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28/1/2018

Fabrizio De Andrè – Principe Libero

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di ​Fabrizio Matarese
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​GENERE: Biografico
ANNO: 2018
REGIA: Luca Facchini
CAST: Luca Marinelli, Valentina Bellè, Elena Radonicich, Davide Iacopini, Gianluca Gobbi, Ennio Fantastichini
SCENEGGIATURA: Francesca Serafini, Giordano Meacci
FOTOGRAFIA: Gogò Bianchi
MONTAGGIO: Clelio Benevento, Valentina Girodo
PRODUZIONE: Rai Fiction, Bibi Film
DISTRIBUZIONE: Nexo Digital
DURATA: 200’
PAESE: Italia

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​Il 23 e il 24 gennaio è stato distribuito in un evento cinematografico unico il film prodotto da Rai Cinema e Bibi film, Fabrizio De André - Principe Libero, che approderà sulla RAI in due puntate il 13 e 14 febbraio.
Diretto da Luca Facchini, quest’opera che sta a metà tra il piccolo e il grande schermo è un tentativo di raccontare l’uomo De Andrè al di là dell’artista, infondendo il racconto con la poetica delle sue canzoni. A prestare il volto a Faber è Luca Marinelli, uno dei giovani attori più talentuosi della nuova generazione, che affronta la sfida senza volerlo imitare (“l’ho rappresentato, non interpretato”, ha affermato l’attore in un’intervista), ma fornendo anzi una prova da grande attore. La somiglianza anche mimetica è a tratti spiazzante e pazienza se non è stata rispettata la cadenza ligure, anzi c’è da rimanere stupiti di fronte alle performances canore dell’attore romano (chi non ricorda la fantastica scena del canto in Lo chiamavano Jeeg Robot?)  che esegue con naturalezza le canzoni dell’artista genovese.
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​Il film scorre piacevolmente, nonostante le tre ore e un quarto di durata, narrandoci una parte della vita di De Andrè: le sue prime esperienze giovanili, il conflitto col padre, odiato e poi profondamente amato, le scorribande nei vicoli chiaroscurali di una città misteriosa, le serate passate da un bordello a un bar, in compagnia degli amici Paolo Villaggio (impressionante l’interpretazione di Gianluca Gobbi, per verve comica e somiglianza fisiognomica al comico che ha creato Fantozzi) e Luigi Tenco, tutti figli di una Genova febbrile e feconda. 
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​Le prime esibizioni in teatro, le amicizie, gli amori e i drammi, la solitudine e la gioia della condivisione, la paternità e la musica: tutte le vicende mostrate sono pervase dalla stessa vena poetica che fa splendere ancora le canzoni di De Andrè.
Un capitolo importante della vita dell’artista, e quindi nell’economia del film, è rappresentato dai due grandi amori della sua vita: la prima moglie Puny e poi l’innamoramento e le nuove nozze con la cantante Dori Ghezzi (che dalla morte del marito gestisce il suo patrimonio artistico e che ha supervisionato questo progetto filmico).
​Oltre agli amori, pieni di passione e di malinconia, vengono svelati al pubblico lati inediti del mito: da un lato la passione per le donne, la goliardia leggiadra e ironica, dall’altro le sue debolezze e ossessioni, come il consumo smisurato di tabacco e alcol, la soggezione filiale nei confronti di un padre autorevole, la sua perenne inquietudine, un rapporto complicato col figlio Cristiano e il timore del palco.
Il titolo, Principe Libero, è tratto da uno dei suoi ultimi album Le Nuvole (1990), ed è a sua volta una citazione del pirata settecentesco Samuel Bellamy, quasi ad esprimere sinteticamente i suoi ideali anarchici, che nella sua opera, sono sorprendentemente in accordo con gli insegnamenti di Gesù Cristo.
La complessità di un Autore, forse il più grande della moderna canzone italiana, è riflettuta sul piano filmico da un montaggio di episodi chiave che mostrano i tratti salienti di una vita giocata sempre sulla libertà e sull’amore, due elementi irrinunciabili nella visione di De Andrè.
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​Così, grande rilevanza ha acquisito la tragica vicenda del sequestro dell’artista e della compagna Dori Ghezzi, avvenuta nel 1979 in Sardegna. I due furono tenuti prigionieri per quattro mesi e liberati in seguito al pagamento del riscatto. Questo episodio, che quasi apre e chiude gli eventi narrati sullo schermo, dimostra la sorprendente umanità di De Andrè che nelle privazioni e negli stenti della prigionia riesce a immedesimarsi nei rapitori, che perdonerà subito dopo la liberazione.
Fabrizio De André - Principe Libero è un bel film, godibile e curato, con un cast brillante e bilanciato, una ricostruzione storica (bellissimi i costumi e le scenografie) ben fatta, dei dialoghi interessanti e mai banali che raccontano bene i vari personaggi. Sebbene il rischio di flop era alto, la visione lascia soddisfatti e ognuno può godersi il racconto nella sua autonomia ma anche come occasione di entrare in contatto con un artista e una persona unica nella cultura italiana.
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​IMMAGINI TRATTE DA:
www.rockit.it
www.lascimmiapensa.com
www.mymovies.it
www.filmtv.it

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28/1/2018

Call Me By Your Name

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di Federica Gaspari
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​DATA USCITA: 25 gennaio 2018
GENERE: drammatico, sentimentale
ANNO: 2017
REGIA: Luca Guadagnino
CAST: Timothée Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garrell, Victoire Du Bois
SCENEGGIATURA: James Ivory
FOTOGRAFIA: Sayombhu Mukdeeprom
MONTAGGIO: Walter Fasano
COLONNA SONORA: Sufjan Stevens
PRODUZIONE: Frenesy Film, La Cinéfacture, RT Features, Water’s End Productions
 DISTRIBUZIONE: Warner Bros Italy
PAESE: Italia, Francia, Brasile, Stati Uniti
DURATA: 132’
 

​Quattro candidature nelle categorie principali (miglior film, attore protagonista, sceneggiatura non originale e canzone originale) dei prestigiosi Oscar per un film italiano: non accadeva dal lontano 1998, anno in cui Sophia Loren, al grido di “Robberto!”, consacrava il successo internazionale, non solo con la statuetta per miglior film straniero, de La vita è bella di uno spumeggiante Roberto Benigni. A vent’anni esatti di distanza, l’ambito luccichio degli Academy Awards è tornato a illuminare la penisola, puntando in particolare i riflettori sulla Lombardia, dove, in una calda e assolata estate degli anni Ottanta, hanno luogo le storie di Elio e Oliver, due giovani con caratteri ed esperienze differenti alla scoperta dei propri sentimenti. Call Me By Your Name, a un anno esatto dalla sua presentazione al pubblico al Sundance Film Festival, arriva finalmente nei cinema italiani e conclude, dopo Io sono l’Amore e A Bigger Splash, la trilogia del desiderio curata dal regista italiano Luca Guadagnino.
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Una semplice storia d’amore per famiglie. Con queste parole il cineasta palermitano ha voluto definire la sua ultima creatura per il grande schermo che, tra partire a pallavolo con gli amici ed esercizi al pianoforte, immortala la crescita emozionale di Elio Perlman (Timothée Chalamet), figlio sensibile e intelligente di un professore universitario che, ogni anno, ospita nella sua dimora lombarda un suo studente per sviluppare una tesi di dottorato. L’arrivo di Oliver (Armie Hammer), spigliato nei modi e diretto nei rapporti personali, suscita in Elio emozioni contrastanti: sospetto e gelosia prima, quando lo vede rapportarsi con le ragazze della sua compagnia, curiosità e affetto dopo con la scoperta di sentimenti ben più profondi e insoliti.

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​L’adattamento dell’omonimo romanzo di André Aciman ha alle spalle una lunga e travagliata produzione iniziata già nel 2007. Tra rifiuti alla regia, complesse ricerche degli interpreti protagonisti e controversie di vario tipo su contenuto e distribuzione, il film è riuscito timidamente ad affacciarsi al grande pubblico nel gennaio del 2017 negli Stati Uniti. Nessuno, inizialmente, sembrava scommettere su questo titolo, spesso etichettato come semplice pellicola LGBT, soprattutto in Italia. Le prime calde accoglienze di pubblico e critica, però, hanno inaugurato un percorso ricco di premi e riconoscimenti internazionali che lo scorso 23 gennaio si è concretizzato con le sopracitate candidature. È il definitivo riconoscimento per un autore come Guadagnino, spesso discusso e bistrattato dalla critica tricolore, che con questa sua ultima fatica ha saputo sfruttare al meglio i punti di forza del suo cinema pur non rinunciando a qualche vezzo comunque trascurabile.
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​Ambienti ricercati, immagini illuminate da sfumature estive e brani firmati da Sufjan Stevens: sin dai primi minuti di visione è evidente la ricerca di una messa in scena elegante e sofisticata, supportata dagli incantevoli scorci rurali della campagna cremonese. I protagonisti, a bordo di biciclette, trascorrono le loro giornate in luoghi ancora scevri del caos e delle imposizioni morali e non della città. In questo clima estremamente curato si sviluppa la storia d’amore, sempre in bilico tra passione e tenerezza, tra Elio e Oliver. Timothée Chalamet, a soli ventidue anni, vanta già un curriculum di dieci film con collaborazioni con Christopher Nolan e Greta Gerwig ma è solo con questo film che riesce a dimostrare buona parte del suo potenziale: con silenzi e sguardi sognanti riesce con naturale delicatezza a mettere in scena i tormenti e le gioie delle scoperte dei primi sentimenti. Il film, però, non sarebbe stato lo stesso senza la presenza di Armie Hammer, capace di gestire al meglio spensieratezza e serietà, e i misurati interventi di Michael Stuhlbarg che, nei panni del padre di Elio, sul finale regala riflessioni e letture significative.
Luca Guadagnino, insieme a un ottimo cast e con l’aiuto di una buona sceneggiatura, dimostra che è possibile raccontare con naturalezza ogni tipo di storia, senza etichette né confini, regalando al grande pubblico un cinema ricercato ma capace di catturare su schermo le emozioni.

Foto tratte da:
Immagine 1: www.popcornsg.com
Immagine 2: www.vox.com
Immagine 3: www.jaccendo.com
​Immagine 4: www.indiewire.com

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21/1/2018

VICTORIA: la recensione

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di Vanessa Varini
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PAESE: Regno Unito
ANNO: 2016 – in produzione
GENERE: biografico, storico
STAGIONI: 2
EPISODI: 16 + 1 (speciale Natale)
DURATA: 46-69 min (episodio)
IDEATORE: Daisy Goodwin
SCENEGGIATURA: Daisy Goodwin, Guy Andrews
CAST: Jenna Coleman (Regina Vittoria); Tom Hughes (Principe Alberto); Peter Bowles (Duca di Wellington); Catherine Flemming (Duchessa del Kent); Daniela Holtz (Baronessa Lehzen); Nell Hudson (Miss Skerrett); Ferdinand Kingsley (Charles Elmé Francatelli); Tommy Knight (Archibald Brodie); Nigel Lindsay (Sir Robert Peel); Eve Myles (Signora Jenkins); David Oakes (Principe Ernest); Paul Rhys (Sir John Conroy); Adrian Schiller (Penge); Peter Firth (Duca di Cumberland e Teviotdale); Alex Jennings (Re Leopoldo); Rufus Sewell (Lord Melbourne); Diana Rigg (Duchessa di Buccleuch).

​Siamo nel XIX secolo. La principessa Alexandrina, figlia del duca di Kent Edoardo Augusto e nipote del Re, è l'unica erede legittima al trono del Regno Unito alla morte di Guglielmo IV.
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​Al momento della sua ascesa al trono, l’inesperta e giovane Alexandrina, che muta il suo nome in Victoria, si ritrova, quindi, a governare un territorio di enormi dimensioni e a contrastare gli squilibri interni tra il partito Whig e quello Tory. Tuttavia, la sovrana può contare sull'appoggio di Lord Melbourne, la cui amicizia diventa oggetto di pettegolezzo tra i popolani e del cugino di primo grado, il principe consorte Albert. Se amate le serie Tv d'epoca e quelle sulla Famiglia Reale britannica Victoria, basata sui diari personali della Regina e creata e prodotta da Daisy Goodwin che ha firmato anche l'omonimo bestseller pubblicato in Italia da Sonzogno, vi conquisterà. Il merito è della protagonista Victoria interpretata da Jenna Coleman (compagna di "Doctor Who"). Nonostante sia salita al trono giovanissima (a soli 18 anni), Victoria si dimostra una regina determinata, forte e indipendente e, nonostante la corporatura esile e la bassa statura, riesce a farsi rispettare da tutti. Un altro dei punti cruciali della serie è il rapporto tra Victoria e Lord Melbourne (Rufus Sewell). Victoria lo vede come una figura paterna e mostra molto rispetto per lui, lo nomina primo Ministro; grazie a Melbourne impara i segreti della politica e degli affari di stato; inoltre, se ne innamora. 
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​Tuttavia, un matrimonio con Melbourne è inconcepibile, lei è destinata a un nobile, il principe di Sassonia Albert (Tom Hughes), un ragazzo introverso, timido, romantico ma anche ribelle e per nulla incline a sottostare agli ordini di Victoria. Il loro rapporto sarà ricco d'amore e tenerezza ma anche di scontri perché hanno due caratteri forti, ma insieme riusciranno a modernizzare il proprio Paese nonostante l’opposizione dei tradizionalisti. 
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La serie non si concentra solo sulla Regina d'Inghilterra e il suo consorte, mostra e approfondisce anche le storie della servitù che vive a Palazzo (come nella pluripremiata serie "Downton Abbey"). C'é Miss Skerrett, giovane ragazza che lavora per la Regina ma nasconde molti segreti; Rancatelli il pasticcere di corte che s'innamora di lei; Ernest, fratello di Albert, con la fama di donnaiolo che s’innamora, ricambiato, di una nobildonna sposata rischiando lo scandalo. Oltre alle storie appassionanti, questa serie si avvale di una eccezionale colonna sonora (la canzone Alleluia) che fa anche da sottofondo all’incoronazione, stupendi abiti ottocenteschi, location e ricostruzioni storiche accurate. Infine, questa serie fa riflettere sul ruolo della donna all’interno della  società che ancora oggi non viene considerato molto credibile quando le donne ricoprono incarichi di potere; Victoria combatte questi pregiudizi con coraggio e intraprendenza. Lunga vita alle serie Tv sulle famiglie Reali!

​Foto tratte da:
https://i.pinimg.com/
http://www.sorrisi.com/

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21/1/2018

Ella & John – The Leisure Seeker: la recensione

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Il nuovo film di Paolo Virzì, in concorso a Venezia, è un commovente viaggio on the road che esplora un amore anziano ma per niente stanco, una storia struggente con due grandi interpreti: Helen Mirren e Donald Sutherland.
di Salvatore Amoroso
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Titolo originale: The Leisure Seeker            
Paese di produzione: Italia, Francia
Anno: 2017
Durata: 112’
Genere: drammatico, commedia
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Stephen Amidon, Francesca Archibugi, Paolo Virzì, Francesco Piccolo
Distribuzione: 01 Distribution
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Jacopo Quadri
Colonna sonora: Carlo Virzì
Cast: Helen Mirren (Ella Spencer); Donald Sutherland (John Spencer); Christian McKay (Will Spencer); Janel Moloney (Jane Spencer); Kirsty Mitchell (Jennifer Ward); Dick Gregory (Dan Coleman).

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Una coppia di ottantenni, John (Donald Sutherland) ed Ella (Helen Mirren), per sfuggire alle cure mediche che li separerebbero per sempre, decidono di prendere un loro vecchio camper, soprannominato ‘The Leisure Seeker’ con cui andavano in vacanza negli anni ’70, e si mettono in viaggio dal Massachusetts verso Key West. I figli si mettono in allarme e cercano di farli tornare, ma senza successo. Lui soffre di vuoti di memoria. Lei è acciaccata fisicamente ma ancora lucidissima. Per loro è un’occasione quasi unica per poter stare insieme come per l’ultima volta. Quindici anni dopo My Name Is Tanino, nel 2002 presentato fuori Concorso al Lido, Paolo Virzì è tornato in America per girare la sua prima produzione in lingua inglese, Ella & John - The Leisure Seeker, adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo scritto da Michael Zadoorian ed edito in Italia da Marcos y Marcos. Esattamente 20 anni dopo il Leone d'argento - Gran premio della giuria per Ovosodo, il regista toscano è tornato in competizione alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia a bordo di uno scalcinato camper guidato da due giganti del cinema mondiale, l'82enne Donald Sutherland e la 72enne Helen Mirren, anziani innamorati e malati in viaggio per le trumpiane strade d'America.
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​La formula del road-movie, sempre cara al regista italiano, non smette di funzionare e regala allo spettatore un film intimo e sincero. Il mix di commedia e dramma sempre dosato con attenzione non deluderà di certo i fan più affezionati del suo cinema. Bisongna sottolineare però, che questa volta non ci troviamo al cospetto della sua opera più riuscita. Sarà stata colpa dell’aria americana ma stavolta il viaggio di Virzì è meno vibrante ed emozionante di quello di Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti raccontato nella Pazza gioia. Certamente la storia è diversa, perché lì c'era il tumulto di una vita ancora tutta da vivere e qui la dolce malinconia di un’esistenza arrivata al termine, con tutto quello che ciò comporta in termini di bilanci, paure, interrogativi. Sembra quasi che il livornese si sia fatto inibire dagli States. Il suo sguardo intimo e delicato non riesce a vedere lontano da tavole calde e autostrade USA e purtroppo in alcuni punti della pellicola lo spettatore può cogliere una forte retorica dei temi trattati. 
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Forse per umiltà o forse perché voleva “viaggiare sicuro” questo Virzì non appaga la sete di sentimenti del pubblico. In un’epoca arida e priva di valori, opere come questa sono sempre un colpo al cuore. Una grande storia di dignità umana, il non volersi arrendere di fronte a niente, nemmeno di fronte alla caducità della vita. Forti insegnamenti che potevano essere raccontati in maniera più approfondita. Il duo straordinario di attori è una delle liete note del film in assoluto. Il talento e la professionalità del duo Sutherland-Mirren sono una per gli occhi di tutti i cinefili e appassionati della settima arte ma potrebbe non bastare a questo giro. Purtroppo.  

​Foto tratte da:
Locandina: MyMovies
Immagine1: LongTake.it
Immagine2: Variety.com
Immagine3: Linkiesta

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14/1/2018

Black Mirror

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di Federica Gaspari
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PAESE: Regno Unito
ANNO: 2017
GENERE: fantascienza, drammatico, satira, distopico, thriller, antologico
STAGIONE: 4
EPISODI: 6
DURATA: 40-90 min
IDEATORE: Charlie Brooker
REGIA: Toby Haynes, Jodie Foster, John Hillcoat, Tim Van Patten, David Slade, Colm McCarthy
SCENEGGIATURA: Charlie Brooker, William Bridges,
CAST: Jesse Plemons, Cristin Milioti, Rosemarie DeWitt, Brenna Harding, Andrea Riseborough, Georgina Campbell, Joe Cole, Maxina Peake, Douglas Hodge, Letitia Wright
PRODUZIONE: Endemol

Dal 2011 lo schermo nero ha assunto un nuovo significato per i telespettatori di tutto il mondo. Non più un semplice televisore da gestire e controllare a proprio piacimento con un telecomando bensì uno specchio delle sfuggenti trasformazioni della società. È questo il Black Mirror nato da una brillante idea del britannico Charlie Brooker che, volgendo un sinistro sguardo al futuro, ha scritto i peggiori incubi e paranoie dello spettatore moderno, ossessionato da tecnologia e corrotto da dilagante egoismo a tal punto da dimenticare valori, ideali e rapporti. Per tre stagioni sono stati proprio questi ultimi i cardini su cui si sono imperniate le più discusse critiche della serie, che per tredici episodi hanno animato e coinvolto il pubblico di ogni genere. Qualcosa con le nuove puntate, però, è cambiato.
La quarta stagione, distribuita in esclusiva su Netflix il 29 dicembre 2017, è apparsa, sin dai primi trailer e dai minuti iniziali dell’episodio d’apertura, diversa, nel bene e nel male. Se in precedenza l’attenzione si concentrava su piccoli aspetti della quotidianità contaminati da contraddittorie tecnologie all’avanguardia, i sei nuovi episodi spingono l’acceleratore sulla fantascienza esaltandola oppure nascondendola abilmente con l’esplorazione dei più disparati generi.
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Si preme play e si vola in questa nuova costellazione di storie inquietanti a bordo della USS Callister, frutto di un videogioco dai risvolti piuttosto cupi che trasforma la realtà a proprio piacimento. La sguardo cinico di questa serie antologica si sposta poi, con Arkangel diretto da Jodie Foster, sul rapporto genitori e figli, sulle paure dei primi e sulle libertà dei secondi avvolte dalla tipica atmosfera dei drammi familiari. Le atmosfere ricercate, gli interni di disegn e i colori freddi di Crocodile portano lo spettatore in un vorticoso labirinto di memorie, crimini e segreti dalle tinte thriller. 
 È con il quarto episodio Hang the DJ, seguito dal più spento survival-movie Metalhead, che i cambiamenti della serie appaiono più evidenti. I meccanismi affiorano in superficie e, all’orizzonte, si intravede il miraggio di un happy ending per una storia d’amore a cui è inevitabile appassionarsi. Si sviluppa così l’episodio più riuscito della stagione che prepara con leggero anticipo la gran conclusione di Black Museum, un concentrato di tutte le angosce, paranoie e congetture che per sei anni hanno animato la serie di Brooker. 
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Dopo il successo della terza stagione e, in particolare, dell’episodio San Junipero, Black Mirror fissa obiettivi ancora più ambiziosi e ha tutti gli occhi, soprattutto quelli più scettici, puntati su di sé. Finali che lasciano aperti spiragli di speranza hanno deluso anche i migliori fan ma si è veramente considerata la stagione nel suo insieme? Certo, ogni episodio racconta una storia differente ma il filo conduttore, dopo una riflessione finale, è più chiaro e semplice che mai: le paure peggiori non risiedono nella tecnologia ma negli istinti più profondi di ogni essere umano e nelle dinamiche sociali. Egoismo e necessità di mantenere intatta la propria vita si contrappongono all’istinto di sopravvivenza allo stato più puro ma sfociano, talvolta, in vendetta e sopraffazione spietata. È questo il finale roseo che appare superficialmente? Oppure è semplicemente il risultato di un meccanismo subdolo in cui ognuno è costretto a svolgere un determinato ruolo, senza sfumature e senza possibilità di scegliere? La verità è che il ribaltamento dei ruoli e delle prospettive in questi ultimi episodi  rafforzano un’illusione che è ancora più difficile da infrangere e, forse, più cinica che in precedenza.
Black Mirror pone domande, instilla nella mente dello spettatore quesiti assillanti: basta questo per comprendere che l’obiettivo è stato raggiunto nonostante alti e bassi.

Immagini tratte da:
Immagine 1: www.blog.screenweek.it
Immagine 2: www.serializzati.com
Immagine 3: www.serialfreaks.it

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14/1/2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la recensione

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di Salvatore Amoroso
Nelle sale italiane è approdato l’11 gennaio il film del britannico Martin McDonagh, fresco vincitore di ben quattro Golden Globe. Potente e unico, una centrifuga di emozioni che vi rapirà.
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Titolo originale: Three Billboards Outside Ebbing, Missouri   
Paese di produzione: USA, UK
Anno: 2017
Durata: 115’
Genere: drammatico
Regia: Martin McDonagh
Sceneggiatura: Martin McDonagh
Distribuzione: 20th Century Fox
Fotografia: Ben Davis
Montaggio: Jon Gregory
Colonna sonora: Carter Burwell
Cast: Frances McDormand (Mildred Hayes); Woody Harrelson (sceriffo Willoughby); Sam Rockwell (vicesceriffo Dixon); John Hawkes (Charlie Hayes); Peter Dinklage (James); Lucas Hedge (Robbie Hayes); Caleb Landry Jones (Red Welby).

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​Mildred Hayes (Frances McDormand) è una madre che ha perso la figlia in modo orribile e brutale. Nei suoi occhi si può leggere un sentimento di rabbia e vendetta sconfinato. Una mattina da un’occhiata a quei tre cartelli pubblicitari posti su una desolata strada di campagna e decide di affittarli per un anno. Sullo sfondo rosso accesso di ogni manifesto fa scrivere tre frasi provocatorie nei confronti della polizia e soprattutto dello sceriffo di Ebbing, lo spigoloso Bill Willoughby (Woody Harrelson). Mildred è decisa a trovare l’assassino di sua figlia e lo sceriffo sa perfettamente che nessuno potrà sbarrarle la strada. 
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​Martin McDonagh, il regista dell’ottimo In Bruges, scrive e dirige in maniera magistrale una pellicola toccante e di un’intensità pazzesca. Tre manifesti a Ebbing, Missouri non è un film qualsiasi, è la pellicola che meglio racchiude l’essenza del cinema. Dalla fotografia al montaggio, passando per le musiche e i dialoghi mai fuori posto; non a caso a Venezia il pubblico si è lasciato andare ad applausi scroscianti e a un sincero entusiasmo. La regia di McDonagh è perfetta, ogni inquadratura mette in risalto i volti ruvidi e stanchi dei suoi attori, che svolgono un lavoro a dir poco eccezionale. Molti critici hanno intravisto nei tre manifesti la decadenza della società americana con tutti i suoi spettri che ormai si trascina da anni: il razzismo, la violenza sulle donne, la corruzione della polizia. Ma Tre manifesti si spinge oltre. É una storia complessa che ti strapazza emotivamente. I suoi protagonisti stanno per perdere la fiducia nella vita, non conoscono più il significato della parola amore e la rabbia li sta lentamente divorando, sembra non esserci speranza di redenzione, sembra che il destino gli abbia voltato le spalle ma a un certo punto della pellicola il forte gesto dello sceriffo Willoughby riconcilierà con il mondo la coriacea guerriera Mildred e il folle vicesceriffo Jason Dixon (Sam Rockwell). 
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​Soffermiamoci su quest’ultimo: la prova attoriale di Rockwell è straordinaria. Il piano sequenza dietro le sue spalle è una delle scene più forti dell’intero film. Lo sguardo torvo di Dixon, il vicesceriffo goffo e un po’ tardo, ti entra dentro e lo spettatore non può che innamorarsi di quest’essere. Rockwell si fa carico di un fardello pesante, quello di recitare tra due mostri sacri come la McDormand e Harrelson e a sorpresa si erge spaventosamente fra questi due, mostrando tutto il suo talento e prenotando con largo anticipo la meritata statuetta dorata. 
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​Dopo tutti questi elogi vi consigliamo di correre al cinema, non indugiate e godetevi l’ultima fatica del regista Martin McDonagh. Difficilmente potrete dimenticarvi del vice Dixon, di Mildred e dello sceriffo Bill. Personaggi con valori forti, con caratteri difficili ma dotati di un cuore enorme. Da questo 2018 non possiamo che augurarci tanti bei capolavori come questo. Buon cinema e alla prossima recensione.

​Immagini tratte da:

Locandina: Empire.com
Immagine 1: Metro.co.Uk
Immagine 2: Economist.com
Immagine 3: Variety.com
Immagine 4: Times Now Hindi

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7/1/2018

Come un gatto in tangenziale

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di ​Maria Luisa Terrizzi
Foto
​DATA USCITA: 28 dicembre 2017
GENERE: Commedia
ANNO: 2017
REGIA: Riccardo Milani
CAST: Paola Cortellesi, Antonio Albanese, Sonia Bergamasco, Luca Angeletti, Antonio D'Ausilio, Alice Maselli, Simone de Bianchi, Claudio Amendola
PAESE: Italia
DURATA: 98’
DISTRIBUZIONE: Vision Distribution

Una nuova commedia firmata da Riccardo Milani per la coppia ormai collaudata Albanese-Cortellesi. Dopo Mamma o papà? (2017), remake del francese Papa ou maman? (2015) di Martin Bourboulon, in cui la coppia di attori si confrontava col tema della fine dell’amore, questa volta il regista propone un incontro tra persone di diversa estrazione sociale.
​Giovanni (A. Albanese), separato, fa parte di un gruppo di think tank che si occupa di riqualificare le periferie emarginate di Roma; Monica (P. Cortellesi), moglie di un pregiudicato in carcere, svolge lavoretti saltuari e vive nella periferia degradata del quartiere multietnico di Bastogi. Tra di loro un abisso, se non fosse che i rispettivi figli, Agnese e Alessio, tredicenni, si sono fidanzati. Ciò che unirà i due genitori sarà proprio l’intento di impedire ai figli di continuare a frequentarsi.
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Una conoscenza attraverso gli occhi dei due genitori di realtà lontane e che appaiono spesso inconciliabili. Dalla spiaggia super affollata di Capo di Morto, al cinema d’essai all’elitaria Capalbio, passando per l’aperitivo tra intellettuali, fino agli avanzi della mensa consumati in assenza di altro. Una comprensione dello scarto sociale tra i due nuclei familiari che si misura con la paura della diversità altrui e con pregiudizi radicati. Nonostante i rispettivi timori, Giovanni e Monica inizieranno a piacersi e chissà se la loro storia durerà o se farà la fine di un gatto in tangenziale.
​Conoscere concretamente i luoghi e aprirsi alle diversità sembra essere il leitmotiv del film che propone il tema, seppur non originalissimo, del conflitto sociale ma con un’ironia mai volgare che lascia spazio alla riflessione. Sul finale, l’inserimento divulgativo del messaggio sociale rispetto la possibilità di sfruttare il Fondo sociale europeo per finanziare attività imprenditoriali, utile concretamente in un panorama, quello italiano, in cui spesso è facile lasciarsi abbattere dalla percezione di immobilismo sociale.
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Commedia godibile e leggera il cui messaggio sembra essere quello di orientarsi verso una conoscenza concreta dei luoghi: un pensatore che propone soluzioni per riqualificare la periferie degradate non può non conoscere i luoghi di cui si sta occupando nelle loro criticità ma soprattutto, nella loro vivacità multiculturale, a partire dalle quali ideare soluzioni che privilegino alla chiusura e al rifiuto l’integrazione e lo scambio culturale.

Immagini tratte da:

https://www.mondofox.it/2017/12/07/come-gatto-tangenziale-trailer/
https://comeungattointangenziale.visiondistribution.it/
http://www.film.it/news/film/dettaglio/art/albanese-e-cortellesi-di-nuovo-insieme-ecco-il-trailer-di-come-un-gatto-in-tangenziale-51548/

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7/1/2018

Morto Stalin, se ne fa un altro: la recensione

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Armando Iannucci torna al cinema con l'adattamento di una graphic novel francese sul vuoto di potere creatosi in Unione Sovietica dopo la morte di Stalin. In concorso al 35mo Torino Film Festival e in sala dal 4 gennaio.
di Salvatore Amoroso
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Titolo originale: The Death of Stalin   
Paese di produzione: UK, Francia, USA
Anno: 2017
Durata: 106'
Genere: commedia, drammatico
Regia: Armando Iannucci
Sceneggiatura: Armando Iannucci, David Schneider, Ian Martin, Peter Fellows
Distribuzione: I Wonder Pictures
Fotografia: Zac Nicholson
Montaggio: Peter Lambert
Colonna sonora: Christopher Willis
Scenografia: Cristina Casali
Cast: Steve Buscemi (Nikita Kruščëv); Simon Russell Beale (Lavrentij Berija); Paddy Considine (Compagno Andrjev); Michael Palin (Vjačeslav Molotov); Jeffrey Tambor (Georgij Malenkov); Jason Isaacs (Georgij Žukov); Rupert Friend (Vassilij Stalin); Olga Kurylenko (Maria Judina).

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​La sera del 28 febbraio del 1953 Radio Mosca diffonde in diretta il "Concerto per pianoforte e orchestra n.23" di Mozart. Toccato dall'esecuzione che ascolta nella sua dacia di Kountsevo, Joseph Stalin chiede una registrazione. Ma nessuna registrazione era prevista per quella sera. Paralizzati dalla paura, direttore e orchestra decidono di ripetere il concerto. Tutti tranne Maria Yudina, la pianista che ha perso famiglia e amici per mano del tiranno. Convinta a suon di rubli, cede, suona e accompagna il disco con un biglietto insurrezionale. L'orchestra si vede già condannata al gulag. Ma l'indomani Stalin è moribondo. Colpito da un ictus, muore il 2 marzo scatenando un conflitto feroce per la successione tra i membri del Comitato Centrale del PCUS.
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​La dittatura più spietata raccontata come una commedia nerissima, all’insegna dell'adagio: “una risata vi seppellirà”. Morto Stalin, se ne fa un altro; per una volta un titolo italiano all’altezza e in linea col tono satirico di un film, adattamento di una graphic novel francese, affidato alle mani sapienti e caustiche al punto giusto di Armando Iannucci. Scozzese di origini italiane, padre napoletano e madre di Glasgow, si è fatto un nome seminando fiele e ironia nei corridoi del potere, con le serie Veep e The Thick of it.
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​Il clima di quei giorni è reso con dialoghi taglienti ed efficaci: “sono esausto, non ricordo più chi è morto e chi no”, talvolta di grana grossa e farseschi, in maniera da rendere bene, per paradossale che possa sembrare, quell’atmosfera di raggelato terrore collettivo, quella patina costante di dissimulazione. Il regista scozzese, complice anche un cast d'eccezione, tra cui spicca uno Steve Buscemi al meglio di sé, costruisce un'opera degli eccessi, in cui il black humor raggiunge tonalità tanto cupe quanto esilaranti.
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​Ma come si dice, quando il gatto non c'è, i topi ballano. E d'improvviso la stregua di personaggi fedeli a Stalin, fino a poco prima ridicolmente inetti, si rivelano, pur senza perdere i connotati più ironici e grotteschi, veri maestri d'astuzia: dopo un funerale farsa, si avvia quindi un lungo ciclo di successioni al potere. Come un gioco della sedia in cui, ogni volta che termina la musica, qualcuno resta in piedi, i ministri Malenkov, Berija e Chruščëv si succedono al governo. E proprio qui, tra le scene di chiusura del film, in quei titoli di coda che evocano un futuro di somiglianze, si insinua l'arguzia del titolo italiano: il gioco è concluso? È bastata la fine dell’Urss per porre fine all'effetto domino del potere? È nel silenzio, nello schermo nero e nell'uscita dalla sala dello spettatore, che Iannucci dà la probabile risposta negativa a queste domande.

​Immagini tratte da:

Locandina: Torinoggi.it
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