1/5/2017 Una storia sbagliata – la Liberazione dalle parole nello squallore umano di Sant’AnnaRead NowA metà della salita l’auto sembra cedere. Superato il terzo, il quarto tornante della collina su cui sorge il fantasma di Sant’Anna di Stazzema, le piccole frane vicino la carreggiata iniziano a mettere ansia: un senso di sordo pericolo ti sfiora la mente, in un andirivieni di sensazioni ambigue, diviso come sei tra i generosi fianchi rocciosi della montagna e le vedute sterminate che affondano nel mare blu della Versilia. L’auto però non cede e coraggiosa si inerpica su per una strada infame, un contagocce d’asfalto delimitato dal guardrail arrugginito piuttosto che dagli strapiombi verdeggianti cipressi e olivi. Posso solo immaginare, a costo di sforzarmi non poco, quanto fosse drammatico percorrere negli anni ’40 questo squarcio obliquo, ricavato dall’uomo tra le pietre selvagge. La tenacia di obbedienti quadrupedi condusse attraverso questa lingua di fatica decine e decine di famiglie. L’orrore della guerra metteva più paura della montagna e l’inaccessibilità geomorfologica di Sant’Anna doveva rappresentare una salvezza più che una minaccia. Il mare rappresenta la libertà, la montagna la serenità. Dev’essere per questo che percorrendo la litoranea, sia essa in Salento o nel Sud della California, alziamo il volume dello stereo con i pezzi che ci ricordano un’adolescenza mai del tutto sopita, un amore lontano, con la voglia di canticchiare che contagia tutti, insieme ai finestrini tirati giù e il braccio penzoloni che stringe una sigaretta e tocca i ramoscelli di rosmarino selvatico che spuntano dalle dune fin sul ciglio della strada. Dev’essere per questo che lo stereo si spegne da sé mentre percorri certe salite. Quasi per devozione il segnale telefonico che ti collega perennemente al tuo circo preferito salta, tranciando la canzone di Guccini che avevi in sottofondo. Parli con i tuoi compagni di viaggio ma lo fai a bassa voce. Spontaneamente, ma te ne accorgi solo dopo. Arrivi nel paesino di Sant’Anna e sei accolto dalla pietra. È tutto roccia, pietra, granito, marmo. Una sensazione di pura durezza, acuita da nuvole così basse e grigie che sembrano pronte ad accarezzarti il capo e piovere nel cappuccio del tuo giubbino. Non è comodo qui. Non doveva esserlo nemmeno il pomeriggio dell’11 agosto 1944. Da alcuni mesi migliaia di persone avevano trovato riparo sulle montagne dell’appennino tosco-emiliano per sfuggire ai combattimenti sanguinosi che si consumavano sulla linea Gotica, pochi chilometri più a sud. I padri avevano portato mogli e figli a ripararsi nei paesini di montagna, convinti che l’alba stesse per arrivare, che i partigiani stessero per liberare queste terre d’acqua e allegria dal dominio delirante di uomini bui, che giocavano a far la guerra dai loro quartier generali abbracciati da mura di cemento spesse due metri, senza suoni, senza amputazioni, senza emozioni. Quegli uomini avevano ragione: l’alba arrivò per davvero. E l’alba del 12 agosto 1944 non la scorderanno più. Non bisogna faticare per immaginare come andò quella mattina. Saranno i videogame, i telegiornali, i telefilm americani, ma sappiamo come raffigurarci la violenza più spietata. Sappiamo come riprodurre nella testa il suono di un mitra, pur non avendolo mai visto sparare. Sappiamo quanto sia semplice eseguire un ordine, dal momento che la disobbedienza non è contemplata nei codici militare, meno che mai nel bel mezzo di un conflitto. Sappiamo immaginare come dev’essere un fienile in fiamme con le bestie che gridano impaurite. Non c’è niente di speciale in tutto questo. È quasi scontato, non ci sarebbe molto da raccontare. Ciò che rende Sant’Anna di Stazzema una violenza psicologica è l’immagine della minuscola piazza centrale del paese, a cui non si può chiedere più che una chiesa e quattro case. Ciò che non si riesce a immaginare è l’odore che ha sentito il primo soccorritore, appena giunto in questa gioielleria di pietre non preziose quel 12 agosto. Pensare all’odore del sangue di Anna Pardini, che aveva due mesi quando morì vittima di una aritmetica malvagità, è come pensare alle dimensioni dell’universo: posso sforzarmi, ma a un certo punto la testa si ferma da sola perché smette di avere senso ciò a cui sto pensando, perché sono un essere limitato e ne sono consapevole. Un particolare di Guernica, riprodotto su una targa posta sul Museo della Resistenza, raffigura una donna che urla. Probabilmente non è l’urlo delle vittime. E’ l’urlo di chi ha visto le vittime, e non resiste a pensare di condividere lo stesso suolo, la stessa aria, la stessa specie animale delle bestie che hanno sterminato centinaia di donne una mattina d’agosto che doveva essere meravigliosa, nell’esplosione dei fiori violetto che agghindano i bordi dei sentieri e i concerti dei volatili che abitano i rami degli alberi. Una scultura bronzea disperata accoglie noi, pellegrini della memoria, al centro della piccola piazza, insieme ai pannelli di marmo con le frasi di poeti e intellettuali che hanno tentato di dare parole a un orrore innominabile. Sarà che già solo il rumore delle foglie secche che si rompono sotto i miei passi mi pare un frastuono, una musica inopportuna, ma le parole di quelle incisioni mi appaiono ridondanti. Utili per capire, per capire l’incomprensibile, eppure ne voglio fare davvero a meno. Quella statua invece no. Un corpo rachitico, schiena a terra, con le ginocchia sollevate a indicare la vulnerabilità del presente. Un corpo ferito. Scolpito con cruda destrezza dai piedi alla bocca. Al corpo mancano le braccia e il volto, e questo spiega meglio di mille parole come sia stato difficile, per chi è venuto dopo, guardare dentro l’abisso e toccare la crudeltà scientifica. La chiesetta che domina la piazza, il suo piccolo campanile coi larghi mattoni a vista, mi ricorda che è esistito un Dio qui, o almeno qualcuno che c’ha creduto. Fatico. Fatico a credere che si possa credere nel perdono mentre calpesto la terra della piazza che si imbevve del sangue più inutile che potesse versarsi. In pace come in guerra. Non cercherò Dio. Salgo. Salgo su un percorso che definirebbe agevole solo uno stambecco. Un nastro trasportatore di ciottoli e massi che si ficcano sotto le suole e fanno male davvero, come se la pendenza del sentiero non bastasse di per sé a ustionare i muscoli. Questa salita è dolorosa. Non deve essere un caso il nome, via Crucis. Quasi uno scherzo di cattivo gusto chiamare così la strada che porta all’Ossario delle vittime, nel punto più alto del paese. Andando avanti nel faticoso incedere dei passi il fiato è sempre più risicato, un debito d’ossigeno che stringe le corde vocali e induce a un silenzio forzato. Come se le parole fossero, ancora una volta, superflue, come se la croce di una storia infame la dovessi portare tu, casuale ospite della Storia. Un albero sradicato da chissà quale burrasca dorme sdraiato a lato del piccolo sentiero di sassi e acido lattico. Palesa così il suo lato più nascosto, occulto rifugio di vermi durante le piogge autunnali e ora cuore aperto durante l’operazione chirurgica del meteo, che l’anestesia del tempo sembra aver addormentato. Mi suggerisce di avere uno sguardo diverso, perché ciò che siamo abituati a vedere rigido e fiero accuccia sotto di sé un cuore di terra che pulsa di vita, a cui le radici sono violentemente aggrappate per morire un po’ meno, un po’ dopo, un po’ più lontano. Giunto in cima riprendo fiato. È la prima reazione naturale, ispirata dalla fatica e dal paesaggio maestoso che mi si para davanti. Ma dura poco, ché gli occhi vengono rapiti dal prisma di pietra che spicca alla mia sinistra. Quella che avevo scambiato da lontano per una torretta d’avvistamento, risalente alle guerre d’inizio Novecento, è in realtà il monumento più denso di significato. Un significato che in verità non c’è affatto. Alla base del monumento si trova una scultura agghiacciante. Una tomba di marmo bianchissimo con pezzi di corpi adagiati sopra, tra i quali spicca una donna che tiene in braccio un bambino. Ma gli occhi della donna sono impressionanti, quasi disturbanti, quasi penso che lo scultore e le autorità abbiano esagerato a donare uno sguardo così insopportabile ai pellegrini che si arrampicano su questo lembo di Appennino, schiantato di fronte al Tirreno. E la pesantezza psicologica di questo dolore marmoreo trova una pesantezza visiva, se possibile, ancora più atroce sullo sfondo: un’immensa lapide di granito con sopra incisi i nomi di oltre quattrocento delle cinquecentosessanta vittime della strage. È talmente grande, talmente densa di lettere, che mi avvicino e la tocco con le mani perché gli occhi possono essere ingannati, le mani no. È spessa quasi mezzo metro, alta oltre due, larga più di tre. Grigio scuro, come il cielo di questo 25 aprile. Mi colpiscono le vittime: sono tutte donne, o quasi, e moltissimi bambini. Ed è forse questa la prova più schiacciante della meschina bestialità della strage. Nessun pericoloso nemico, nessun centro logistico partigiano, nessuna santabarbara, nessun rifornimento. Donne che accudivano la prole, usualmente numerosa, in attesa che tornassero i mariti e che finisse quella cazzo di guerra diventata ormai priva di senso. E non ci sono molte altre parole di fronte a una carneficina così. Non dirò che sia stata una tragedia disumana, no, questo no. Sarebbe una giustificazione inaccettabile. È stata una strage pensata, voluta, studiata. Umanissima. Umani che hanno trucidato umani. I monumenti, le commemorazioni, le targhe, i musei, le lapidi. Questo sì che è disumano, freddo, artifici della memoria per sviscerare un dolore intraducibile, odio antico di un'umanità sempre alla ricerca di un nemico. Riscendo nella piazza, e torno con la mente a quel tizio, il primo soccorritore salito quassù dopo l’eccidio. E mi sento più vicino a lui che alle vittime, lo ammetto. Da qui, dalla prospettiva delle pupille di un giovane e anonimo abitante del terzo millennio, la sensazione non è mutata. Siamo cresciuti nell’illusione che ad aspettarci in cima alla salita ci fosse un mondo florido e virtuoso, salvo trasalire e ingoiare veleno per la delusione di trovare un paesaggio atroce, bruciato dalle guerre, violentato dal guadagno, affogato nella paura della diversità. Un rumore straziante di occasioni crollate e vite sprecate nell’inganno della forza che travalica la ragione. Verrebbe da mollare tutto, da sfogarsi in un pianto liberatorio e scappare da soli in un rifugio di apatia. Ma la storia non dice che quel soccorritore, il primo, fuggì via in preda alla disperazione. La storia racconta che il primo soccorritore chiamò il secondo. Poi il terzo. Poi il quarto. Poi il quinto. E poi le mani si sporcarono del sangue dei bambini e poi della polvere delle case e poi del letame delle bestie e poi della terra del selciato e poi della paglia dei fienili e poi e poi e poi. E poi ci sono uomini che hanno chiesto poco e dato tanto. Che non si sono fatti uccidere dal dolore del dolore. Che sono stati qualcuno che nessuno ricorda, a cui tutti dobbiamo rendere conto di aver avuto il coraggio di non morire lì dove io lo avrei fatto, ma anche tu. E non esiste insegnamento più grande dell’amore verso la vita quando la vita non c’è. Ché io, nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore; ma nella pietà che non ha ceduto al rancore, forse, una volta davvero, ho imparato l’Amore.
1 Commento
Shiver
12/8/2019 14:44:21
Meraviglioso articolo
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