Jeremy Corbyn viene rieletto alla segreteria del Labour ad appena un anno dal suo insediamento. Perché è stata necessaria questa riconferma?
Sabato scorso si è chiusa – con la rielezione di Jeremy Corbyn alla segreteria – la più grave crisi interna del partito laburista britannico dell’ultimo decennio. Sono lontani i tempi in cui il partito di Tony Blair e Gordon Brown riuscì a vincere tre elezioni politiche consecutive (1997, 2001, 2005), dominando non solo la scena politica inglese, ma l’intero panorama della sinistra mondiale, secondo quella che fu definita la «terza via» tra socialismo e capitalismo. Benché David Cameron, il leader del partito conservatore, abbia dato le dimissioni da premier dopo la sconfitta nel referendum sulla Brexit, un sorpasso dei laburisti sui conservatori pare improbabile. Perché?
Da un lato, l’elettorato britannico pare soddisfatto dell’operato di Theresa May, l’esponente conservatrice che ha sostituito Cameron. La sua volontà di rallentare il più possibile l’uscita dall’Unione Europea, contenendo gli eventuali danni che questa potrebbe causare, ha raccolto grandi consensi in patria, pur irritando Bruxelles. Dall’altro lato, una responsabilità non da poco spetta a Corbyn, amato dagli iscritti ed odiato da molti degli eletti al Labour. Sotto la sua leadership, i due partiti si sono raramente avvicinati, e solo in due occasioni è avvenuto il sorpasso, come si può verificare da questo grafico ricavato dai dati del sito Uk Polling Report.
Cerchiamo di conoscere Jeremy Corbyn più da vicino. Nato nel 1949, l’attuale leader laburista appartiene anagraficamente alla generazione di Blair e Gordon Brown, ma è arrivato alla guida del partito ad oltre 65 anni (il predecessore, Ed Miliband, ci era riuscito a 41 anni, per capirci). Il pessimo risultato di Miliband alle elezioni 2015, vinte con ampio margine dalla destra, portò gli iscritti al partito laburista a premiare le posizioni “socialiste” di Corbyn, noto per anni di attivismo nelle retrovie del partito. Dichiaratamente contrario all’austerità promossa dal governo conservatore, Corbyn voleva che Tony Blair fosse indagato per aver autorizzato la missione in Iraq e rispolverava la parola “compagni” (comrades). Aveva una visione filo-palestinese della questione mediorientale – quest’anno ha persino rischiato di apparire antisemita – ed era convinto che fosse necessario nazionalizzare i servizi essenziali, a partire dalle ferrovie. Più che uno Tsipras o un Iglesias, le sue posizioni lo avvicinavano a Bernie Sanders, e i continui riferimenti al socialismo (“il nostro paese ha ancora da imparare da Marx”) ne sono una chiara prova.
Alle primarie del 2015, il 59,5% degli iscritti al partito si lasciò convincere dalla linea sinistrorsa di Corbyn. Molto meno convinti erano i suoi colleghi di partito, che dopo la sconfitta del REMAIN al referendum sulla Brexit hanno approvato in larghissima maggioranza una mozione di sfiducia. Corbyn, infatti, era favorevole alla permanenza nell’Unione Europea, ma non si era impegnato più di tanto nella campagna elettorale. Vuoi perché in fin dei conti era un europeista “tiepido” – l’austerità non rende facile apprezzare l’operato delle istituzioni europee – vuoi perché era consapevole che la permanenza sarebbe stata soprattutto una vittoria di Cameron, ha preferito defilarsi. A quel punto, tutti i suoi nemici interni si sono coalizzati, cercando di ribaltare il voto popolare. Per questo motivo, si sono tenute nelle ultime settimane nuove primarie, che lo hanno visto contrapporsi a Owen Smith, a sua volta esponente della sinistra del partito, ma con posizioni più moderate (la stampa britannica l’ha definita soft left, “sinistra morbida”).
Con 313.209 voti contro 193.222, Corbyn ha decisamente confermato la propria posizione. Questa volta, hanno partecipato alle primarie 80.000 iscritti in più e il suo consenso è persino cresciuto (oltre il 61% dei consensi), il che dimostra che la base ha fiducia nel suo programma. Tuttavia, questa vittoria lascia aperti numerosi problemi.
Anzitutto, Corbyn deve riconquistare la fiducia dei parlamentari del suo partito. Se l’80% voleva togliergli la poltrona, appare evidente che c’è qualcosa che non va nel suo modo di rapportarsi agli eletti. Ma questo significa anche che il Labour ha dei grossi problemi di comunicazione fra i suoi livelli: eletti, iscritti e soprattutto elettori. La sinistra ha costituzionalmente fondamento nell’espressione delle esigenze popolari. Se gli iscritti si spostano troppo a destra o a sinistra e non ascoltano più l’elettorato, significa che quel partito è destinato a perdere le elezioni. Se gli eletti non rispettano il mandato degli iscritti, il partito rischia la dissoluzione. Ad oggi questi ingranaggi paiono tutti fuori posto, se guardiamo alla situazione del Labour. Il caso della Scozia – di cui ha già parlato su queste pagine Matteo Leoni – è la dimostrazione di come un consenso saldo, paragonabile a quello del PCI nell’Emilia Romagna di una volta, possa essere perso nel giro di pochi anni, in mancanza di un ascolto attento dei bisogni reali. Ora che è stato riconfermato, Corbyn deve dare una sterzata significativa alle politiche laburiste: in palio non c’è solo la leadership del Regno Unito, ma l’esistenza in vita del Labour.
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Novembre 2020
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