Com’è noto, a un anno esatto dagli attentati di Bruxelles, il 22 marzo Khalid Masood ha compiuto un atto terroristico nel cuore di Londra, tra il ponte di Westminster e il Palazzo di Westminster, sede del Parlamento inglese. La dinamica sembra essere stata chiarita dagli investigatori: l’uomo, insegnante di inglese, dopo aver noleggiato un Suv, lo ha diretto sulla folla che attraversava il ponte di Westminster – per lo più turisti – finendo per schiantarsi sulla cancellata del limitrofo Palazzo delle Camere. Sceso dall’auto, si è diretto contro un uomo della sicurezza accoltellandolo a morte, per essere poi ucciso a sua volta da due agenti in borghese che pattugliavano l’edificio. In totale le vittime sono 5 (compreso Masood), quaranta i feriti tra cui alcuni in condizioni molto gravi. Fin qui la stretta cronaca. A metter bocca su temi del genere si rischia di sprofondare in un oceano di qualunquismo, retorica e luoghi comuni. Possiamo invece provare una delle credenze popolari più diffuse snocciolando dati, perché per trovare risposte occorre innanzitutto porsi le domande giuste. Il multiculturalismo è dai più additato come causa degli attentati, poiché gli immigrati sarebbero gli autori degli attacchi ai valori occidentali. Nulla di più falso, come spesso non si sottolinea a sufficienza. L’attentatore di Londra, Khalid Masood, era nato a Erith, contea di Kent, nel sud della Gran Bretagna, col nome di Adrian Russell. Era inglese quanto la Regina Elisabetta, per intenderci. Nel successivo processo di radicalizzazione pare avesse aderito alle correnti più estremiste dell’Islam e avesse cambiato il suo nome in quello con cui i giornali e le autorità lo hanno identificato. Gli autori dell’assalto alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, sanguinoso apripista degli attentati francesi degli ultimi due anni – ma anche dell’ipocrisia 2.0 della communis opinio occidentale – furono tre ragazzi francesi, Said Kouachi, Chèrif Kouachi nati a Parigi, e Hamyd Mourad. Parigini come i bistrot di Monmartre e le muse dei pittori del Novecento. Gli attentatori che la sera del 14 novembre 2015 commisero una vera strage tra le vie di Parigi, colpendo in diversi modi e tempi obiettivi sensibili ma anche centri del tutto casuali, erano probabilmente 7 e solo uno di loro era nato fuori dai confini della Vecchia Europa, in Siria, entrato nell’UE infiltrandosi tra i migranti sbarcati in Grecia. Gli altri erano cittadini francesi e belgi. Ancora. Gli attentati del 22 marzo 2016, all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles, furono compiuti da Najim Laachraoui, Khalid e Ibrahim El Bakraoui, tutti e tre nati in Belgio, gli ultimi due nella stessa Bruxelles, belgi quanto i famosi e odiati cavolini che la Clerici ha sdoganato in tv. Infine, l’attentatore che il 14 luglio dello scorso anno fece strage per le vie di Nizza, lanciandosi con un camion sulla folla festante, che godeva lo spettacolo dei fuochi sul lungomare per celebrare la festa della Repubblica, era Mohamed Bouhlel, nato in Tunisia, residente dal 2005 in Francia. Così come tunisino era Anis Amri, attentatore che, con le medesime modalità, aveva falciato i passanti tra le strade del mercatino natalizio di Charlottenburg, a Berlino; era in Europa dal 2010. Dunque, la maggior parte degli attentatori che negli ultimi due anni ha seminato il panico nelle capitali europee non solo ha la cittadinanza comunitaria, bensì è nata nel territorio europeo. Non sarà sfuggito, tuttavia, che i nomi appena elencati richiamano la cultura araba. E infatti tutti gli stragisti hanno origini arabe, sono le cosiddette Seconde Generazioni, ovvero figli di immigrati che sono nati e cresciuti sul territorio del Paese in cui si trasferirono tempo addietro i genitori. Pertanto il problema dell’immigrazione e del suo eventuale blocco è del tutto fuorviante se rapportato al terrorismo di matrice islamica. Il vero nocciolo della questione appare piuttosto l’inclusione/esclusione sociale delle Seconde Generazioni. Bisogna comunque essere obiettivi: i figli della Seconda Generazione sono milioni, e se non sono tutti intenti a farsi saltare in aria in qualche stazione della metro vuol dire che il binomio radicalizzazione più stragismo attiene più a cause psicologiche, individuali, che a cause sociopolitiche. Il collegamento tra gli stragisti e lo Stato maggiore dell’Isis deve essere dunque preso con le molle, per non rinfocolare semplificazioni pericolose. Nelle paure è fin troppo facile generalizzare e addossare le colpe di tutto questo orrore a una religione, a un’ideologia. Il mondo dell’Islam è frammentato e spinoso; complessivamente i musulmani sono oltre un miliardo e mezzo e criminalizzare un simile numero di persone è banale come l’intervista di un calciatore a fine partita. Il multiculturalismo, semmai, appare la vittima degli stragisti: infatti gli attentati sono stati compiuti in metro, aeroporti, stadi, locali notturni, mercatini, strade principali affollate. Posti di passaggio, di ritrovo di comunità, nei più grandi centri d’Europa. Nessuno può aspettarsi di camminare sul ponte di Westminster e trovarci solo britannici doc, né tantomeno trovare pura razza teutonica per le strade di Berlino in prossimità del Natale, figurarsi in un aeroporto belga un martedì mattina qualunque. Il multiculturalismo è la vera vittima: sono decine le nazionalità delle vittime di tutti questi attentati, mentre pochissime quelle degli attentatori. L’islamizzazione – espressione apocalittica in voga ai giorni nostri – della cristianissima Europa pare essere uno spauracchio da sventolare nei talk show più che una reale minaccia. Quello che è intollerabile per gli attentatori, a mettere in fila i dati a nostra disposizione, è la possibilità di un mondo aperto, dove lo scambio supera di gran lunga l’avida difesa delle proprie posizioni. La stessa espressione ‘guerra di civiltà’, che viene tirata fuori a ogni piè sospinto da cinici sobillatori delle masse, è estremamente fuorviante. La guerra presuppone due entità che si controbattono mentre attualmente la rappresaglia è a senso unico. È uno stile di vita, quello della generazione Erasmus, per semplificare, che viene odiato, la dinamicità del mondo moderno. I muri sarebbero la guerra, impedire a un ragazzo africano o mediorientale o indiano di studiare nelle nostre Università sarebbe una guerra di in-civiltà che, se è vero come è vero che siamo figli della Grande Europa, la quale è un’idea prima ancora che un continente geografico, dobbiamo a tutti i costi evitare. Immagine tratta da www.ilrepubblica.it
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Novembre 2020
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