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24/4/2017

Per ora noi la chiameremo democrazia.

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di Lorenzo Alemanno
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Quanto sta accadendo in Turchia nelle ultime settimane è destinato a finire nei libri di storia. Difficilmente cambiamenti così radicali passeranno sotto silenzio, ma anzi sono destinati a far rumore. Forse più di quello che possiamo udire noi contemporanei, che apprendiamo distrattamente frammenti di notizie senza riuscire a misurarne la portata. Volendo cercare un filo da riavvolgere occorre partire probabilmente dalle proteste del 2013 contro la costruzione di un centro commerciale nel parco Gezi di Istanbul. Una protesta pacifica e di stampo ecologista si trasformò ben presto in una contestazione del governo del Presidente Erdogan, che tentò di reprimere con la forza la manifestazione. Da lì in poi una escalation di autoritarismo ha inebriato il Sultano, che si è spinto fino alla chiusura di alcuni quotidiani d’opposizione nel solco del più classico dei regimi dittatoriali. Ma per ora noi la chiameremo democrazia. Il delirio di onnipotenza del governo turco ha raggiunto l’apice a seguito del tentato, presunto, ambiguo golpe del luglio 2016, operato da una frangia delle forze armate del Paese, cui è seguita la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Circa 150 morti, quasi 3000 arresti e 2500 tra magistrati e insegnanti rimossi dall’incarico. Il Presidente Erdogan ha assunto poteri straordinari consacratisi nel referendum costituzionale del 16 aprile 2017 col quale è stato di fatto sostituito il sistema parlamentare con un sistema presidenziale forte. Il quesito referendario ha ottenuto una risicata maggioranza, oltrepassando di poco la soglia del 50%; per tale motivo sono stati avanzati forti dubbi di brogli elettorali, stante la fortissima pressione mediatica e politica che il governo ha esercitato nei giorni precedenti e soprattutto il caso, sollevato dai partiti d’opposizione, delle schede elettorali non recanti il timbro ufficiale. I tribunali hanno tuttavia respinto questa ricostruzione dei fatti, e le opposizioni hanno minacciato di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che invero non ha competenza in Turchia poiché l’adesione del Paese venne sospesa all’indomani del golpe del luglio 2016. Una situazione che, insomma, traccia una linea di demarcazione nettissima tra la struttura statale del Paese di mezzo, epico ponte geografico tra Europa e Asia, e la democrazia. Nello specifico, la riforma della Costituzione approvata dal referendum ha come primo effetto quello di sovrapporre le cariche di Premier e di Capo dello Stato, con maggiori poteri a quest’ultimo che potrà nominare personalmente i ministri, alcuni alti funzionari pubblici e 3 membri del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre a sottoporre la legge di bilancio al Parlamento. Il Parlamento, inoltre, si vede ridurre i margini di controllo sull’operato dell’esecutivo attraverso nuovi ostacoli ai suoi poteri di vigilanza. In buona sostanza stiamo assistendo a un accentramento dei poteri statali in un unico ruolo, attualmente ricoperto da Erdogan, palesando in maniera preoccupante la reversibilità del sistema democratico, monito per tutti i Paesi ‘evoluti’ che non basta aver raggiunto uno standard accettabile di democrazia ma occorre mantenerlo. In periodi come quello attuale, sferzato dal terrorismo internazionale e dalla crisi economica, la storia insegna che il populismo cede facilmente il passo all’autoritarismo, anticamera di conflitti sanguinosi. La Turchia rappresenta anche geograficamente il primo Paese di frontiera, al confine tra la civile Europa e la barbarie delle guerre mediorientali: è stato il primo a cadere vittima dell’uomo forte al comando, che sa come, dove, cosa e quando risolvere i problemi, per quanto grandi siano, calpestando elementari diritti umani proprio come in quei Paesi martoriati da guerre e terrorismo. Calpestando i diritti di Gabriele Del Grande, ad esempio, giornalista italiano detenuto da ormai 13 giorni nel Paese turco senza un capo d’imputazione, colpevole di provenire dalla Siria, dove era andato a intervistare profughi di guerra. Il clima è tesissimo e la comunità internazionale sta prendendo pericolosamente tempo, conscia del fatto che Erdogan è diventato ben più di un Presidente di uno Stato di frontiera, bensì è a tutti gli effetti il capo indiscusso di uno Stato dove la libertà ha subìto una restrizione inaccettabile, ma effettiva. E per ora, noi, la chiameremo col suo nome: dittatura.

Immagine tratta da vignetta di Joep Bertrams


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