Un anno di consultazioni, elezioni, risse dentro e fuori i partiti. Il risultato? Rajoy alla Moncloa per altri 4 anni.
Sono giorni di grande lavoro, per i corrispondenti esteri dei giornali. Mentre negli Stati Uniti la sfida tra Hillary Clinton e Donald Trump è arrivata ai colpi finali (e sembrerebbero colpi piuttosto bassi, a giudicare dalla riapertura dello scandalo delle mail, di cui vi parleremo la prossima settimana), a livello europeo rimangono in corso il processo della Brexit e ancora non si trova una quadra sulla questione dei rifugiati. In Francia si scaldano i motori per le Presidenziali 2017, con un Hollande che non sa neppure se sarà ricandidato. Occupandoci di attualità a tutto campo, non possiamo dimenticare i fatti nostrani, tra il terremoto delle Marche, che sembra non avere mai fine, e la campagna referendaria, che ha raggiunto il suo livello più delirante con il dibattito televisivo tra l’ottantottenne Ciriaco De Mita e il premier Renzi. Ma oggi torniamo a parlare della situazione spagnola, cui abbiamo dedicato approfondimenti già a marzo e a luglio. A quasi un anno di distanza dalle elezioni politiche di dicembre 2015, e a quattro mesi dal bis elettorale del 26 giugno, Mariano Rajoy è stato nuovamente eletto presidente del Gobierno, cioè presidente del Consiglio, ruolo che per altro riveste dal 2011. Per farlo, ha dovuto passare sopra il cadavere (politico) del segretario socialista Pedro Sánchez.
Per riassumere le puntate precedenti, la situazione del Parlamento spagnolo dopo le elezioni 2015 e 2016 era praticamente identica: 137 seggi ai Popolari di Rajoy (centro-destra), 85 ai socialisti, 71 a Podemos (una specie di Movimento 5 Stelle ma convintamente radicato a sinistra) e 32 a Ciudadanos (movimento liberale di centro, con timide aperture a sinistra). Il tramonto del bipartitismo si è tradotto nel più incredibile degli impasse istituzionali, con nessun’alleanza possibile: i socialisti non volevano i popolari, Ciudadanos non voleva Podemos, Podemos non voleva i popolari… la maggioranza di 176 deputati sembrava impossibile da raggiungere.
La maggior parte dei commentatori era convinta che l’unica via veramente praticabile fosse l’alleanza tra centro-sinistra e centro-destra: una Große Koalition, come si dice nel gergo giornalistico. Ma Sánchez era fortemente contrario, in quanto consapevole dei danni che simili alleanze producono in particolar modo al consenso del partito di sinistra: sembrerebbe che gli elettori di centro-destra siano più disposti a tollerare un governo di compromesso, rispetto alla controparte. Se a questa posizione irremovibile, che avrebbe portato in breve a nuove elezioni, si aggiungono i risultati pessimi ottenuti dal PSOE alle regionali di Galizia e Paesi Baschi, si capisce come mai il partito stesso si è ribellato al suo segretario, costringendolo alle dimissioni. 17 su 35 membri del Comitato Centrale si sono dimessi, pur di sfiduciarlo: un gesto simile a quello compiuto dalle alte sfere laburiste contro Jeremy Corbyn, ma che ha colpito nel segno, perché non solo Sánchez ha lasciato la segreteria del partito (I ottobre), ma ha anche rinunciato al suo seggio parlamentare (29 ottobre), pur di dimostrare la propria contrarietà ad un governo di socialisti e popolari.
Domenica 23 ottobre, dopo ore di discussione, il Comité Federal dei socialisti ha deciso che Rajoy sarà nuovamente premier, in barba a quanto era stato ripetuto per oltre un anno: il PSOE, semplicemente, si astiene, facendo sì che i popolari instaurino un governo di minoranza assieme a Ciudadanos.
Dopo un primo tentativo tra mercoledì e giovedì (in cui era ancora richiesta la maggioranza assoluta, ovviamente non raggiunta), Rajoy si è presentato alla Camera (Congreso de los Diputados) sabato pomeriggio per chiedere la fiducia. A quel punto, era sufficiente che i voti a favore fossero maggiori di quelli contrari. I SÌ sono stati 170, esattamente come al voto precedente, ma i NO sono stati 111 e le astensioni 68. ma larga parte del gruppo socialista si è astenuta. Non contando il dimissionario Sánchez, la matematica e il voto palese dimostrano che sono stati ben 15 i socialisti a votare NO, opponendosi alle direttive del Partito.
A questo punto, si apre una nuova pagina nella storia della democrazia spagnola, che a dispetto di tutte le aspettative di cambiamento si trova di fronte al solito governo popolare. Debole, certamente, ma l’unico possibile fino alle prossime politiche. I socialisti sono entrati in una gravissima crisi, con i maggiorenti del partito che hanno firmato un’impegnativa cambiale con la destra e un gruppo di ribelli, guidati da Sánchez, che promette battaglia. Gli scenari futuri sono imprevedibili.
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Novembre 2020
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