono cercare nuove risposte alle nuove domande che pongono la società e l’economia. Altrimenti, il loro destino – e quello delle istituzioni che esse hanno contribuito a creare, come l’Unione Europea – è segnato.
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Novembre 2020
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