“Hipsteroni di tutto il mondo, unitevi!” Poteva essere questo lo slogan del concertone del Primo Maggio 2017 che si è svolto a Roma, nella solita Piazza di San Giovanni, con la solita diretta della Rai, con i soliti sindacati ad organizzare l’evento che richiama migliaia di giovani da ormai 27 anni. Meno solito del solito è stato il nugolo di artisti esibitisi quest’anno. La classica linea politico-popolare ha ceduto il passo al fenomeno della musica indie, esplosa negli ultimi mesi, come dimostra la proliferazione incontrollabile di artisti che ruotano intorno all’orbita di questo genere. E a Roma c’erano quasi tutti: Le Luci della Centrale Elettrica, Motta, Brunori Sas, Lo Stato Sociale, Levante, Ex Otago solo per citare i più noti di questo genere che fa della scarsa notorietà un paradossale punto di forza. Alluvioni di critiche sono piovute da più parti, incentrate sull’inopportunità della scelta degli organizzatori di snaturare il senso profondo del concerto e della festa che fa da sfondo all'evento. Forse che i Modena City Ramblers sono più adatti a narrare le fatiche del lavoro, le nostalgie di un’ideale perduto a Cuba nella Rivoluzione, di quanto non lo sia un ragazzino pisano un po’ autistico che conturba gli occhi delle matricole universitarie col septum e lo zaino viola? Chissà. Probabilmente siamo di fronte a un passaggio generazionale che ha trovato conferma nella svolta compiutasi a Roma. La crisi delle ideologie o altre retoriche del genere, a guisa di rassegnazione nostalgica, che tanto garba agli opinionisti del Bel Paese, non attacca più. E non ci riesce perché chi muove queste critiche lo fa da un pulpito di moralismo noioso, slegato dalla realtà. I sindacati, Dio benedica i sindacati! Così obsoleti da sembrare i caratteri mobili di Gutenberg in un mondo di fibra ottica, forse c’hanno visto giusto nell’avallare la strategia di iCompany e Ruvido Produzioni, le due agenzie che hanno organizzato e prodotto l’evento. Non è un segreto che negli ultimi anni il concerto del Primo Maggio sia stato sempre meno frequentato: forse il disamore verso certe tematiche ha svuotato i treni dei portoghesi che, zaino in spalla, filtravano nei vagoni in viaggi della speranza per andare a riempire San Giovanni di vino e urlacci, con la gioia dei vent’anni e la partecipazione di un insieme. I sindacati hanno tentato paraculisticamente di cavalcare l’onda della moda per rilanciare l’evento, parlando ad una platea di giovani diversa, moderna, riuscendoci – numeri alla mano – solo parzialmente. Chi disconosce questa scelta pregiudizialmente è bene che rimanga in casa ad ascoltare i suoi artisti preferiti ché qui all’improvviso è arrivato il futuro. Il fenomeno indie è intrinsecamente legato alla mutazione del panorama sociale: in un mondo in cui il collettivo conta sempre meno sta emergendo una musica che parla all’individuo, ma con le stesse tematiche di trent’anni fa. Ciò che sta cambiando sono il modo e il linguaggio, ma non il contenuto. I professionisti della sinistra fatta bene andassero a guardare l’esercito dei giovani che aderiscono al mondo indie: si accorgeranno che ogni classificazione è liquida e pertanto inutile. Sì, i ragazzi dei Parioli con l’Audi di papà ascoltano indie leggero perché suona bene. Ma anche nei centri sociali di Bologna ascolta indie il punkabbestia con la ketamina nascosta nel collare del cane. E poi ascolta indie la liceale di Milano che vive di collarini e big like su Instagram. Però pure quella che studia medicina a Napoli ed è un cranio, che passa le giornate sugli atlanti di anatomia ascoltando gli Eva Mon Amour che la fanno stare bene. Perché oggi c’è bisogno di parole nuove, ed è questo il messaggio che bisogna cogliere. Non chiamatela musica leggera. Qualcuno di loro sì, la fa. Ma molti, molti altri di leggero hanno solo la voce e la chitarrina in sottofondo. La modernità ci sta facendo riscoprire la musica cantautorale e non è un caso che stia accadendo ora, dopo il crollo di un sistema economico e sociale che ha lasciato parecchie macerie e una tonnellata di incertezza per centimetro cubo di materia grigia nella generazione nata negli anni ’90. Le parole di Vasco Brondi piuttosto che di Francesco Motta parlano alla confusione. Non danno risposte perché risposte non ce ne sono. Non cantano di un’ideologia, e nemmeno della fine dell’ideologia. Parlano ai testimoni di un dopoguerra senza guerra. Ai nativi digitali che consumano cristalli liquidi e giga come l’eroina negli anni ’70. Dunque no, non scandalizziamoci se invece di "Beppeanna" della Bandabardò da quest’anno avremo nelle orecchie "L’uomo nero" di Brunori Sas. E tu che scuoti la testa mentre ti dico che ora servono nuove parole, ricorda che l’utopia è rimasta ma la gente è cambiata: la risposta ora è solo più complicata.
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Novembre 2020
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