“Non vi dimenticherete di me, vero?... Promettetemelo!” Rupert Goold racconta Judy Garland. Non la Judy regina dei palcoscenici, che incanta tutti con la sua voce. Non la ragazza della porta accanto, quell’immagine che il carrozzone di Hollywood ha venduto per anni, finché, da vendere, non vi era rimasto più nulla. Goold sceglie di guardare “oltre l’arcobaleno” e ci racconta una Judy fragile, spossata, che ha rinunciato da anni al cinema; la sua voce è indebolita, dopo il tentato suicidio di due anni prima che ha reso necessaria una tracheotomia, ma accetta di esibirsi per una serie di concerti a Londra perché è in lotta per la custodia dei figli piccoli, non ha una casa ma un sacco di debiti; e tanto bisogno d’amore. Una star che spesso si ferma a parlare con i fan e a spendere un po’di tempo in loro compagnia. La diva ha 47 anni, sono i mesi che precedono la sua prematura dipartita. A questa Judy se ne alterna, per brevi attimi, una più giovane, appena ragazzina; è piena di sogni, vive in un mondo dove tutto è finto, perfino le feste di compleanno celebrate con due mesi di anticipo per non intaccare la tabella di marcia. La torta è di cartone: una vera farebbe ingrassare. Pillole per dormire e poi pillole per aumentare l’energia e la performance durante il giorno. La piccola Judy anela ad un attimo di normalità mai concessale, ma è anche piena di passione ed energia e quando guarda un palcoscenico ha gli occhi che le brillano.
Judy Garland appartiene a quella generazione di giovani promesse, come Shirley Temple, in maniera non tanto diversa Marilyn Monroe, che diventavano “proprietà” delle case di produzione, che ne governavano interamente la vita, imponendo un modello di perfezione irreale e deleterio, che le generazioni odierne di attrici hanno cominciato a combattere, capitanate da Jennifer Lawrence che brandisce una pizza. Sono donne che, per sposare la propria passione, hanno pagato un prezzo durissimo.
Film che esplorano il dietro le quinte di leggende della musica e del cinema stanno piacendo molto sia agli autori che al pubblico (basta citare gli ultimi Bohemian Rapsody e Rocketman) e, forse, è un bene. Ridimensionare la visione che abbiamo dei divi, scoprire che sono anche loro esseri umani pieni di demoni da combattere, può servire a mitigare la spasmodica ricerca di una perfezione che non esiste, neanche in quelle che crediamo vite dorate.
Renée Zellweger è il cuore di questo film. Anzi, è il film. La sua interpretazione va oltre ogni immaginazione e le è già valso il Golden Globe e il SAG Award ed è in corsa per l’Oscar. Ha svolto un lavoro fisico, vocale ed emotivo titanico. Nell’entrare nelle scarpette rosse di Dorothy, l’attrice si è messa più che mai alla prova, affrontando le proprie insicurezze insieme a quelle della Garland. C’è sempre un certo timore riverenziale quando si deve interpretare un personaggio così significativo. Renée Zellweger ne aveva tanto che, rivela il regista, alcune canzoni le hanno registrate dal vivo, ma senza poterglielo dire per l’ansia che nutriva.
Con la sua emozionante performance Renée non solo ha reso onore alla grande donna che era Judy Garland, ma anche a se stessa, facendo in modo che la gente ricominciasse a parlare di lei non per il cambiamento del suo aspetto fisico, ma per il suo essere un’attrice eccezionale. Voto: 7
0 Commenti
di Matelda Giachi
![]()
Genere: Drammatico, Guerra
Anno: 2019 Durata: 110 min Regia: Sam Mendes Cast: George MacKay, Dean-Charles Chapman, Mark Strong, Andrew Scott, Richard Madden, Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Claire Duburcq, Teresa Mahoney, Daniel Mays, Adrian Scarborough, Justin Edwards, Anson Boon Sceneggiatura: Sam Mendes, Krysty Wilson-Cairns Fotografia: Roger Deakins Montaggio: Lee Smith Musica: Thomas Newman Effetti Speciali: Greg Butler, Pier Lefebvre, Dominic Tuohy, Guillaume Rocheron Produzione: Amblin Partners, Neal Street Productions Distribuzione: 01 Distribution Paese: Gran Bretagna, USA
1917: “Scegli un uomo. Porta la tua roba”.
Il riposo di due soldati è interrotto, viene affidata loro una missione: consegnare un messaggio prima dell’alba per evitare il massacro di 1600 uomini. Due giovanissimi protagonisti, come, del resto, giovanissimi erano i combattenti della guerra 15-18. Dean-Charles Chapman già lo abbiamo conosciuto, è Tommen Baratheon di Game of Thrones, mentre il semi sconosciuto George MacKay è da tenere d’occhio: sembra voler entrare nel novero delle nuove promesse del cinema hollywoodiano, che non ha nessuna intenzione di rimanere povero di eccellenze. Sam Mendes (America Beauty, Skyfall), per questo film già vincitore del Golden Globe e in lizza per il premio Oscar, lavora sui racconti del nonno, a cui dedica la pellicola, e segue i due ragazzi passo passo nella loro missione.
Con accanto il direttore della fotografia Roger Deakins, premio Oscar per Blade Runner 2049 e stretto collaboratore dei fratelli Cohen, Mendes compie la difficile quanto vincente scelta di girare tutto in piano sequenza, cioè, praticamente con un’unica inquadratura che accompagna i due protagonisti quasi in tempo reale. Difficile, perché significa che il lavoro dell’intera troupe cinematografica è stato titanico, ai limiti dello sfinimento; vincente perché è un capolavoro di tecnica. 1917 è claustrofobico. Porta lo spettatore in trincea con i protagonisti, ha la sensazione di essere lì con loro e non su di una poltrona a guardare tutto da lontano. Mantiene sempre alto il livello di tensione, pur in assenza di frequenti momenti di azione. Sono i dettagli, piccoli particolari disseminati nella scenografia, il silenzio, l’ignoto che pervade la terra di nessuno, a tenere sempre alto il livello di guardia dentro e fuori dal film. Solo brevi momenti di umanità, posizionati con sapienza, interrompono il senso di angoscia, che riprende rafforzato non appena questi finiscono.
Si capisce cosa ha spinto la giuria dei Golden Globe a premiare il film di Sam Mendes ed è chiaro che 1917 abbia tutti gli elementi che servono a mettere d’accordo i membri dell’Academy. Eppure convince, ma non fino in fondo. Forse, se tanta perfezione avesse lasciato spazio anche a un po’ più di cuore, sarebbe davvero il gran film che aspira ad essere. Ha delle incongruenze narrative, compreso un protagonista con più vite di un gatto e di Leonardo Di Caprio che, precipitando nel vuoto in The Revenant, si impiglia nell’unico albero di un intero crinale montuoso. E’ vero che si tratta di cinema e che è giusto lasciare spazio a qualche licenza poetica, ma tra tra Dunkirk e Interstellar, entrambi film, ci si aspetta un diverso legame con i principi di realtà. Tuttavia non sono questi piccoli difetti il problema. Forse è quell’epicità tipica americana che è stata esagerata in una pellicola il cui bellissimo e amaro messaggio è, da inizio a fine, l’inutilità di quell’intero conflitto mondiale. Che di epico, la guerra di trincea, non ha avuto proprio niente.
1917 è un film che va visto e va visto al cinema, perché una fotografia così perfetta merita la celebrazione del grande schermo. E’ un film di cui abbiamo bisogno, perché non abbiamo più testimoni di quegli anni bui e l’umanità è molto portata a dimenticare e ripetere gli stessi errori in un ciclo senza fine. E se, sul molto probabile Oscar, abbiamo le nostre perplessità, figura comunque di diritto tra i nomi dei candidati alla statuetta di miglior film.
Voto: 7/8
La recensione di Figli, l'ultima eredità di Mattia Torre, una commedia spregiudicata e umana con Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi.
di Salvatore Amoroso
Figli è l’eredità di Mattia Torre, di un geniale sceneggiatore che dopo averci permesso di apprezzare l’universo di Boris, del quale è stato co-autore sia per le tre stagioni della serie che per il film conclusivo, ha dovuto arrendersi a qualcosa di più grande di tutti quanti noi. La commedia, che arriva al cinema postuma, mette subito in chiaro che il film è suo, è firmato da quell’autore che ha una firma facile da distinguere, che ai suoi film dà un’identità ben precisa. Con una coppia come Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi, poi, non ci si poteva aspettare un risultato inferiore alle aspettative che si hanno quando si approccia un film realizzato da chi ha prodotto la miglior serie italiana di sempre.
Figli racconta la vita di Nicola e Sara, una coppia innamorata, felice, che non vede l’ora di poter crescere un secondo figlio, che sta per nascere di lì a poco. La coppia ha già una figlia, di sei anni, e la vita scorre senza problematiche: lui si occupa di una salmoneria, lei si occupa di simulare le visite dei NAS agli esercizi alimentari di Roma. A rompere la consuetudine è proprio l’arrivo di Pietro, il secondogenito, sgradito alla figlia maggiore e pronto a rendere impossibile la vita dei genitori, non più pronti a gestire due eredi e il resto della loro vita. Nicola e Sara affrontano così i primi squilibri della loro vita coniugale, tra i disagi di coppia e le difficoltà di condividere i momenti privati fuori dalle mura casalinghe, oltre alle velate critiche che avanzano alle generazioni passate, che hanno lasciato quelle attuali in balìa del disastro e dello squallore economico. Figli sarebbe dovuto essere il terzo film da regista di Mattia Torre, oltre che la prima pellicola realizzata separatamente da Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, con i quali aveva firmato Boris e aveva anche condiviso la macchina da presa in Ogni maledetto Natale, pungente e ironica commedia natalizia. Torre aveva scelto Valerio Mastandrea per il suo protagonista, un attore che tra l’altro aveva creato un rapporto particolare con lo sceneggiatore: la malattia che ha portato alla morte Mattia Torre, d’altronde, era stata raccontata da Mastandrea nella fiction "La linea verticale", ispirata all’omonimo romanzo dell’autore cinematografico.
Mastandrea sembra incollato perfettamente al personaggio di Nicola e dopo tante pellicole dal tono drammatico, nelle quali l’attore romano ha sempre saputo dare il meglio di sé risultando vero mattatore della tragedia italiana. A supportare l’efficacia della coppia c’è anche la forte intesa con Paola Cortellesi, attrice con la quale Mastandrea ha avuto, oltre dieci anni fa, una relazione: l’affinità di coppia esiste, si percepisce, così come si sente la realtà dei litigi, degli affronti, complice tanto la sceneggiatura di Mattia Torre, quanto la capacità dei due attori, padroni della scena e supportati da comprimari mai ingombranti e anzi di grande supporto, da Stefano Fresi fino alle sporadiche apparizioni di Valerio Aprea. Accanto a un cast indovinato per ogni ruolo, anche delle intuizioni davvero uniche che rendono la pellicola memorabile.
Figli offre anche una finestra sul surreale, replicando quanto già avvenuto con La linea verticale: Torre indica uno sfondo bianco, un non-luogo all’interno del quale raccontare ciò che succede per le coppie che hanno un figlio e si ritrovano costrette ad approcciare in maniera diversa la nascita degli eredi. E infine è affascinante anche la soluzione che si indica durante la commedia alla risoluzione di tutti i conflitti: il lanciarsi dalla finestra. Nessuno spiega cosa succede dopo averlo fatto, ma è la via di fuga perfetta a ogni male, a ogni problematica, soprattutto quelle dialettiche. Scappiamo tutti, fino a quando non decidiamo di affrontare le nostre problematiche e le nostre difficoltà, che corredano il percorso della nostra vita. Sta a noi estirparle come delle erbacce che ci insegneranno in che modo coltivare meglio il nostro.
Figli piace perché è reale, perché racconta il dramma della famiglia in maniera ironica, senza mai scadere nel dramma più profondo, ma riuscendo a far ridere di quelle problematiche che qualsiasi giovane coppia deve affrontare. Il tocco di Mattia Torre è percepibile, ma allo stesso tempo si deve fare un plauso a Giuseppe Bonito per averne raccolto in maniera precisa l’eredità, complice l’aver condiviso il set in diverse occasioni. L’alchimia tra Mastandrea e la Cortellesi finisce per costruire un prodotto vincente, una commedia intelligente e piacevole, che non annoia in nessun momento e che gioca con tutte le tecniche di comicità per far ridere, raccontare la realtà dei fatti e lasciarci quella vena di tristezza ripensando a quanto avremmo voluto continuare ad avere idee, sceneggiature, dialoghi di Mattia Torre.
Immagini tratte da:
Locandina: ComingSoon.it Immagine1: Taxidrivers Immagine2: Sentieri Selvaggi Immagine3: LaSTAMPA di Matelda Giachi FILIPPO TIMI: LE PAROLE ROMPONO IL SILENZIO Skianto è il rumore di una barriera che si frantuma; di un tuono che squarcia il cielo; di un pensiero liberato: di parole mai pronunciate che rompono il silenzio.
“Skianto è la bocca murata. È il racconto di un ragazzo disabile che ha il cancello sbarrato. Io spalanco quella bocca in un urlo di Munch. Gli esseri umani sono disabili alla vita. E siamo tutti un po’ storti, se ci confrontiamo alla grandezza della natura. Esiste una disabilità non conclamata che è l’isolamento, l’incapacità di fare uscire le voci.” Sono le parole dell’autore. Skianto è una storia vera perché il teatro, il cinema, l’arte attingono sempre dalla vita. Filippo Timi parla di sua cugina, che è nata con la scatola cranica sigillata. Immagina i suoi pensieri e prova a darle una voce. Nello spettacolo la cugina è diventata un ragazzo, ma la verità è che il genere non ha importanza. Il protagonista è un simbolo. Simbolo di una disabilità non solo fisica, ma ancor più psicologica. Impossibile non pensare ad una società che dispone dei più potenti e tecnologici mezzi di comunicazione, eppure tutti parlano ma pochi comunicano. Skianto è provocatorio, audace, folle, come il suo autore. Solo Filippo Timi può portare Candy Candy in teatro, fare di due palle da discoteca i più importanti effetti visivi in scena, far danzare salvatore Langella con un’enorme testa di plastica sulle note di Let it Go e calcare il palcoscenico vestito da unicorno in un’accozzaglia pop che potrebbe sembrare non avere significato e invece è espressione di una genialità di assoluto senso compiuto. Genera esplosioni di risate eppure è anche un pugno forte nello stomaco. Un testo duro, drammatico, eppure con una positività di fondo. Atto unico di breve durata, un’ora e quindici minuti, ma che è fonte di infinite riflessioni che non è possibile spiegare ma che ogni spettatore deve raccogliere e portare a casa per conto proprio.
di Salvatore Amoroso
La recensione di The Lodge, horror di Veronika Franz e Severin Fiala con Riley Keough, che racconta una storia ricca di mistero ed enigmi irrisolti. ![]()
Data di Uscita: Giovedì 16 Gennaio
Genere: Horror, thriller Anno: 2019 Regia: Veronika Franz, Severin Fiala Attori: Riley Keough (Grace); Jaeden Martell (Aidan); Lia McHugh (Mia); Richard Armitage (Richard); Alicia Silverstone (Laura). Sceneggiatura: Sergio Casci, Veronika Franz, Severin Fiala Fotografia: Thimios Bakatakis Montaggio: Michael Palm Musiche: Danny Bensi, Saunder Jurriaans Produzione: FilmNation Entertainment, Hammer Films Distribuzione: NEON Paese: UK, USA. Durata: 100 min.
Severin Fiala e Veronika Franz tornano a lavorare insieme a cinque anni dal sorprendente Goodnight Mommy per un altro agghiacciante horror psicologico, il loro primo in lingua inglese, The Lodge. Diretto dal duo di registi austriaci (che scrivono anche la sceneggiatura insieme a Sergio Casci), nel film la suspense, l’angoscia e un costante senso di surreale sospensione tengono lo spettatore immobile, ancorato alla sedia, fino allo scioccante finale. Alcuni degli elementi fondamentali del genere, ispirati fortemente dal Shining di Stanley Kubrick, come l’isolamento in un ambiente molto ostile dal quale è impossibile fuggire, lato senso di minaccia, inesorabile sprofondamento nella paranoia, una narrazione mai scontata e soprattutto un truce e freddo degenerare degli eventi, lo rendono uno dei titoli da non perdere per gli estimatori del cinema del terrore nel 2019, e indubbiamente una dei migliori visti al NIFFF 2019.
Le premesse sono già di per sé inquietanti. Quando Richard (Richard Armitage ) lascia la moglie Laura (Alicia Silverstone) per un’altra donna, Grace (Riley Keough), Aiden (Jaeden Martell) e Mia (Lia McHugh) si trovano costretti a trascorrere del tempo con il genitore e la sua nuova fiamma. Dopo un tragico e traumatico evento, difatti, i due ragazzini, ancora profondamente turbati, vengono prevedibilmente affidati al padre, e dopo pochi mesi vengono dall’uomo obbligati a trascorrere le vacanze di Natale in compagnia della sua futura giovane moglie nella sperduta casa di famiglia in montagna. Sin da principio non mancano naturalmente piccoli attriti. Poco vale che la donna cerchi in ogni modo di conquistare la fiducia dei figliastri, questi sono oltremodo ostili, ritenendola colpevole della distruzione della loro famiglia. La situazione peggiora sensibilmente quando Richard torna in città per lavoro, ‘abbandonandoli’ con la matrigna. Il labile equilibrio si spezza del tutto e i due fratelli rivelano lentamente tutta la loro ostilità repressa verso Grace.
Le premesse di The Lodge sono, quindi, chiare: una magione disperso nei boschi, spazzata costantemente dal vento gelido e immersa nella neve da cui è impossibile fuggire. Un soggetto decisamente instabile costantemente sul punto di esplodere alla prese con una situazione di grandissimo stress emotivo e bloccata per non si sa quanto con due ragazzini che covano un profondo risentimento verso di lei e che desiderano solo vendicarsi in qualche modo. Aggiungete in ultimo che Richard, per qualche motivo incomprensibile, affida a Grace una pistola carica, giusto per autodifesa (siamo pur sempre in America in fondo …). Miscelate tali ingredienti, scuotete per bene, e sarà presto chiaro che un lieto fine sarà altamente improbabile.
Sin dall’apertura di The Lodge, dopo solo una manciata di minuti, un primo evento sconvolgente lascia lo spettatore a bocca aperta. Il ritmo della pellicola d’altra parte è discontinuo, i massimi picchi di tensione, i cambi di rotta repentini si alternano a momenti caratterizzati da uno sviluppo estremamente lento. Quasi gli apici dell’azione venissero sferzati come un pugno nello stomaco, senza preoccuparsi di preparare il momento clou o lasciarlo decantare, mentre il resto del minutaggio fosse destinato a un lento e ansiogeno logorio, che perfettamente traduce la graduale perdita di connessione con la realtà di Grace (e dello spettatore stranito con lei). D’altra parte, Severin Fiala e Veronika Franz non ci presentano una verità univoca, oggettiva. Gran parte della forza di The Lodge è proprio quella di mantenere il pubblico incredulo e sospeso tra più possibili realtà, tra più possibili risposte. L’uso degli indizi di cui l’horror è disseminato confondono invece di chiarire: delle fotografie macabre, il malfunzionamento dell’orologio di casa che segna la data sbagliata e i cellulari che non funzionano, oggetti personali che svaniscono nel nulla e così via, in un crescendo paranoide.
Il modus narranti labirintico, ingannevole, è solo strumento per calarci nella mente dei personaggi, di Grace in particolare, la cui educazione fortemente cattolica, la cui fissazione con il pentimento, a lungo represse dopo l’allontanamento dal padre, riemergono con forza man mano che le circostanze divengono più disperate. Si viene quindi a configurare un’allucinazione religiosa, in cui i simboli del sacro, i crocifissi appesi in giro per la casa e ancor più un quadro (una Madonna di Antonello da Messina) assumono contorni minacciosi o di premonizioni che preludono il Giudizio Finale. Severin Fiala e Veronika Franz si confermano assolutamente una coppia da tenere d’occhio, cineasti che non si curano di piacere al pubblico di massa eche proseguono lungo un solco ben preciso. Non possiamo che augurar loro di non farsi tentare mai da percorsi più commerciali.
Immagini tratte da:
Locandina: Masedomani.org Immagine1: Wired.it Immagine2: Cinematografo.it Immagine3: TheHotCorn.it di Vanessa Varini ![]() Titolo: "New Amsterdam 2" Paese: Stati Uniti d'America Anno: 2019 Genere: drammatico, medico Stagione: 2 Episodi: 12 Durata: 43 min (episodio) Ideatore: David Schulner Fotografia: Stuart Dryburgh, Andrew Voegeli Musiche: Craig Wedren Interpreti e personaggi: Ryan Eggold (Dr. Max Goodwin); Janet Montgomery (Dr. Laura Bloom); Freema Agyeman (Dr. Helen Sharpe); Tyler Labine (Dr. Iggy Frome); Anupam Kher (Dr. Vijay Kapoor) Il 14 gennaio su Canale 5 é finalmente arrivata la seconda stagione di "New Amsterdam", il medical drama che denuncia la sanità pubblica americana ed ispirato alla vera storia di Eric Manheimer, che nella serie si chiama Max Goodwin ed è interpretato dall'attore Ryan Eggold (la spia di "The Blacklist"), medico e direttore sanitario del più antico ospedale pubblico degli Stati Uniti, il Bellevue Hospital di New York City. La prima stagione si era conclusa con un spaventoso incidente che coinvolgeva l'ambulanza su cui si trovavano Georgia, la moglie del dottor Goodwin, che aveva appena partorito Luna, la dottoressa Lauren Bloom (interpretata da Janet Montgomery, la Mary Sibley di "Salem"), l'oncologa Helen Sharpe (Freema Agyeman, la Martha Jones compagna del Dottore nella terza stagione di "Doctor Who") e lo stesso Goodwin. Così il primo episodio della seconda stagione si apre con un salto temporale e gradualmente il pubblico inizia a scoprire cos'è accaduto dopo lo scontro, attraverso alcuni flashback: una delle tre donne a bordo dell'ambulanza purtroppo non ce l'ha fatta. Intanto Max Goodwin, finalmente guarito dal cancro alla gola, continua a svolgere il suo lavoro da dirigente medico dell'ospedale e a riorganizzare l'intera struttura per conoscere a fondo il suo staff e cambiare il sistema ospedaliero americano, aiutando tutti cittadini che non riescono a pagarsi le cure ma anche il personale medico oberato di lavoro. Infatti il dottore si chiede sempre "Come posso aiutare" una frase diventata il mantra della serie e addirittura un famoso hashtag sui social, soprattutto su Twitter, quando i telespettatori commentano le puntate attualmente in onda. È proprio l'umanità del protagonista il punto di forza di "New Amsterdam" insieme alla trama realistica che suscita tante emozioni con le storie dei pazienti dell'ospedale e dei coprotagonisti: oltre alla Bloom e alla Sharpe, c'è il cardiochirurgo Lloyd, il neurologo Kapoor e il psichiatra Iggy Frome. Quindi preparate una bella scorta di fazzoletti e buona visione! Intanto la NBC ha già rinnovato "New Amsterdam" per altre tre stagioni, dopo il grande successo ottenuto negli Stati Uniti e la serie è destinata a diventare il nuovo "Grey’s Anatomy". Chissà se in Italia avrà lo stesso successo? Speriamo di sì! Immagini tratte da: https://live.staticflickr.com/ https://cdnx.ilsussidiario.net/ https://www.tuttalativu.it/ Di Federica Gaspari
Una strana legge statistica del mondo di Hollywood recita che il vincitore del premio del pubblico del Toronto Film Festival abbia altissime possibilità di trionfare nella categoria più scintillante degli Academy Award. In passato, infatti, moltissimi film che vantavano questo riconoscimento nel loro curriculum hanno conquistato l’Oscar per il miglior film dell’anno, anche quando tutti i pronostici della critica non erano favorevoli. Green Book, 12 anni schiavo e Il discorso del re ne sanno qualcosa. Nell’edizione 2019 del TFF il pubblico ha premiato l’irriverente Jojo Rabbit, creatura apparentemente fuori dagli schemi nata dalla mente di Taika Waititi su ispirazione di un romanzo di Christine Leunens. Tutti gli occhi di Hollywood sono puntati da quel momento sulla strana creatura satirica del regista neo-zelandese. Nei mesi seguenti, il film ha attraversato i red carpet di molti festival europei tra cui il Torino Film Festival. Dopo un’iniziale esplosione di curiosità, tuttavia, le luci dei riflettori su Jojo Rabbit si sono leggermente affievolite. L’ambita candidatura agli Oscar però ha acceso l’attesa per l’uscita nei cinema italiani. Nella Germania nazista, il piccolo Johannes (Roman Griffin Davis), chiamato da tutti scherzosamente Jojo Rabbit, trascorre le sue giornate alternando gli allenamenti da aspirante soldato nazista alle sue strane conversazioni con il suo amico immaginario Hitler (Taika Waititi). Jojo è cresciuto circondato dalla martellante propaganda di stata e i valori hitleriani sono gli unici che crede di conoscere. Tutte le sue assurde convinzioni, però, inizieranno a crollare quando scoprirà che la madre Rosie (Scarlett Johansson) nasconde nella loro abitazione una giovane ebrea. Chiunque abbia mai letto distrattamente i titoli della filmografia di Taika Waititi conosce benissimo le eccentriche potenzialità di questo autore. Da indie-darling a regista di blockbuster il passo per lui è stato brevissimo. Nel 2017 ha girato il discusso Thor: Ragnarok, successo al botteghino internazionale che, secondo le dichiarazioni rilasciate da Waititi stesso, avrebbe contribuito ampiamente a finanziare Jojo Rabbit, un film “talmente irriverente da non essere mai prodotto e distribuito da uno studio convenzionale”. Con queste premesse, quindi, il film arriva nelle sale e cattura l’attenzione con una prima parte divertita e divertente in cui la camera ruota brillantemente intorno al piccolo protagonista, mostrandone la natura involontaria di prodotto della propaganda di un regime totalitario. Waititi, impegnato anche alla sceneggiatura, ironizza con toni magnetici e ritmi irresistibili su contraddizioni e assurdità di un sistema concentrandosi proprio sulla figura totalmente sdrammatizzata dell’amico immaginario con le sembianze di Hitler, interpretato dal regista stesso. L’effervescente primo atto del film, tuttavia, perde presa e, di conseguenza, sfumature della sua efficacia nella seconda parte. Un’ammirevole prova attoriale di Scarlett Johansson e una colonna sonora perfetta nella scelta dei brani, infatti, non riescono a scandire i giusti tempi del graduale passaggio ai toni più drammatici della narrazione. La scelta di uno svolgimento finale più canonico e tradizionale assicura un’esperienza piacevole ma proprio per questo delude in parte le aspettative tradendo la cifra stilistica stessa di Waititi. Una premessa istrionica e ribelle si consuma così in uno sviluppo solido, appassionante ma in contrasto in parte con quanto costruito in precedenza dalla narrazione. Jojo Rabbit è, quindi, tagliente ma non abbastanza, riuscendo comunque a tratteggiare una riflessione originale e coinvolgente su temi che non sempre sono stati affrontati con abbastanza coraggio sul grande schermo. Immagini tratte da: https://www.torinofilmfest.org/it/
di Matelda Giachi
![]()
Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico
Anno: 2019 Durata: 135 min Regia: Greta Gerwig Cast: Emma Watson, Saoirse Ronan, Timothée Chalamet, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Laura Dern, Meryl Streep, Bob Odenkirk, Chris Cooper, Louis Garrel, James Norton, Abby Quinn, Tracy Letts Sceneggiatura: Greta Gerwig Fotografia: Yorick Le Saux Montaggio: Nick Houy Musica: Alexandre Desplat Produzione: Columbia Pictures Distribuzione: Sony Pictures / Warner Bros. Entertainment Italia Paese: USA
Questa di Greta Gerwig è la quinta trasposizione del libro di Louise May Alcott. Sul comodino di ogni ragazza che ama leggere, Piccole Donne sembra non avere tempo.
E’ una storia di donne, estremamente diverse per temperamento, concezione di vita e sogni. A volte non si capiscono, spesso litigano, arrivando anche ad essere vendicative. Ma sono prima di tutto sorelle e questo vince su tutto. Sono Meg (Emma Watson), Jo (Saoirse Ronan), Amy (Florence Pugh) e Beth (Eliza Scalen).
L’universo femminile è rappresentato in tutta la sua complessità e bellezza. Greta Gerwig sceglie di non essere didascalica, di osare un po’ e di dare un tocco di modernità ad un grande classico e lo fa in più modi. Innanzi tutto, attinge a entrambi i libri di Piccole Donne e anche un po’ al seguito, Piccoli Uomini, nonché a episodi della vita della stessa autrice del libro. Questo comporta anche una durata della pellicola oltre le aspettative, di cui però non si sente il peso.
La narrazione procede su diversi piani temporali, che non sono il classico alternarsi di tempo presente e flashback ma un continuo susseguirsi di momenti disparati che si richiamano l’uno all’altro tramite diverse associazioni: situazioni, stati d’animo, ricordi. Il risultato è dinamico e mai dispersivo. Ovviamente il fulcro della storia è la ribelle Josephine, per tutti Jo, l’alter ego della scrittrice ma forse anche un po’ della regista. La moderna visione del mondo di Jo si espande però a tutta la pellicola, che è un inno all’emancipazione femminile, non intesa solamente come facoltà di scegliere se sposarsi o meno, ma ancor di più come affermazione della libertà di essere se stesse e di possedere la propria vita. Jo è la più sopra le righe ma tutte le sorelle March hanno passioni e sogni e, come afferma la stessa Meg, nessuna è più nobile o importante dell’altra.
La Gerwig ha voluto un cast di tutti i più grandi talenti emergenti della giovane Hollywood, a cui ha affiancato dei pilastri della vecchia guardia, tra i quali spiccano Meryl Streep nei panni di una zia March simpaticamente bisbetica e Laura Dern, elegante, posata e dolce (in poche parole perfetta), nei panni della madre. Da un punto di vista interpretativo quindi, non poteva che essere un successo.
Ma la cosa più riuscita del film è la celebrazione della femminilità che avviene, soprattutto, attraverso i protagonisti maschili. A partire dal personaggio di Laurie, che spesso, nella pellicola, posa sulle quattro sorelle uno sguardo carico di ammirazione. Bravo Timothée Chalamet a renderlo, compensando con l’interpretazione una fisicità che spesso lo fa sembrare anagraficamente più giovane di quanto lo voglia la storia. A chi è affezionato al rigore di una trasposizione precisa farà storcere un po’ il naso, per noi, la visione moderna e vitale di Greta Gerwig è promossa a pieni voti. Voto: 8
di Matelda Giachi
“Sono cambiato”.
Già suona poco credibile in bocca ad una persona che, per non incappare in 50 sfumature di grigio, definiremo normale, figurati ad uno psicopatico seriale con alle spalle un elenco di omicidi che pare la lista dei debiti di Paperino. Abbiamo lasciato Joe (un sempre eccellente Penn Badgley), nel finale a effetto della prima stagione, placcato dal proprio passato, che ha le sembianze di una rossa e incazzata ex fidanzata magicamente sopravvissuta ad un tentato omicidio. L’ex che è quasi riuscito a ucciderti non è esattamente una persona che molti di noi andrebbero a ricercare, ma esperienze di tale portata qualche venerdì te lo fanno perdere e si tratta comunque del minore dei nonsense che caratterizzano la sceneggiatura di You. In fuga da Candice e da se stesso, ritroviamo quindi l’antieroe protagonista a Los Angeles, pronto a iniziare una nuova vita da brava persona in cui rinunciare per sempre all’amore. “Resisti”, è il suo nuovo mantra.
Non resiste. Non è spoiler, no? Trailer a parte, come avrebbe potuto esserci una seconda stagione altrimenti? Di certo non con come soggetto Joe che si illumina sulla Hollywood Walk of Fame di fronte ad un’apparizione di John Lennon mentre canta Imagine, si pente di tutti i suoi peccati, veste un saio francescano e inizia ad adoperarsi per la salvezza del pianeta a fianco di Leonardo Di Caprio. Love è il nome della nuova malcapitata e si, probabilmente l’ironia di questo nome è stata considerata un gran colpo di genio, in sede di ideazione. Ma non è qui che la mente creativa dietro quest’originale Netflix si è espressa al massimo del suo estro. Questa volta però, diamo a Cesare quel che è di Cesare, si tratta di un personaggio decisamente più interessante e sfaccettato dell’insignificante Gwenevir Beck. In effetti, il miglior pregio di questa seconda stagione è sicuramente una maggiore attenzione alla caratterizzazione psicologica di tutti i suoi personaggi, primo fra tutti, dello stesso Joe. Il suo dialogo interiore e quindi con il pubblico è più serrato che mai e frequenti flashback ci portano ad esplorare il suo passato, con l’intento primo di spiegare l’origine del male dentro il protagonista. Pubblicità progresso: killer non si nasce, si diventa. Già nella prima stagione era percepibile il velato (ma neanche troppo) e assai discutibile (volendo ricorrere a eufemismi) intento di portare lo spettatore a empatizzare con il folle stalker assassino. In questa seconda stagione, non solo si toglie il velo, ci si spoglia proprio (ma a finestre aperte al piano terra, come faceva Beck), arrivando fino a mettere Joe nella posizione di dare, a terzi del pazzo. E a ragione. Rendiamoci conto.
Come accada non lo sveliamo di certo, non potremmo mai togliere allo spettatore la soddisfazione di un sonoro “No Maria,io esco!”, con reale e melodrammatica uscita da Netflix per poi risintonizzarsi inesorabilmente dopo poche ore per scoprire cosa ancora ha da avvenire. Perché una cosa è certa: in You, al peggio non c’è mai fine. E dà dipendenza. Devi sapere. Nonostante tutto. I primi episodi sembrano ricalcare il precedente format: pedinamenti, organizzazione meticolosa di apparenti casualità; una quindicenne sveglia ma priva di genitori di cui prendersi cura come a New York cercava di prendersi cura del piccolo Paco, simbolo di quella dualità che fa di Joe un personaggio televisivamente interessante; la vittima prescelta che pensa di aver incontrato il principe azzurro a cavallo di un my little pony… Ma presto la sceneggiatura si impenna e compie acrobazie nel regno dell’assurdo, gli sceneggiatori di Beautiful prendono pagine e pagine di appunti, si aprono parentesi splatter e si raggiungono vette di trash che solo Pretty Little Liars aveva osato esplorare. E poi… Il Gran Finale. Appuntamento alla terza serie. Perché no, non è finita. Ma intanto Netflix ci regala la seconda stagione di Sex Education per riprenderci. Linea alla regia. Voto: 4,5
di Salvatore Amoroso
La recensione di Tolo Tolo: il nuovo film di e con Checco Zalone, che parla di immigrati, è molto più diretto e coraggioso degli altri. ![]()
Data di uscita: 1 Gennaio 2020
Genere: Commedia Anno: 2020 Regia: Luca Pasquale Medici Attori: Luca Pasquale Medici(Pierfrancesco "Checco" Zalone); Souleymane Sylla(Oumar); Manda Touré(Idjaba); Nassor Said Birya(Doudou) Sceneggiatura: Luca Pasquale Medici, Paolo Virzì Fotografia: Fabio Zamarion Montaggio: Pietro Morana Musiche: Checco Zalone con Antonio Iammarino e Giuseppe Saponari Produzione: Medusa Film, Taodue Distribuzione: Medusa Film Paese: Italia Durata: 90 min.
Tolo Tolo, quinto film del poliedrico artista pugliese ma primo senza Gennaro Nunziante al timone, è appena uscito ufficialmente nella sale del Bel Paese ma ha già fatto discutere con la canzone Immigrato. Ciononostante, l'obiettivo del film resta invariato: sfruttare la sorniona indole del suo protagonista per mettere in scena una storia che, tra problemi fiscali e immigrazione, si destreggia attraverso un viaggio dai contorni tanto contemporanei quanto pericolosi. Bissare i successi al botteghino delle produzioni precedenti, a distanza di quattro anni dall'ultima apparizione sul grande schermo, è l'altro traguardo che il duo Zalone-Virzì vuole raggiungere. L’autorevole Virzì ha dato il la al soggetto.
La trama che fa da sfondo alle peripezie dei protagonisti è semplice, ma non per questo banale. Dopo il fiasco del business Murgia&Sushi in quel di Spinazzola e una valanga di relativi debiti sul groppone appioppati senza pietà ai soci-famigliari pignorati e inviperiti, Checco Zalone si rifugia in Africa con la speranza di poter “continuare a sognare”. Qui, dopo una parentesi come cameriere presso un resort e dopo aver conosciuto il cinefilo Oumar, la bella Idjaba e Doudou, una piccola star d’ebano dai grandi occhi che ridono, la situazione precipita nuovamente, perché la guerra colpisce all’improvviso questo angolo di paradiso. Inizia quindi un viaggio che, tra la serietà delle vicende narrate e il consueto umorismo misto a cinismo con cui Checco si fa costantemente e con nonchalance beffe di ciò che lo circonda, riporterà lo sconclusionato gruppo nuovamente in Italia, concludendo così l’odissea. Di quando in quando il film diventa musical, lasciando a note e testi zaloniani il compito di aiutare lo spettatore nell’interpretazione di quanto accade su schermo.
Pur restando fedele al proprio modus operandi e al proprio "approccio al contrario" ai problemi che affliggono l’Italia (evidenziare i paradossi di una società attraverso un uomo in cui grottesco e becero sono talmente estremi da sembrare qualità), Zalone questa volta ha dato vita con Tolo Tolo a un racconto in cui si ride meno sguaiatamente rispetto al passato, ma che nasconde anche un’umanità differente. Questa sensibilità si lascia scorgere sotto il solito manto di gag che non risparmiano nessuno e le molte prese in giro verso un Occidente più attento a non restare mai privo di crema anti-rughe piuttosto che al prossimo, fregandosene delle conseguenze e mostrando quanto di Zalone ci sia nel film.
Nonostante le polemiche cui accennavamo poco sopra, ogni occasione in Tolo Tolo sembra semplicemente quella giusta per prendere per i fondelli qualcuno. L’esempio perfetto è il sempliciotto che, parallelamente agli eventi che travolgono Checco e i suoi amici, senza alcun merito o capacità intellettuale, scala le gerarchie politico-governative fino ad arrivare a ricoprire una carica di rilievo nella Commissione Europea. Durante i novanta minuti della proiezione non mancano inoltre citazioni e omaggi audio-visivi d'altri tempi, colpi di scena oppure momenti in cui si scimmiotta Mussolini o si paragona il fascismo alla candida, definendolo un batterio che ognuno di noi cela in sé e che, in determinate circostanze, può manifestarsi; a Checco gliel'ha attaccato lo zio, pare.
Tolo Tolo (che significa Solo Solo) è un film coraggioso, un tentativo apprezzabile di mostrare con leggerezza la fuga dalla guerra senza però dipingere il viaggio della speranza come una crociera all inclusive. Ci sono le carceri, le armi e i momenti pericolosi, ma pure battute, la bellezza di luoghi e personaggi esotici, un’Italia che ne esce dipinta meno bella di quello che si può pensare guardandola dalle sponde africane e un protagonista che, circondato da etnie diverse, catalizza ancora di più l’attenzione. Probabilmente, tra un sorriso e magari una riflessione, gli spettatori scopriranno una volta di più la versatilità di questo (a suo modo) eclettico artista, stavolta un po’ più schierato.
Immagini tratte da:
Locandina: MyMovies Immagine1: IlTempo Immagine2: LaStampa Immagine3: LaScimmiaPensa.com |
Details
Archivi
Maggio 2023
Categorie |