Vita e morte di Peres, dal nucleare agli accordi di Oslo
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Venerdì scorso, leader presenti e passati dei paesi più potenti al mondo si sono riuniti a Gerusalemme per i funerali di stato di Shimon Peres, il politico israeliano più noto all’estero. C’erano Obama, Cameron, Hollande, Renzi, Trudeau, Bill Clinton, ma la presenza che ha suscitato più interesse è stata quella di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, che ha stretto la mano all’attuale primo ministro Netanyahu. Un gesto non da poco, se pensiamo ai rapporti non esattamente sereni tra i due, ma che trova una buona spiegazione nella storia personale di Peres.
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La sua storia è simile a quella di molti altri leader israeliani dei primi decenni di vita dello stato ebraico. Nato come Szymon Perski a Višneva (città oggi bielorussa, allora polacca) nel 1923, raggiunse la Palestina all’età di 11 anni. A seguito dell’esperienza giovanile in kibbutz – le comuni della tradizione sionista – aderisce ai movimenti giovanili della sinistra israeliana, e conosce David Ben Gurion, il “padre della patria” di Israele. Grazie alla fiducia accordatagli da Ben Gurion, compie una promettente carriera nell’esercito, finendo per assumere l’incarico di Direttore generale del Ministro della Difesa (1953). In tale veste riuscì a procurare al proprio paese l’accesso alla tecnologia nucleare, con la fondazione del Negev Nuclear Research Center di Dimona, grazie alla Francia. Benché il governo non lo abbia mai confermato, è opinione diffusa che a Dimona sia ospitato (almeno in parte) l’arsenale nucleare israeliano. Il fatto che Israele possieda armi atomiche ha sempre costituito un deterrente enorme nei confronti dei paesi che ne hanno avversato l’esistenza (Egitto, Iran, ecc.), al punto che si è parlato di Dimona come di una «polizza sulla vita» dello stato ebraico.
A livello politico, Peres ha rappresentato il partito laburista come primo ministro tra il 1984 e il 1986 e tra il 1992 e il 1995; tra il 2007 e il 2014 è stato presidente della repubblica, bilanciando – con le proprie posizioni concilianti – la politica aggressiva di Netanyahu. Parrebbe strano parlare di “politiche concilianti” per un politico proveniente dalle file dell’esercito, persino responsabile del programma nucleare del proprio paese. Il fatto è che la carriera di Peres è stata tanto lunga da trasformarlo, progressivamente, da “falco” in “colomba”. Nel 1994, a seguito della firma degli Accordi di Oslo, ha ricevuto, non a caso, il premio Nobel per la Pace, assieme a Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.
Gli Accordi di Oslo rappresentano ancora oggi il principale passo avanti nella risoluzione della questione palestinese. La loro conseguenza più significativa è stata la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, organo di autogoverno del popolo palestinese, che dopo oltre quarant’anni di invisibilità trovava una legittimazione politica. Se a distanza di vent’anni non si sono compiuti significativi passi avanti rispetto a quelle premesse (tanto importanti che Rabin sarebbe stato ucciso pochi mesi più tardi da un integralista di destra), dobbiamo riconoscere una responsabilità oggettiva all’attuale classe dirigente, tanto israeliana quanto palestinese.
Peres era fatto di un’altra stoffa: consapevole della necessità della pace, non ha mai rinunciato al dialogo con le organizzazioni palestinesi, anche durante la presidenza della repubblica. Se prima era contrario ad ogni compromesso, dalla fine degli anni ’70 ha cambiato opinione e si è impegnato con determinazione per ottenere risultati. C’è chi lo ha paragonato a Don Chisciotte o a Sisifo, l’eroe mitologico che trasportava un masso in cima ad una montagna, per vederlo inesorabilmente rotolare giù. Come Sisifo, Peres non si è mai arreso, e anche a 70 o 80 anni ha tenacemente difeso la propria idea di compromesso. Si badi bene: Peres era un realista, non un pacifista. Era un pragmatico, che ha capito che la pace era una necessità per israeliani e palestinesi.
La sua assenza dallo scenario politico israeliano segna iconicamente la fine di quella tradizione laburista che ha espresso le figure di Ben Gurion, Golda Meir e Rabin. Non è un caso che la sinistra israeliana stia attraversando in questi anni una gravissima crisi. Secondo alcuni, le manca quella volontà di cambiamento che accomunava i vecchi sionisti, nati tra i pogrom e le persecuzioni.
«Ottimisti e pessimisti muoiono alla stessa maniera. Semplicemente, vivono in modo diverso.
Io preferisco vivere da ottimista». (Shimon Peres)
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Novembre 2020
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