Dopo aver parlato della Scozia, è arrivato il momento del secondo capitolo relativo alle conseguenze interne della Brexit sul Regno Unito. Come abbiamo già detto la volta scorsa il voto britannico ha delineato una netta demarcazione tra un Galles e Inghilterra che hanno votato compatti per il “leave” e una Scozia e Irlanda del Nord, che invece hanno votato per il “remain”.
Se la Scozia sembra quindi orientata a chiedere un secondo referendum per decidere della propria indipendenza, come richiesto dall’SNP al potere, più complessa è la situazione in Irlanda del Nord, dove, subito dopo il voto, il partito Sinn Feinn, un tempo espressione della minoranza cattolica filo-irlandese (il nome stesso è in gaelico) ha timidamente richiesto un voto del circa milione e mezzo di aventi diritto nell’Ulster per chiedere se sia il caso di optare per un’indipendenza, ipotesi poco probabile, per un’unificazione con la Repubblica d’Irlanda, ipotesi più concreta, oppure per rimanere all’interno del Regno Unito. L’elettorato nordirlandese con il voto di venti giorni fa ha del resto espresso un voto in parte di protesta nei confronti del governo di Londra, ritenuto colpevole di un progressivo disinteresse nei confronti dell’Ulster negli ultimi dieci anni, cioè dopo il completamento del processo di pacificazione con l’IRA, dall’altra parte ha dato voce a quel bisogno di UE verso cui il popolo, o per meglio dire, i popoli della regione nutrono, anche in considerazione di una sorta di gratitudine visto il ruolo importante che l’Unione stessa ha avuto durante il processo di pacificazione dell’Ulster, ma anche considerati gli incentivi socio-economici provenienti da Bruxelles, e molto utili per la ripresa economica, ma anche sociale e culturale di Belfast. Ad un’analisi superficiale potremmo pensare quindi che il voto in questione possa generare una svolta storica per l’intera isola irlandese, tanto da far intravedere una fine del tunnel di violenze e repressioni, attentati, terrorismo, fino ad arrivare ad un clima di guerra civile, che hanno dilaniato la società nordirlandese per tutto il dopoguerra. Nella realtà dei fatti la questione non è così semplice. Facendo una mappatura del voto infatti, notiamo che le zone dell’Ulster a netto predominio per il “remain” sono soprattutto quelle a maggioranza cattolica, con un elettorato fermamente rivolto verso il Sinn Feinn al governo. Al contrario nelle zone a maggioranza anglicana filo-britannica la prevalenza è stata per i “leave”, anche se con una percentuale inferiore rispetto alle prime. Si va a riproporre di nuovo la classica spaccatura all’interno del paese tra la comunità cattolica filo-irlandese e la maggioranza filo-britannica anglicana. Il tentativo di bloccare il riaccendersi di uno scontro che tanto male ha causato all’Ulster, ha determinato una brusca frenata del governo sulla questione di un eventuale referendum, in attesa di valutare gli sviluppi che si avranno nei prossimi mesi.
Cercando quindi di trarre alcune conclusioni relative agli effetti della Brexit interni ed esterni al Regno Unito, possiamo affermare che la rottura generatasi all’interno dell’Europa è comunque simmetrica ad una rottura altrettanto profonda che si è avuta all’Interno del Regno Unito. Del resto, le stesse conseguenze in termini di sollevazione delle questioni di sovranità nazionale, emerse dalla propaganda di una serie di partiti spesso afferenti all’estrema destra, va di pari passo con il riaffermarsi delle problematiche nazionali interne all’UK. Per farla breve, se Bruxelles sta perdendo il controllo dei vari stati che compongonol’Unione, colpa anche delle politiche economiche della stessa, L’Inghilterra sta perdendo il controllo delle varie nazioni che si erano associate ad essa, complice da una parte il venir meno proprio del legame con gli altri paesi UE, reciso per volere in particolare dell’elettorato inglese, dall’altra un malcelato senso di superiorità di Londra rispetto alle altre nazioni del Regno Unito, trattate più come suddite e sconfitte dalla storia, che come pari.
In ogni caso l’uscita del paese più euroscettico dell’intera Unione, alla quale si era associato un po’ controvoglia nel 1973, può paradossalmente trasformarsi in un’occasione per gli altri paesi UE i quali possono intraprendere un percorso politico che porti ad un avvicinamento sempre maggiore tra gli stati membri, processo che negli ultimi decenni è stato sempre frenato proprio dal Regno Unito. L’uscita dell’UK in ogni caso, è talmente negativa sul lungo termine per l’economia d’oltremanica e per l’unità stessa del paese, come abbiamo già visto, che l’intera classe dirigente sta tentennando nella richiesta d’applicazione dell’ormai famoso art.50 del trattato di Lisbona, che regola la fuoriuscita di un paese membro. Boris Johnson e Nigel Farage, i due leader del fronte del “Leave” hanno inoltre fatto un passo indietro dalle loro posizioni preminenti all’interno dei rispettivi partiti, dopo essersi rimangiati una larghissima fetta delle promesse fatte in campagna elettorale. A questo punto mi sorge un dubbio…vista la caratteristica puramente consultiva del referendum sulla Brexit, siamo sicuri che il governo centrale chiederà davvero l’uscita dall’Unione?
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Novembre 2020
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