Matteo Renzi è il David Cameron di Rignano?
Per la prima volta da quando è online questa testata, l’approfondimento di attualità esce di martedì. Ci sembrava la scelta più appropriata, tenendo conto che alle 23.00 di domenica è iniziato lo spoglio del referendum costituzionale sulla riforma Boschi. Un referendum nato per confermare i cambiamenti apportati alla Costituzione e all’impianto istituzionale dello stato dal più giovane premier della storia repubblicana, quando – si era in aprile – pareva una soluzione semplice e plebiscitaria per cementarne il consenso. Visto con gli occhi di allora, il risultato di questa notte – per la precisione la vittoria dei No con il 59,11% delle preferenze, vale a dire 19.419.528 elettori – era ben poco credibile. Ma quest’anno, di risultati incredibili o imprevedibili ne abbiamo visti altri: dall’elezione di Donald Trump alla Brexit. Ed è proprio il confronto con i fatti inglesi che sembrerebbe il più calzante: come in quel caso, un premier giovane ha puntato tutto sull’esito di una consultazione referendaria, ha perso e rassegnato le dimissioni, dichiarando esaurita la propria carriera politica.
Ad uno sguardo più attento, tuttavia, le differenze emergono con forza. David Cameron aveva promosso il referendum remain-leave controvoglia, più che altro per adempiere ad una promessa elettorale lanciata al tempo delle Politiche per conquistare l’elettorato più destrorso ed euroscettico. Da par suo, Matteo Renzi si è buttato anima e corpo sul Sì, personalizzando volontariamente la consultazione: un errore di cui si è reso conto troppo tardi, cercando di raddrizzare una rotta ormai impazzita. Le dimissioni, come nel caso di Cameron, rappresentavano a questo punto l’unica scelta possibile: il governo Renzi era nato per fare le riforme istituzionali. Bocciate quelle, è bocciato l’intero operato del governo. Del resto, il premier l’aveva dichiarato da tempo. Quello che resta da capire è cosa succederà a questo punto. Per Renzi, più che i titoli di coda, ci permettiamo di immaginare una “fine primo tempo”. È ancora il segretario del Partito Democratico, la lista con il maggior numero di seggi in Parlamento. Ha dunque una grossa voce in capitolo sulla formazione del governo tecnico che verrà, e sull’eventuale legge elettorale che sarà discussa alle Camere. Ora gli conviene defilarsi, e sperare che un governo opaco riscuota scarsi risultati, permettendogli di ripresentarsi, domani o dopodomani, come il salvatore della patria. Seduto sulla riva del fiume, non aspetta altro che vedere gli altri partiti, l’“accozzaglia”, litigare e dimostrarsi incapaci di realizzare riforme condivise. Come faceva notare Franco Bechis ieri in TV, Renzi è uno che “sa perdere bene”, nel senso che quando perse le primarie con Bersani riuscì, nel giro di poco più di un anno, a capovolgere la situazione a proprio favore. L’unica opzione disponibile al momento era la ritirata, la “traversata nel deserto” di berlusconiana memoria, in attesa di tempi migliori. In questo schema intuibile, le variabili sono rappresentate dal comportamento degli altri partiti e della sinistra PD. Riusciranno Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega Nord ecc. a costruire un cantiere di legge elettorale – oggi più necessaria che mai, visto il tramonto dell’Italicum e il ritorno al Consultellum, cioè la proporzionale secca imposta dalla Corte Costituzionale con la bocciatura del premio di maggioranza nel Porcellum – condiviso? Le due anime del M5S, quella “governativa” di Luigi Di Maio e quella “barricadera” di Alessandro Di Battista, troveranno una posizione univoca? Se la nuova legge elettorale sarà proporzionale, il Movimento accetterà l’ipotesi di una coalizione? E cosa sarà del Partito Democratico? Appare evidente che il progetto messo in cantiere da Walter Veltroni nove anni fa, stenta ancora a decollare. Troppo diverse le anime interne. Un conoscente ci ha proposto l’immagine della casa occupata: D’Alema & co. sarebbero i vecchi padroni che sono riusciti, a spallate e spinte, a liberarsi dell’occupante (Renzi e il “giglio magico”) e a riprendersi la propria vecchia abitazione. Per quanto suggestiva, la metafora non è del tutto affidabile. Anzitutto, l’occupante ha ancora le chiavi di casa. E se la convivenza è stata fin qui difficile, resta da capire chi (e se) vorrà firmare le carte della separazione. Si prospettano grandi cambiamenti, e non è detto che siano quelli che gli attuali protagonisti si aspettano.
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Novembre 2020
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