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22/5/2017

Tashunka Uitko ovvero Cavallo Pazzo e lo sterminio di un popolo

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di Gionata Grassi

Nel corso della storia si sono sempre susseguite icone di grandi uomini e donne, affreschi di vite che si sono contraddistinte per un innato senso di ribellione, di resistenza all’oppressore e che sono diventate con gli anni successivi dei modelli da cui attingere i paradigmi necessari e i valori per affrontare le epoche successive. È questo il caso di Tashunka Uitko , Cavallo Pazzo, o Crazy Horse così come lo chiamavano i bianchi, capo guerriero degli Oglala, una delle sette tribù indiane dei Lakota Sioux. Il suo nome è diventato un famosissimo night club di Parigi, una marca di birra particolarmente alcolica, ed è servito ad etichettare tutto quello che nel mondo bianco sembrava essere bizzarro, stravagante, eccessivo. Un nome dai connotati sinistri, inquietanti. Uno nome che è una minaccia.
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La sua breve seppur intensa storia si intreccia con un destino beffardo e fatale che lo portò a morire giovane il 5 settembre 1877 ucciso a baionettate da un soldato già inerme e prigioniero. La sua morte è pregnante di significati e in particolare riassume in maniera simbolica la vigliaccheria e l’infamia perpetuata dai pionieri americani e dal governo federale degli Stati Uniti d’America ai danni di un popolo millenario e affascinate che abitava quelle pianure da ben più tempo dei conquistatori europei attraverso la sottrazione forzata dei loro territori fino alla distruzione sistematica dello stile di vita del popolo Lakota.
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Fu un incredibile epoca di violenza, rapacità, audacia, sentimentalismo, sfrenata esuberanza, caratterizzata da un atteggiamento quasi reverenziale verso l’ideale di libertà personale di coloro che già la possedevano. Dipinti come primitivi urlanti e assetati di sangue dei pionieri, poi, dopo gli anni Settanta, come vittime innocenti e mansuete della crudeltà imperialistica dei bianchi, gli indiani sono intrappolati negli opposti stereotipi costruiti dalla cultura dei vincitori. Schiavo di questa dicotomia era lo stesso Cavallo pazzo considerato da una parte il nemico pubblico numero uno dai bianchi e un implacabile sanguinario, dall’altra una figura quasi sovrannaturale tra la sua gente, un guerriero mistico, un leader spirituale che i Sioux , venerano oggi come un messia segreto come uno spirito che ancora vive e vola sulla Prateria del Nord e sulla desolata miseria degli indiani di oggi. Quando fu decisa la “soluzione finale” William Sherman, comandante delle truppe del West, la teorizzò con lucido cinismo: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche a costo di sterminare donne e bambini”.
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Alle parole seguirono i fatti: l’episodio più atroce (1864), che ha ispirato anche una canzone di Fabrizio De André, non toccò i Sioux ma i loro vicini Cheyennes: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono, scalparono e mutilarono 150-200 persone inermi, senza riguardo per il sesso o per l’età.
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Fu qui che entrò in scena Cavallo Pazzo, prima a fianco di Nuvola Rossa, poi di Toro Seduto, infine da solo. La guerriglia andò avanti per due anni, poi i bianchi vennero a patti: i fortini sarebbero stati sgomberati e bruciati. La guerra sembrava chiusa con la vittoria degli indiani, invece si era solo spostata su un terreno più subdolo: se non si riusciva a sterminare i Lakota, si poteva però privarli dei bisonti, loro unica risorsa. Così la caccia, che i bianchi praticavano già dal 1850, diventò una strage sistematica e incoraggiata. Campione dell'impresa fu William Cody, detto Buffalo Bill, che tra il 1868 e il 1872 uccise da solo 4mila capi. La guerra aperta riprese quando si scoprì l'oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il colonnello George Custer, un avventuriero in divisa, cercò di occupare la regione. Ma Custer era odiatissimo dagli indiani, che lo chiamavano "Figlio della stella del mattino" per la sua abitudine di attaccare i villaggi all'alba, quando tutti dormivano. Perciò la sua entrata in scena fece da collante: ai Sioux, guidati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, si affiancarono i Cheyennes, memori del Sand Creek. Si arrivò così a Little Big Horn, dove l'odiato ufficiale fu ucciso con quasi tutti i suoi soldati. Era il 25 giugno 1876: per Crazy Horse fu il trionfo. Ma durò poco, Cavallo Pazzo e gli indiani, stremati dal freddo e dalla fame si rassegnarono a perdere quelle colline sacre, e combatterono la loro ultima battaglia nel gennaio 1877, poi a maggio il loro leader si consegnò in un campo profughi: di fatto era la resa e da li a poco sarebbe sovvenuta anche la morte. Nella nostra foga di demonizzare prima gli indiani e poi di beatificarli ci siamo dimenticati probabilmente di una verità tanto ovvia e fondamentale. Gli indiani non erano altro che un popolo con i propri usi e costumi, né santi né demoni ma prima di tutto un popolo composto da uomini inclini a tutto ciò che riguarda l’animo umano e le sue manifestazioni cui il ciclo implacabile della storia non ha concesso la corona dei vinti.


Immagini tratte da:


Immagine 1:
https://www.google.it/search?q=cavallo+pazzo&source=lnms&tbm=isch&sa=X&ved=0ahUKEwiGjezCvYHUAhVJaxQKHYQGApEQ_AUIBigB&biw=1366&bih=659#q=cavallo+pazzo&tbm=isch&tbs=isz:l&imgrc=DsHPhlPQKpi5DM

Immagine 2:
http://www.qualitygroup.it/images/varie/in-evidenza/america-world/BuffaloRoundup_1.jpg


Immagine 3:
http://mediad.publicbroadcasting.net/p/hppr/files/201410/sand_creek_battleground_marker.jpg


Immagine 4: Monumento a "Cavallo Pazzo" http://4.bp.blogspot.com/-2OrxCPtbeok/VdC-9EVgH4I/AAAAAAAAWO8/TKicg_-hk_8/s1600/crazy-horse-4.jpg

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