![]() Il 22 aprile scorso i grandi della Terra si sono riuniti a New York per firmare il patto di Parigi sul clima. L'accordo, raggiunto nel corso della XXI Conferenza ONU sul clima (COP21) tenutasi nella capitale francese nel dicembre del 2015, segna una tappa importante nella definizione di una politica ecologica internazionale: per la prima volta i rappresentanti di 175 nazioni hanno approvato e sottoscritto un accordo vincolante per limitare i mutamenti ambientali dovuti all'attività umana. Tra le misure approvate spicca l'impegno a mantenere l'aumento delle temperature entro la soglia dei 1,5 gradi. Un obiettivo di sicuro non facile, ma che potrebbe aiutare ad arginare l'ondata di cambiamenti climatici (anche drastici e, in alcune zone, catastrofici) degli ultimi decenni. I Paesi più industrializzati, inoltre, costituiranno un fondo di 100 miliardi di dollari all'anno per contribuire allo sviluppo di tecnologie e metodi di produzione energetiche non inquinanti (una sorta di risarcimento per i danni finora provocati e di presa di coscienza delle proprie responsabilità); verranno inoltre erogati fondi per le zone più colpite dall'aumento delle temperature, e che fin troppo spesso coincidono con le aree più povere del pianeta. Se il trattato di Parigi è sicuramente un evento di primaria importanza, c'è da chiedersi se non sia ormai troppo tardi per evitare che la situazione climatica mondiale precipiti verso un punto di non ritorno. Le misure approvate dovrebbero entrare in vigore a partire dal 2020: altri quattro anni di attesa rischiano di essere fin troppi. L'accordo arriva infatti dopo vent'anni di promesse non mantenute e di continui rimandi. L'ultima conferenza sul clima, tenutasi a Copenaghen nel 2009, si era conclusa dopo mesi di trattative con un nulla di fatto, a causa dell'opposizione delle potenze industriali emergenti (Cina e India su tutte). Secondo più voci, il mantenimento delle temperature entro i 1,5 gradi, se costituiva un obiettivo perfettamente raggiungibile solo una decina di anni fa, rischia adesso di rivelarsi un'utopia. E persino un aumento così contenuto potrebbe non bastare per arginare l'acidificazione degli oceani, l'aumento delle zone desertiche e il progressivo ritiro delle calotte polari e delle foreste pluviali. L'accordo raggiunto, in poche parole, non sembra abbastanza per fermare i processi di cambiamento climatico tuttora in corso. Il vero problema, però, risiede nella volontà (politica) e nella possibilità (tecnica) di abbandonare gradualmente ma definitivamente i combustibili fossili. Una transizione non certo facile, a cui si oppongono forti interessi economici e limiti tecnologici, ma di cui ormai non si può più fare a meno. Da questo punto di vista spetterà a USA e Cina (che da sole producono più di un terzo delle emissioni di anidride carbonica mondiali) fare quanto più possibile per guidare la transizione. Senza contare che Paesi emergenti come il Brasile e l'India (che ha basato la propria recente industrializzazione quasi interamente sull'uso di combustibili fossili), pur avendo sottoscritto gli accordi internazionali, troverebbe difficoltà enormi nel passaggio a fonti di energia pulita. La firma dei patti di Parigi è indice di una (tardiva, ma ormai inevitabile) presa di coscienza di un problema che ci riguarda tutti. Stavolta, però, i leader mondiali dovranno rendersi conto che il tempo delle promesse e dei proclami è finito: una politica energetica sostenibile non è più un optional o uno slogan elettorale, ma una necessità fin troppo pressante. Immagini tratte da:
Palazzo Nazioni Unite, da Wikipedia inglese, di Steve Cadman, CC BY-SA 2.0, voce Midtown_Manhattan Logo COP21, da Wikipedia inglese, Fair Use, voce 2015 United Nations Climate Change Conference Tabella emissioni CO2, da Wikipedia inglese, di Chris55, CC BY-SA 4.0, voce 2015 United Nations Climate Change Conference
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Novembre 2020
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