Tra un Regno Unito ancora indeciso su come uscire e un M5S che saltella da un gruppo all’altro, Bruxelles rimane prepotentemente in prima pagina
Nel 2017, come nell’anno che l’ha preceduto, si parla molto di Europa. Che la si voglia denigrare o si proponga di cambiarla, l’Unione rappresenta un orizzonte quanto mai vicino, specialmente se teniamo conto che nei prossimi mesi si concretizzerà la Brexit e si svolgeranno le elezioni in Francia, Germania e (forse) Italia, a seguito di campagne elettorali in cui le questioni europee saranno fondamentali.
A Downing Street pare che non ci sia una visione così chiara di come portare avanti l’uscita dall’Unione. La premier Theresa May, chiamata ironicamente Theresa Maybe (“forse”) dall’Economist, non ha ancora chiarito se preferisce una separazione “morbida”, rimanendo nello Spazio Comune Europeo, o una separazione “netta” con la rescissione di tutti i trattati internazionali. Nel primo caso, i britannici si troverebbero a operare in un’area economica senza aver voce in capitolo sulle leggi che la governano, ma perlomeno lascerebbero un significativo canale di comunicazione aperto con il Continente. L’incertezza è tale che l’ambasciatore britannico a Bruxelles, Ivan Rogers, ha rassegnato le dimissioni, parlando di “carenza di una seria esperienza negoziale multilaterale”. In realtà la May sta prendendo tempo. Un po’ come da noi in Italia, dove la politica si è praticamente appisolata in attesa del giudizio della Consulta sull’Italicum, a Londra si sta aspettando una sentenza. Entro pochi giorni, la Corte Suprema è chiamata infatti a esprimersi sul verdetto dell’Alta Corte che chiedeva al Parlamento britannico il voto sulla Brexit. Il parere dei cittadini, non essendo ufficialmente vincolante, non ha valore giuridico, secondo i giudici, per cui è obbligatorio che voti la Camera dei Comuni. I conservatori al governo vorrebbero evitare il passaggio parlamentare, perché l’elettorato si sentirebbe privato della propria sovranità e forse non c’è tutta questa unanimità tra i parlamentari (cosa accadrebbe se a Westminster vincesse il Remain?). La Corte Suprema, dunque, parlerà a breve: secondo alcuni retroscena confermerà l’obbligo di voto in Parlamento. Il resto è tutto da vedere. Ma gli eurodeliri non finiscono qui. Ricordate quando abbiamo parlato della corsa alla presidenza del Parlamento Europeo? Erano ai posti di partenza quattro italiani: Antonio Tajani (Forza Italia, Gruppo del Partito Popolare Europeo), Gianni Pittella (Partito Democratico, Gruppo dell'Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici al Parlamento europeo), Eleonora Forenza (Rifondazione Comunista, Gruppo Confederale della Sinistra Unitaria Europea - Sinistra Verde Nordica) e Piernicola Pedicini (Movimento 5 Stelle, Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta). La notizia è che Pedicini è fuori gioco, a causa di una maldestra strategia politica attuata dal Movimento 5 Stelle su richiesta dell’arrembante liberale belga Guy Verhofstadt.
Verhofstadt, presidente dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa (ALDE), credeva di potersi infilare nella corsa alla Presidenza, mediando fra Popolari e Socialisti. Per farlo, tuttavia, aveva bisogno che il suo gruppo conquistasse un peso più rilevante, in termini di eurodeputati. I 68 liberali erano troppo pochi: perché non accogliere anche i 15 italiani eletti con il Movimento 5 Stelle, attualmente collocati nel gruppo euroscettico di Nigel Farage? In fin dei conti i britannici stanno per uscire dall’Europa. Contava poco, nel suo calcolo aritmetico, il fatto che i pentastellati non condividano larga parte delle idee dei liberali, a partire dall’europeismo. Come molti osservatori italiani hanno raccontato, l’ALDE è il gruppo di Mario Monti e di Romano Prodi. Prima dell’adesione al PSE del Partito Democratico, ne facevano parte anche i centristi del PD e della Margherita.
Eppure, grazie a un accordo firmato segretamente da David Borelli e condiviso sia da Grillo che da Davide Casaleggio, si è arrivati a far votare gli iscritti del Movimento sull’adesione al gruppo ALDE. La scelta era stata presentata per quello che era: un calcolo politico, non un’adesione a principi morali. I liberali puzzavano di europeismo, di “Europa delle banche”, ma garantivano soldi e prebende. Gli iscritti hanno capito, confermando la propria fiducia ai leader del Movimento con una cifra vicina all’80%: non sapevano che Verhofstadt aveva fatto i conti senza l’oste. Poche ore dopo il voto degli attivisti italiani, infatti l’ALDE ha fatto retromarcia, a seguito delle proteste dei suoi eurodeputati: impossibile confrontarsi con gli italiani, che non condividono le proprie posizioni. Il Movimento è rimasto con Farage, evitando il rischio di finire nel gruppo misto, dove non avrebbe diritto di parola e non riceverebbe neppure i fondi per l’attività politica. Questa spericolata manovra – il deputato grillino Carlo Sibilia l’ha definita una “Caporetto” – ha comunque comportato effetti: l’abbandono del partito da parte degli eurodeputati Marco Affronte e Marco Zanni. Il messaggio con cui Farage ricompone l’alleanza accenna ad un referendum sull’Euro da tenersi in Italia: secondo alcuni, è proprio questa la condizione posta dall’inglese per riprendersi gli eurodeputati pentastellati. Era solo una questione di soldi? Non secondo Massimo Giannini di Repubblica: C’è allora una seconda spiegazione, sicuramente più complessa, che è invece di natura strategica. Grillo sa che siamo ormai in pieno ciclo elettorale. [...] I Cinquestelle non se la possono cavare riproponendo ai cittadini il loro “onesto dilettantismo”: può bastare se il tuo orizzonte è l’opposizione, non te ne fai nulla se ti candidi a guidare il Paese. Per questo il Movimento di lotta deve dare almeno qualche segnale di sapersi ripensare come forza di governo. L’alleanza con i liberali in Europa, con tutti i suoi limiti evidenti e le sue contraddizioni patenti, riflette questo tentativo. Un tentativo fallito, per il momento.
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Novembre 2020
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