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26/6/2016

Gli amanti regolari: il sussurro del disincanto

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di Maria Luisa Terrizzi


Titolo internazionale: Regular Lovers
Titolo originale:
Les amants réguliers
Paese: Francia

Anno: 2005

Genere: drammatico

Regia: Philippe Garrel

Durata: 178'

Sceneggiatura: Philippe Garrel, Marc Cholodenko, Arlette Langmann

Cast: Louis Garrel, Clothilde Hesme, Julien Lucas, Eric Rulliat, Nicolas Bridet, Mathieu Genet, Raïssa Mariotti, Maurice Garrel

Fotografia: William Lubtchansky

Montaggio: Françoise Collin

Scenografia: Nicolas Meletoploulos, Mathieu Menut

Costumi: Justine Pearce, Cécile Berges

Musica: Jean-Claude Vannier

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Guerriglia urbana, molotov, macchine rovesciate, fiamme, sangue, spari, gente che corre. E’ primavera a Parigi, precisamente maggio ‘68 e un ragazzo è in fuga. Il suo nome è François Dervieux (Louis Garrel), è un poeta ventenne che ha disertato la leva obbligatoria ed è ricercato dalle autorità. Pochi mesi dopo la celebrazione del processo (siamo già nel ’69), si imbatte in un gruppo di giovani che tra hashish, feste, sesso e piccoli furti, vivono gli strascichi del sogno rivoluzionario studentesco. E’ durante una festa che François incontra una giovane scultrice, Lilie (Clotilde Hesme), già intravista nei giorni convulsi della rivolta. Tra sguardi timidi e impacciati, sorrisi e parole sussurrate i due ventenni si innamorano. L’idylle si conclude quando Lilie decide di andare a cercare fortuna negli USA al seguito di un pittore. La fine dell’amore coinciderà con la fine della vita di François che si suiciderà.
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Les amants réguliers (2005) di Philippe Garrel è un film di circa tre ore, che ha ricevuto numerose onorificenze: il Leone d’Argento alla Mostra Internazionale d’Arte di Venezia e il Premio Lumière 2006 al regista, il Premio Osella per il migliore contributo tecnico alla fotografia di W. Lubtchansky, il Premio Louis-Delluc 2005, il Premio César e l’ Étoile d’Or 2006 al migliore attore emergente L. Garrel, figlio del già citato regista.
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Il cinema di Garrel è un cinema per puristi, snob, da rive gaughe. E’ in bianco e nero e usa delle tecniche compositive stilisticamente impeccabili come i lunghi piani sequenza e una fotografia che illumina il volto del bel tenebroso François e dell’altrettanto bella e malinconica Lilie. Garrel gira il film due anni dopo l’uscita di The Dreamers (2003) di Bertolucci, con cui Gli amanti regolari condivide in parte le tematiche (che idealmente prosegue) e lo stesso attore protagonista, Louis Garrel (affiancato nel 2003 da Eva Green e da Michael Pitt).
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una scena tratta da The Dreamers di Bertolucci
P. Garrel, discepolo di Godard e Truffaut, ricostruisce con sapienza uno scorcio post ’68, rievocando temi e stilemi della Nouvelle Vague: dalla ricerca del reale, ai bassi costi (il film è costato solo un milione e mezzo di euro), alla luminosità alla ricerca di maggiore realismo tramite l’uso mirato della macchina da presa.
Dal punto di vita contenutistico, ad eccezione della prima parte, più dinamica, con la rappresentazione dei tumulti in città, la trama soffre di monotonia. Ci troviamo quasi sempre all’interno della casa di un giovane facoltoso che offre ospitalità e droghe leggere, di fronte ad una esclusione volontaria dalla società dopo il fallimento dei moti del ’68. L’attenta camera da presa indugia sullo stordimento dei volti dei giovani, sulla stagnazione e sull’abbandono, su di un’atmosfera che di rivoluzionario conserva solo il nome, rievocato in discorsi evanescenti e poco lucidi. I sognatori di Bertolucci diventano i disillusi di Garrel: la realtà è immutabile, è concesso solo di evitarla rinchiudendosi in un alternativo microcosmo per artisti annoiati e spiantati, febbrilmente attaccati alle pipe di hashish.
E’ un cinema poco parlato, sussurrato e anche nei momenti di guerriglia urbana domina il silenzio, è come se i rumori provenissero da lontano, confusi. Capiamo più dai gesti e dagli sguardi che dai dialoghi che, a mano a mano che il film procede, si fanno sempre più brevi ed enigmatici. Ciò contribuisce alla sensazione che i personaggi ci siano in qualche modo distanti, estranei, che non riusciamo a capirli perché loro stessi non riescono ad esprimersi: è come se volessero dirsi/dirci qualcosa in più ma tacciono. C’è una sorta di patina di incomunicabilità che blocca le emozioni sul viso e non permette siano tradotte in parole. Così avviene quando Lilie comunica a François che vorrebbe andare a letto con un altro uomo e lui acconsente al desiderio, con poche parole, pure se il suo viso mostra tutt’altro o, anche quando, gli dirà che sta per partire per New York e François non potrà fare a meno di reagire stizzito, ma sarà una reazione contenuta, quasi anestetizzata, che non lascia presagire il tragico finale.

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Le emozioni di una generazione sconfitta sono sussurrate, inghiottite, inespresse. Nella testa e nel cuore corrono mondi che rimangono non detti, soprattutto in François che di certo non è un Baudelaire o un Rimbaud, ma che porta con sé una sensibilità maledetta che gli ha permesso di fare dell’amor fou per Lilie la linfa dei suoi giorni annoiati. Le aspirazioni della più concreta Lilie, che la portano a rinnegare persino di essere comunista nelle dichiarazioni all’ambasciata per poter entrare negli USA, sparigliano le carte e i due si trovano presto lontani.

Che cos’è allora la regolarità a cui si allude nel titolo? Il perdurare di un’esistenza postrivoluzionaria alternativa ma rassicurante, cornice dell’incontro e dell’ amore dei due amanti, o l’ingresso prepotente della vita che, più irriverente dell’ “irregolarità su misura” che avevano cercato di imporle, scombina le fragili certezze con schemi imprevisti?

Immagini tratte da:


- mymovies.it
-
artinmovies.blogpot.it
-
film.thedigitalfix.com
- glispietati.it
- dvdtalk.com

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