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22/7/2017

Dopo il G8 di Genova, il reato di tortura: un passo avanti nella nostra democrazia?

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Rachele Nuti
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Sedici anni fa, l’Italia si svegliava scossa dai fatti avvenuti nella notte del 21 luglio all’interno delle scuole Diaz, Pertini e Pascoli, ospitanti le sedi del Genoa Social Forum. Dalle ore 22 a mezzanotte, reparti mobili della Polizia di Stato fecero irruzione dando vita a quella che, da molti, venne definita una vera e propria “macelleria messicana”. 93 attivisti fermati, 82 feriti. Tra gli arrestati 63 furono portati in ospedale, di cui 3 in prognosi riservata e uno in coma.
 I più sfortunati, se così si possono definire, furono portati nella caserma del reparto mobile di Genova Bolzaneto, istituita come luogo di smistamento momentaneo degli arrestati in piazza. Al contrario della destinazione iniziale, questa divenne, per tre lunghi e interminabili giorni, un luogo di tortura e vessazione.
Nelle celle tutti vennero picchiati, insultati, minacciati. Obbligati a latrare come cani, ragliare come asini, inneggiare frasi fasciste e cantare canzonette. Uomini e donne vennero violati nella loro intimità, privati di tutto, costretti a rimanere per ore in piedi, nudi, davanti agli occhi e alle battute dei poliziotti. «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?» è una delle frasi più gettonate, che non fa distinzione di genere.
Gambe larghe, in piedi, braccia alte al muro, questa è la posizione che tutti i testimoni di Bolzaneto hanno impressa nella loro mente. Costretti a stare così per ore, senza potersi muovere e sotto le minacce, le umiliazioni verbali e le percosse dei poliziotti. Tutto questo avvenne dinanzi agli occhi di medici che non mossero obiezione. Anzi, i membri del personale sanitario non furono da meno e continuarono a perpetrare le stesse violenze dei loro colleghi poliziotti. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare». Tutti questi fatti sono rimasti impuniti in Italia poiché, all’epoca, mancava il reato di tortura. Quest’ultimo è stato introdotto solo quest’estate, precisamente il 5 luglio, a ben 30 anni di distanza dall’entrata in vigore della Convenzione Onu contro la Tortura. Sicuramente si tratta di una legge necessaria, in quanto l’Italia è ritenuta una Repubblica fondata sulla Democrazia e sul rispetto dei diritti umani. Una legge che si spera possa cambiare tante cose nel nostro modo di concepire la giustizia, la nostra libertà di espressione e il nostro senso di sicurezza.
In merito a questo tema abbiamo deciso di intervistare il Presidente di Amnesty International Italia- Antonio Marchesi- per avere qualche delucidazione maggiore su questo nuovo e fondamentale reato.
Ci sono voluti quattro anni perché il Parlamento approvasse la legge che introduce il reato di Tortura nel nostro ordinamento. Quattro anni di stop and go, che hanno sentito delle divisioni tra le forze politiche. L’iter del provvedimento, frutto della sintesi di 11 diverse proposte di legge, è stato particolarmente complicato: iniziato al Senato esattamente il 22 luglio del 2013 è stato più volte modificato nei passaggi tra i due rami del Parlamento; durante l’ultimo esame il testo non ha subito ulteriori modifiche. Giunti a questo punto, ci siamo chiesti cosa viene stabilito nel Decreto legge che condanna la Tortura nel nostro paese. Il Presidente Marchesi ci ha risposto dicendo che questa nuova legge “prevede, innanzitutto, un reato specifico sulla tortura, che sino a ora mancava. Questo, probabilmente, costituisce l’aspetto più importante. Poi vi sono una serie di altre norme che riguardano la non utilizzabilità delle informazioni ottenute mediante tortura, l’impossibilità di allontanare qualcuno a forza verso un paese in cui rischia tortura e altri aspetti che vanno al di là della definizione del reato”.

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Un testo che, però, nella definizione del reato non è del tutto coerente con le Convenzioni Onu contro la Tortura. Motivo per cui Amnesty ha avanzato e tutt’ora avanza la sua perplessità. “Testo controverso, innanzitutto per l’impostazione generale; è molto lungo, piuttosto confuso. – Dichiara il Presidente Marchesi- Ha una formula che sembra restringere più della convenzione Onu, soprattutto sul tema della tortura mentale, che causa sofferenza psichica alla vittima. Ci sono dei plurali e delle formule che fanno pensare che la tortura sia soltanto quella ripetuta più volte.  La cosa positiva, però, è che, dopo quasi 30anni dalla ratifica della convenzione Onu contro l’uso della tortura, l’Italia ha un reato specifico e quindi nelle aule dei tribunali, laddove ve ne siano poi i presupposti, si potrà parlare di tortura e non nasconderla dietro gli abusi, le lesioni, i reati generici che alla fine si traducono nell’impunità o nella quasi impunità dei responsabili”.
Il Presidente Marchesi ci fa anche notare che: “Gli ostacoli alla punizione a volte sono anche di altro tipo, non bisogna pensare che quella del reato di Tortura sia l’unica lacuna normativa”. Infatti, proprio come viene sottolineato dal Presidente, vi sono altri problemi fondamentali, relativi alla ricostruzione dei fatti, all’omertà, ai vari depistaggi e “all’idea che si debbano coprire le persone appartenenti al proprio corpo di polizia a prescindere da quello che hanno fatto o non fatto. Tutti questi sono fattori che impediscono di ottenere verità e giustizia al di là del tipo di incriminazione che si può fare”. Pone poi la sua attenzione su un altro tema fondamentale, e molte volte discusso, quello della mancanza di un identificativo che permetta di riconoscere i responsabili individuali dei fatti. “Persino nel caso di Genova un aspetto che cerco di sottolineare sempre è che molti degli agenti coinvolti nel maltrattamento della Diaz non sono mai stati individuati perché coperti in volto, alcuni avevano la sciarpa e sul casco mancava un identificativo alfanumerico. Quindi tra coloro che sono stati processati mancano molti degli esecutori materiali di quei maltrattamenti”.
Al contrario di quanto sostengono i sindacati di polizia, infatti, il reato di tortura è una tutela fondamentale per il corpo stesso in quanto verrà presa in considerazione la responsabilità penale del singolo, mantenendo così l’integrità e la credibilità dell’Istituzione. Su questo aspetto insiste anche il Presidente Marchesi, che sostiene: “Nessuno ce l’ha con le forze di polizia in quanto tali. Se la loro cultura tende ad attribuire a questo reato uno scopo di aggressione all’Arma evidentemente vi è un grosso problema”.
 Un aiuto fondamentale per il nostro paese, nella definizione di questo reato, è giunto dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Senza le sanzioni giunte da Strasburgo, l’Italia non avrebbe mai preso consapevolezza sulla necessità di introdurre un simile reato nel nostro ordinamento. Secondo il Presidente Marchesi queste disposizioni “hanno spinto il Governo, la maggioranza politica e il Parlamento nel senso dell’introduzione del reato di Tortura. Ovviamente, non ho la possibilità di dirlo in maniera certa però so che indubbiamente hanno pesato”.
In conclusione, possiamo quindi definire la nuova legge sul reato di tortura come un passo avanti. Certo, niente di eclatante vista l’importanza della questione e visti gli anni passati dalla firma della Convenzione Onu, ma come ci ha ricordato il Presidente Marchesi: “Le battaglie per i diritti umani sono fatte di piccoli passi avanti”.
Ciò nonostante, non nega che: “Avremo voluto un passo più grosso ma questo è quello che abbiamo ottenuto ed è meglio di niente. Se non fosse passato questo testo, l’unica alternativa realistica sarebbe stata quella di ricominciare da capo con un’altra legge”.
Alle numerose dichiarazioni che sostengono: “Meglio non avere niente che un qualcosa di così incompleto”, Amnesty International risponde: “È una posizione che, seppur molto diffusa, non è da noi condivisa. Il ‘meglio niente’, tutto sommato, fa comodo a chi è contrario a qualsiasi forma di criminalizzazione della tortura perché poi alla fine il risultato è lo stesso”.

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A questo punto non ci resta che sperare nell’efficacia di questa legge e nella possibilità che qualcosa possa migliorare nel futuro. Per troppo tempo il nostro paese si è reso “complice” di casi di impunità. E chissà se, magari, questo reato potrà portare un po’ di pace a quelle famiglie- quali quella Cucchi, Aldrovandi, Uva, Magherini, per citarne alcune- che, per anni, al dolore per la perdita di un caro hanno dovuto affiancare una guerra contro un sistema giuridico incompleto, che non ha mai dato alla tortura la sua vera definizione, ovvero quella di crimine di Stato.

Immagini tratte da:
Almasio Cavivvhioni
Il Fatto Quotidiano
Internazionale

 

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