Una Parigi immobile, quasi incantata. Boulevards grandi e vuoti, l’aperta e lussureggiante campagna, un giardino, un tavolo, due sedie e Perfect Day di Lou Reed. Un uomo e una donna conversano in una assolata giornata d’estate, in cui possiamo ascoltare il fruscio delle foglie mosse delicatamente da un vento leggero. È la luce scintillante dell’estate che divide i due da colui che è l’autore delle loro discussioni: nel grigiore della casa le cui finestre si aprono sul giardino, uno scrittore, di fronte ad una macchina da scrivere, cerca di condensare idee, immagini e parole attorno ai suoi personaggi.
Les beaux jours d’Aranjuez di Wim Wenders, in concorso per il Leone d’oro al Festival di Venezia 2016, è ispirato alla pièce teatrale del 2012 Die schönen Tage von Aranjuez di P.Handke. Distribuito al momento in lingua francese, sono stati previsti i sottotitoli in italiano. La pellicola è in 3D.
Un uomo e una donna, al di là del tempo e della storia, in un giardino. Sono fermi, come il paesaggio che li accoglie e si rivolgono domande l’un l’altro. Anzi, inizialmente è l’uomo che chiede alla donna. Dallo scambio emergono visioni poetiche, rarefatte e mistico-sentimentali delle tappe più importanti della vita della donna. Il primo amore, il sesso, il rapporto con gli uomini, quello con le donne, il concetto di amore, la serietà del divertimento: tutti temi toccati, sebbene non attraverso la nitidezza di un pensiero razionale, ma quasi attraverso un flusso di coscienza, un “effluvio” sognante di ricordi ed immagini, in cui spesso si contraddice, rielaborando o ritrattando quanto afferma. Allegoricamente si tratta del racconto dei giorni d’estate della vita: ricordare è in un certo senso immedesimarsi nuovamente in sensazioni fugaci e lontane nel tempo, razionalmente poco comprensibili e quindi anche poco cristallizzabili in significati univoci. In questo senso appare consequenziale l’impossibilità di una completa chiarificazione dei contenuti, alla donna stessa come agli spettatori in sala, con il risultato che si rimanga alquanto disorientati di fronte alla vaghezza metaforica del registro e all’inquieto turbamento che vibra attraverso l’animo della donna.
Il cambio di canzone al jukebox da parte dello scrittore, provato e cupamente ispirato dalle sue visioni, segna la scelta di un nuovo tema nel dialogo e contribuisce, seppure in minima parte, ad alleggerire l’atmosfera che inevitabilmente via via si appesantisce. Il giardino diventa una sorta di estroflessione dell’animo dello scrittore, di cui l’accecante luce costituisce solo un espediente letterario che si aggancia con il ricordo dei giorni d’estate trascorsi dalla donna, ormai matura.
È interessante notare come, verso la conclusione della pellicola, dal piano che attiene il rapporto del proprio io con l’Altro, si passi alla ricerca del proprio sé: <<dove si nasconde ciò che è amabile in me? Dov’è il mio moi?>>, tematica questa - assieme all’inquietudine, al viaggio come ricerca di sé e alla scoperta della diversità- cara al regista di La lettera scarlatta (1973), Paris-Texas (1984), Il cielo sopra Berlino (1987), solo per citare alcuni dei capolavori di Wenders.
L’incapacità di aderire alla crudezza della realtà e il coltivare una multiforme e variegata sensibilità interiore sono i tratti che lo scrittore proietta sui suoi personaggi, di cui i quesiti rimangono peraltro irrisolti. Il ritmo, molto lento (ad eccezione di qualche scossone della camera da presa, generalmente ferma, sul finale), non facilita la stabilità attentiva dello spettatore. La cura e la ricercatezza degli ambienti, come le inquadrature sul verde della campagna, rendono la pellicola esteticamente impeccabile. Un film filosofeggiante, intellettualistico che non esaurisce probabilmente la pienezza dei significati ad una prima visione.
Immagini tratte da:
-Cineblog.it -Cultframe.it -Urbanpost.it -lesbeauxjoursdaranjuez-lefilm.com
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Marzo 2023
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