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4/7/2016

Fine dell’Europa o fine dell’UK? La Brexit scriverà la storia. Parte prima

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di Matteo Leoni
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Il  titolo di questo articolo già dice tutto, la Brexit scriverà la storia. Probabilmente questo risulterà in uno di quegli eventi che caratterizzeranno l’intera politica del Vecchio Continente per il prossimo secolo, e, insieme ad aspetti che interesseranno una sempre più zoppicante Europa, non mancherà di lasciare sequele anche all’interno del Regno Unito. Del resto il Regno unito stesso può essere considerato come una sorta di sottoinsieme dell’UE. Mentre infatti l’UE è composta dagli stati che ne fanno parte, lo stesso Regno Unito è un insieme di più nazioni quali Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord, l’ultima in ordine di fondazione. Le prime tre costituiscono la Gran Bretagna, mentre l’Irlanda del Nord, posta sull’isola di Irlanda, fu fondata negli anni ’20 per rispondere alle esigenze della maggioranza anglicana e filo-britannica che popolava l’Ulster e non voleva partecipare al processo di istituzione dell’Irlanda stessa.
Per decenni, anzi, per secoli tutto è rimasto immutato, con una centralità socio-culturale inglese che ha caratterizzato proprio la costituzione della Gran Bretagna. Furono infatti gli inglesi che in epoca medievale assoggettarono i gallesi, salvo poi, dopo una serie di vicissitudini, prendere il controllo anche del regno di Scozia, fino all’inizio del ‘700 uno stato indipendente. Risale poi al 1717 l’Act of Union, che sanciva l’effettiva unione costituzionale delle tre nazioni e portava alla fondazione della Gran Bretagna. L’Irlanda per il momento era rimasta esclusa dal processo.
Con i secoli l’integrazione culturale portò ad una progressiva perdita delle identità nazionali, che iniziarono a risvegliarsi solo intorno agli anni ’20 del ‘900 a seguito delle rivolte che portarono all’indipendenza dell’Irlanda. Nel secondo dopo guerra la ripresa dei costumi nazionali, soprattutto in Scozia , si sviluppò incessantemente, e il riconoscimento dell’importanza delle nazioni fondanti all’interno del Regno Unito fu definitivamente riconosciuta nel 1999 con la cosiddetta devolution voluta dal New Labour di Blair. Con la legge del ’99 si costituirono governi e parlamenti regionali in Galles, in Scozia e in un Irlanda del Nord da poco pacificata a seguito di decenni di conflitto con L’IRA e la lotta per l’unificazione completa dell’Isola sotto la Repubblica d’Irlanda, in cui il parlamento decise di riunirsi non nella “capitale” Belfast, ma nella vicina Stormont.
E’ proprio la concessione di una parziale autonomia alle autorità locali che sta causando quelli che sono i problemi attuali del Regno Unito  e che, a seguito del voto del 24 giugno, caratterizzeranno il paese nei prossimi anni, con spinte indipendentiste sempre più forti, soprattutto da parte scozzese.
A dire il vero la Scozia ci aveva già debolmente provato ad ottenere l’indipendenza nel settembre 2014, con un referendum popolare, voluto dallo Scottish National Party, partito al governo di ispirazione socialdemocratica “scandinava”, all’epoca guidato da Salmond, che chiedeva, semplicemente, e con la tipica pragmaticità anglosassone, se gli scozzesi volessero dichiarare l’indipendenza oppure rimanere all’interno dell’unione con le altre nazioni britanniche. Il risultato finale fu una netta vittoria del “better together”, i “no” all’indipendenza, che trionfarono con il 55% dei voti. Il risultato sancì la fine della carriera politica di Salmond, subito sostituito da Nicola Sturgeon,e, almeno superficialmente, la fine delle aspirazioni indipendentiste scozzesi.
Nessuno avrebbe quindi scommesso in un revanscismo di tali aspirazioni, almeno fino alla lettura dei risultati del referendum sulla Brexit, che ha visto la vittoria del “leave” per un 51% contro il 49%, determinando la scelta del popolo britannico di richiedere l’uscita dalla UE.  Nella realtà dei fatti però, il referendum di giugno ha dato una risposta fondamentale a quanti si chiedevano se esistesse effettivamente un popolo britannico, e la risposta è un no. L’unione non è ben salda come dall’esterno si potrebbe pensare e le direzioni verso cui guardano le nazioni che costituiscono il Regno Unito sono decisamente diverse.


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Da una parte abbiamo Inghilterra e Galles che hanno votato in massa per l’uscita dalla UE, dall’altra abbiamo l’Irlanda del Nord, e soprattutto la Scozia, nella quale la maggioranza che chiedeva il “remain” è netta.
Ed è stata la stessa premier Sturgeon, che dopo aver valutato il risultato del voto si è subito affrettata a chiedere un secondo referendum sull’indipendenza, forte anche dei sondaggi che vorrebbero il sì in vantaggio sui no. Difficile stabilire se sarà concessa una seconda possibilità al popolo scozzese dopo soli due anni dal primo tentativo, quello che è certo è la perdita di popolarità che il governo centrale di Londra ha subito nel Nord dell’isola. Tra le motivazioni principali rileviamo sicuramente le promesse fatte dal governo  Cameron nel 2014 e non mantenute dopo il voto, promesse che riguardavano  ulteriori forme di autonomia al governo scozzese qualora avessero vinto i “no” all’indipendenza, ma soprattutto la prospettiva di rimanere fuori dall’Unione Europea, qualora avessero vinto i “sì”, con l’impossibilità di accedere in tempi brevi nell’UE, visti anche i probabili veti dello stesso governo britannico e di quello spagnolo, che è alle prese con la questione catalana e non può concedere quelli che ai suoi occhi sono dei pericolosi precedenti. Oltre a questo l’impossibilità dichiarata dalla Bank of Scotland di poter emettere sterlina britannica in caso di indipendenza con una probabile svalutazione della valuta scozzese e conseguente recessione, convinsero in massa l’elettorato ad accettare di rimanere sì nel Regno Unito, ma anche di mantenere l’importante posizione all’interno della UE.
Dopo due anni tutto è cambiato. La svalutazione massiva in pochi giorni della sterlina, che ha perso il 10% del suo valore, e le incertezze sul  proseguo  dell’economia d’oltremanica nel lungo e complicato processo che porterà alla fuoriuscita dall’Unione, hanno reso titubante di fronte al futuro il popolo scozzese, per il quale l’adesione all’Europa unita è importante per i finanziamenti che questo riceve da Bruxelles per le attività economiche e sociali, ma anche per settori non trascurabili dell’economia locale come il turismo. In questo senso la stessa Sturgeon è stata esplicita affermando che “Il popolo scozzese è parte dell’Europa” e prendendo inoltre l’iniziativa a livello continentale, recandosi a Bruxelles il 28 giugno, in un disperato tentativo di avviare negoziati per la permanenza del suo paese all’interno dell’Unione. Il tentativo della Sturgeon però, almeno per il momento, ha ricevuto solo una fredda risposta da parte di Bruxelles, che sembra intenzionata a non concedere “sconti” al Regno Unito, anche in vista dei negoziati che seguiranno, per dimostrare che l’uscita dalla UE è un processo irreversibile, ma anche per disincentivare futuri referendum in giro per l’Europa in tal senso.

Immagini tratte da:
- http://images.indianexpress.com/2016/06/belgium-britain-eu_kuma-main1.jpg
- http://www.computing.co.uk/IMG/045/107045/scotland-flag-st-andrews-cross-scottish-370x229.jpg


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