In Spagna, ci si illudeva che ripetere le politiche avrebbe risolto l’impasse istituzionale. Niente di più sbagliato. La stessa settimana in cui l’Europa apprendeva con sgomento i risultati del referendum britannico sull’uscita dall’Unione, i cittadini spagnoli si sono recati alle urne per trovare una soluzione all’impasse politico seguito alle elezioni di dicembre. Come vi raccontammo a inizio marzo, quella tornata elettorale aveva creato una situazione mai vista nel panorama istituzionale spagnolo: quattro grandi partiti che si dividevano il consenso popolare, e nessuno in grado di raggiungere la maggioranza di 176 diputados. Erano ormai lontani i tempi del bipartitismo, quando i Popolari rappresentavano il centrodestra e i Socialisti il centrosinistra: sulla scena erano apparsi anche Podemos, partito fondato sull’idea di democrazia diretta (un po’ come il nostro Movimento 5 Stelle, ma con una dichiarata collocazione a sinistra), e Ciudadanos, un movimento di sinistra moderata fondato su un’idea di rinnovamento della classe dirigente (una specie di Rete, se avete presente la situazione politica italiana dei primi anni ‘90). Si rendeva necessaria un’alleanza tra più partiti. Escludendo l’ipotesi più improponibile (Popolari + Podemos, che è come dire cane e gatto), tutte le altre strade erano ipoteticamente percorribili. Riepiloghiamole, spiegando come mai sono saltate.
Il 26 giugno si sono svolte le seconde elezioni politiche in sei mesi, con la speranza che il quadro si stabilizzasse un po’. Vediamo cos’è accaduto, confrontando direttamente i risultati principali: Non ci vuole molto a capire che si è trattato di un’elezione fotocopia della precedente, con minimi spostamenti e i Popolari che recuperano quattordici seggi a spese di Ciudadanos e Socialisti. In pratica la partita torna in mano ai Socialisti, gli unici in grado di formare un’alleanza, ma senza più la possibilità di opporsi ad accordi ritenuti innaturali, in primis quello con la destra del premier uscente Mariano Rajoy. Tra l’altro i Socialisti, pur ottenendo il peggior risultato dai tempi del ritorno alla democrazia (ormai quarant’anni fa), hanno festeggiato il mancato sorpasso da parte di Podemos. Eh già, perché Podemos, almeno in campagna elettorale, sembrava il partito più in ascesa, capace di ripetere i risultati di Tsipras in Grecia: la sinistra “radicale” e movimentista che supera in consensi la sinistra “istituzionale”. Per raggiungere l’obiettivo, negli ultimi mesi era stato firmato un patto elettorale con Izquierda Unida (“Sinistra Unita”, cartello di liste e partiti di sinistra, tra cui il Partito Comunista Spagnolo) dal suggestivo nome Unidos Podemos (“Uniti possiamo”). Unidos Podemos ha conquistato appena due seggi in più rispetto alle elezioni di dicembre, quando il sorpasso sui Socialisti ne avrebbe richiesti almeno altri quattordici. Stando così le cose, la possibilità che il partito arrivi al governo è assai scarsa, e sono già iniziati a volare gli stracci tra i sostenitori di Pablo Iglesias e la fronda interna guidata da Íñigo Errejón, convinto che l’alleanza a un listino vecchio e rigidamente schierato come Izquierda Unida abbia tarpato le ali a Podemos. Rajoy, da par suo, si frega le mani. Intanto ricordiamo che in tutti questi mesi è comunque rimasto primo ministro: è uscente dal dicembre scorso, ma finché non verrà individuato un successore, rimane lui alla Moncloa. Del resto è altamente probabile che quel successore sia lui stesso, ancor più legittimato rispetto alle elezioni di dicembre. Resta da capire se in alleanza con i soli Socialisti, o anche con Ciudadanos (sempre che tutti i Socialisti votino la Grande Coalizione, cosa su cui non scommetterei). Per ora, si muovono le segreterie dei partiti e latitano le dichiarazioni ufficiali. Ma mancano solo due settimane al 19 luglio, quando si riunirà il Congreso, la Camera dei Deputati spagnola. Lì, tutti giocheranno a carte scoperte. Fonti:
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Novembre 2020
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