Alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare, direttamente o tramite amici parenti e conoscenti, con i voucher. Il voucher (termine improprio, la dicitura corretta sarebbe “buono lavoro”) è una forma di retribuzione semplice e veloce, dal valore di 10 €, perché funge da pagamento di una prestazione lavorativa senza bisogno di contratti, buste paga e lungaggini burocratiche varie. Peculiarità: si riferiscono alla prestazione di lavoro occasionale, dunque sono inutilizzabili per i rapporti di lavoro stabili. Almeno in teoria. La loro introduzione si deve alla Legge Biagi del 2003, dal nome del giuslavorista Marco Biagi assassinato dalle Nuove Brigate Rosse l’anno prima, a opera del Governo Berlusconi. Inizialmente destinati a retribuire solo le prestazioni di lavoro domestico (per intenderci colf e badanti), il loro utilizzo è stato progressivamente esteso da tutti i governi che si sono succeduti dal 2011 in poi – i famosi governi “non eletti” dal popolo – fino ad abolire quasi tutti i limiti alla loro diffusione: si pensi che nel 2008 ne vennero venduti 500mila, nel 2016 circa 134 milioni. Naturalmente presentano pregi e difetti: il loro pregio indiscutibile, motore di ogni riforma volta alla loro diffusione, è la tracciabilità di pagamenti destinati altrimenti al nero. L’uso dei voucher ha fatto emergere una moltitudine sterminata di rapporti di lavoro, consentendo allo Stato di incamerare una fetta importante di gettito fiscale che sarebbe rimasta nelle tasche dei datori di lavoro. D’altronde, in un mercato del lavoro come quello moderno, caratterizzato dalla frammentazione dei rapporti di impiego che sono brevi, precari, saltuari, incerti, avere un mezzo che renda possibile pagare legalmente e senza formalità un prestatore d’opera è un indubbio vantaggio per entrambi i soggetti del rapporto, dipendente e imprenditore. Tale beneficio però cede molto facilmente il fianco al rovescio della medaglia, che diventa il peggior difetto di questo strumento: la fittizia attribuzione dell’appellativo “occasionale” a prestazioni di lavoro che sono tutt’altro che saltuarie. Non occorre una laurea per capire come gli imprenditori abbiano facile gioco a raffigurare come provvisori taluni rapporti, pagandoli con i voucher, per sottrarsi alle problematicità che portano in dote i contratti di lavoro “veri”. Quello che doveva essere uno strumento di emersione del nero è diventato spesso uno strumento di immersione del bianco, creando un’enorme zona grigia di lavoratori, spessissimo under35, privi di qualsiasi tipo di tutela, con dei contributi previdenziali microscopici (il 13% del costo di un voucher è rappresentato dai contributi destinati all’Inps), dunque ricattati dal solo miraggio di un guadagno immediato. Di questa espansione abnorme si è resa portavoce critica la Cgil, dando prova di aver dato – forse – vita a un primo passo verso un ammodernamento delle lotte sindacali, appiattite per anni sulle problematiche dei lavori subordinati ‘classici’, i quali appaiono oggi dei privilegiati di extra lusso agli occhi dei moderni subordinati sociali, trentenni flessibili come giunchi, precari come equilibri di trapezisti, che guardano al futuro con la prospettiva di un quadro di Gauguin. Dimenticato per anni, questo esercito di disoccupati o di male occupati viene finalmente preso in considerazione dal più grande sindacato nazionale che ha proposto e ottenuto l’indizione di un referendum abrogativo sulla normativa vigente che disciplina i voucher, con l’intento di circoscrivere il loro utilizzo al lavoro domestico, così come previsto in origine. Di fatto, condividendo l’impostazione del Governo Berlusconi II, all’epoca osteggiata con vigore, nel più classico dei paradossi in salsa tragicomica. Il Governo Gentiloni ha individuato la data del referendum, 28 maggio, ma due giorni dopo un decreto legge lo ha implicitamente annullato, poiché è intervenuto per modificare la disciplina legislativa che sarebbe stata abrogata dal referendum stesso, iniziando a invertire la rotta riducendo gli ambiti e i limiti legali del loro utilizzo. Di là dal caso concreto, quello cui stiamo assistendo è un ottimistico rigurgito di forza del diritto sindacale che esce dal suo classico giardinetto per curarsi di chi oggi assomiglia, a livello di tutele economiche e occupazionali, molto più ai coltivatori di cotone dell’Alabama di fine ‘800 che all’operaio metalmeccanico dell’acciaieria sotto casa. Un solco che le politiche del lavoro europee stanno contribuendo a scavare, ponendo inadeguati argini alla post-industrializzazione aiutata dalla crisi economica, in un mondo che torna ai suoi albori nello squilibrio tra lavoro e capitale. Purtroppo, la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Eppure qui non ride nessuno. Immagini tratte da http://www.ilfattoquotidiano.it/
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Novembre 2020
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