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27/3/2016

Recensione del film "Weekend"

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​di Salvatore Amoroso
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​Film: Weekend
Regia: Andrew Haigh
Paese di Produzione: Regno Unito
​Casa di Distribuzione: Teodora Film
Anno: 2011
Con: Tom Cullen, Chris New, Laura Freeman, Vauxhall Jermaine, Jonathan Race

Userò le stesse parole del regista, Andrew Haigh, per introdurvi questo piccolo capolavoro: ''questa è un'autentica, intima, onesta storia d'amore.'' Girato cinque anni prima del recente ''45 anni'' attraverso Weekend possiamo vedere e percepire l'evoluzione cinematografica del talentuoso cineasta britannico. Haigh apertamente gay, esordì come sceneggiatore e regista con il corto ''OIL''.
In carriera si è sempre occupato di tematiche legate all'universo omosessuale e proprio nel 2009 ottiene grazie a ''Greek Pete''(il suo primo lungometraggio) il premio della giuria all'Atlanta film Festival e l'Artistic Archievement all'Outfest di Los Angeles. 
Due anni dopo, nel 2011, esce il suo primo gioiello, quello che lo introdurrà nel cinema che conta, appunto Weekend. Il film racconta la bellissima e struggente storia d'amore, ma senza troppa melassa, tra due ragazzi omosessuali: un gay out, fiero e libero e uno un po più discreto e timoroso. Quest'ultimi conosciutosi in un locale gay decidono di passare appunto un lungo fine settimana insieme, dove a furia di sesso, racconti, droghe e alcol, finiranno per conoscersi meglio, fino ad entrare l'uno dentro l'anima dell'altro e ad innamorarsi perdutamente. 
Il film è un gran bel dialogo all'interno del mondo omosessuale, tra chi pensa sia tutto facile, tutto libero e tutto molto ''colorato'' e chi invece vuole portare avanti e difendere a spada tratta un concetto classico di famiglia, un bellissimo dibattito all'interno della contraddizione gay. Haigh parla di questo tema mostrando degli uomini assolutamente uomini, con tutte le loro fragilità e le loro paure. Ci si affeziona tantissimo ai due protagonisti: Russel, interpretato da Tom Cullen e Glen alias Chris New. La pellicola è molto naturale e cattura immediatamente lo spettatore per la sua autenticità e purezza, non ci sono drammi, non ci sono scene madri ma solo due persone che si amano e decidono di passare il resto delle loro vite insieme, senza ipocrisie e senza compromessi (visti in 45 anni, pellicola più matura dello stesso regista).
Il regista inglese si accorge dell'infinita potenza comunicativa del cinema, che essendo una grandissima forma d'arte, può essere un ottimo canale per veicolare certi contenuti psicologici che possano arrivare al pubblico per combattere anche i più radicati pregiudizi e le tante idee errate che hanno molte persone nella nostra società. 
Ottima interpretazioni dei due attori, girato bene e colmo d'immagini reali ma infinitamente belle e profonde, con primi piani che ti portano dentro i bellissimi sguardi pieni di dolcezza dei due protagonisti, Weekend vi conquisterà e gli spettatori finiranno per innamorarsi dell'innamoramento dei due ragazzi.
Infine vorrei aggiungere che con molto piacere (ne sono entusiasta) il film ha ottenuto ottimi incassi al botteghino italiano, nonostante le aspre critiche della C.E.I.(Conferenza Episcopale Italiana), che lo aveva etichettato come ''scabroso'' e ''diseducativo''. Difficile capire come si possa attaccare un film diretto e scritto con così tanta maestria e delicatezza, che invita nella maniera più semplice le persone ad amarsi a prescindere dalla loro razza, dal sesso o dall'orientamento religioso.
IlTermopolio vi invita caldamente a vederlo, rigorosamente in sala e nel frattempo vi saluta e vi da appuntamento al prossimo film, un grande abbraccio e viva il cinema di qualità.

Immagine tratta da: 
locandina, da Wikipedia inglese, By Source, Fair use, voce "Weekend
 (2011 film)"

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20/3/2016

Recensione del film "Room"

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​di Enrico Esposito
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​Film: Room
Regia: Lenny Abrahamson
Paese di Produzione: Canada, Irlanda
​Casa di Distribuzione: Universal
Anno: 2015

Room è uno di quei film che ti lascia basito senza darti alcun avviso. E ricorrendo ad armi differenti attraverso le quali si riproduce la sua solidità di fondo.
​Il suo regista, l'irlandese Lenny Abrahamson già autore dell'apprezzata commedia dissacrante "Frank" del 2013, ha portato a compimento una produzione indipendente lavorando gomito a gomito con la produttrice Emma Donoughe, anche sceneggiatrice dal momento che la storia principale viene tratta dal suo romanzo omonimo del 2010. Una minuscola stanza per l'appunto, o meglio un capanno degli attrezzi adibito ad immorale monolocale privo di finestre eccezion fatta per un lucernario, ospita la prima parte della pellicola durante la quale viene raccontata la storia terribile vissuta dalla 24enne Joey Newsom e dal figlio di appena 5 anni Jack. Da sette anni Joey é stata rapita e segregata tra le mura claustrofobiche di quest'autentica prigione dal suo vicino di casa, Old Nick (interpretato da Sean Bridgers) che la obbliga inoltre ogni sera ad avere rapporti sessuali da uno dei quali è nato infatti il piccolo Jack, perennemente confinato dentro la "Room", cresciuto lontano dalla luce del sole e dal fresco dell'aria sul volto. La pellicola introduce lo spettatore all'interno del dramma della prigionia sin dai titoli iniziali, tra le cui pieghe compaiono a squarci flash delle componenti più importanti della stanza che trasmettono una sensazione di oppressione e tremore direttamente tratte dal genere thriller. Il grigiore degli oggetti e dell'ambiente, la trascuratezza nell'aspetto di Joey e Jack, l'assenza quasi totale di musiche e suoni semplici dominano trionfalmente in una prima mezz'ora molto serrata. L'interpretazione magistrale di entrambi gli "abitanti della Room" , Jacob Tremblay nei panni di "Jack" da una parte e dall'altra Brie Larson "Joey" vincitrice di numerosissimi premi per questa performance tra cui l'Oscar come migliore attrice protagonista, ha la capacità di trascinare in prima persona l'osservatore nel fondo dell'incubo e del rischio sempre vivo di lasciarsi andare di cui è affetta pesantemente "Ma", pseudonimo adoperato da Jack per chiamare la madre. Seppur le capitino infatti alcuni momenti di crisi esasperata o al contrario di silenzio assordante, "Ma" conserva all'interno di se e soprattutto nel contatto con il piccolo una forza d'animo e lucidità straordinarie che le permettono non soltanto di sopravvivere ma anche di credere che non sia finita per sempre. 

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Una scena del film
Tuttavia la prospettiva maggiore dalla quale l'occhio della cinepresa indaga la storia appartiene all'anormale esperienza di Jack, il cui mondo è ridotto da sempre alla Room con l'armadio-rifugio per quando di notte si presenta il carceriere Old Nick, la televisione "scatola magica e dell'immaginazione", il lucernario unica via mediante la quale scrutare il cielo e quindi il mondo. Malgrado le condizioni fisiche disagiate e le limitazioni mentali provocate dalla prigionia, Jack riesce a sviluppare grazie all'esemplare educazione materna un'intelligenza spiccata e precoce che lo porta ad interrogarsi sulla realtà da lui neanche sfiorata. Sarà lui parallelamente all'evoluzione della vicenda a diventare adulto prima del tempo, a tirare fuori "Ma" dal baratro, a dimenticare non senza difficoltà la sua Room.
​Esattamente come nel libro, Emma Donoughe sceglie il punto di vista più curioso e difficile da ipotizzare ancor prima che da costruire, proseguendo nell'indagine ispirata dal caso Fritzl, una delle pagine più incresciose della cronaca nera a cavallo tra anni 80 e 2000. Stiamo parlando dei 24 anni di interminabili violenze che la diciasettenne Elisabeth Fritzl subì ad opera del padre-orco Josef all'interno della cantina della loro abitazione nella cittadina austriaca di Andecken. Tra le disumane sevizie propinate dall'orco vi furono innumerevoli rapporti sessuali incestuosi che portarono alla nascita di 7 figli, l' ultimo dei quali Felix dato alla luce e vissuto nei suoi primi anni senza mai lasciare la Room al pari di Jack.
Immagini tratte da:
- Locandina, foto di autore
- Foto n.2 ripresa da cinefilos.it


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13/3/2016

Recensione de "Lo chiamavano Jeeg Robot"

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​di Salvatore Amoroso
Ma oltre ai cinepanettoni e alle ''commedie impegnate''(chiamiamole così), l'Italia ha ancora qualcosa da raccontare per quanto riguarda il cinema? Vi rispondo con immensa gioia di si e che bisogna ringraziare il giovane Gabriele Mainetti, regista del piccolo gioiello: ''Lo chiamavano Jeeg Robot''.
In qualche modo Mainetti insieme allo sceneggiatore Nicola Guaglione e al fumettista bolognese Menotti accetta una sfida ardua e per molti già persa in partenza, ovvero rispondere al filone super-hero-comics americano con un film di genere ma fatto all'italiana. Ricordate la famosa t-shirt di Madonna: ''Italians do it better''? È assolutamente vero! quando vogliamo tiriamo fuori dal cilindro numeri che nemmeno l'imponente cinema U.S.A. si sogna. Di solito quando cerchi di contrastare le forti produzioni hollywoodiane si rischia o di fare un disastro o una goffa imitazione sbiadita, invece nonostante i piccoli mezzi e i limitati fondi, questo film riesce a essere unico ed estremamente originale nel suo genere. Già genere, proprio la parola che l'industria cinematografica italiana sta cercando da anni ma che forse finalmente ha trovato con una nuova, fresca, vitale opera prima, che potrebbe essere l'inizio di un grande filone.
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La pellicola racconta molto dell'Italia di oggi e fotografa Roma molto meglio rispetto alla visione della città di Sorrentino nella ''Grande Bellezza''. Il regista ambienta il tutto nella frazione romana di Tor bella Monaca. Qui vive il personaggio protagonista, Enzo, interpretato da un'impeccabile Claudio Santamaria, un ladruncolo che ha smarrito la fiducia nel mondo, odia tutti, vive isolato e sopravvive di piccoli furti. Fino a quando per un affare di droga andato male la sua vita non s'incrocia con quella di una ragazzotta borgatara dagli occhi e dal ''core'' grandissimi, interpretata dalla sorprendente Ilenia Pastorelli, che rivede nel suo vicino di casa l'eroe dei suoi sogni.
Il regista attraverso una storia che ci scalda il cuore e che fa leva prevalentemente sull'emozioni riesce in maniera armoniosa a dar vita a qualcosa di meraviglioso, rimbalzando tra argomenti come la mala criminale, i super poteri e una struggente storia d'amore. Assoluta sorpresa all'ultimo Festival di Roma,(festa del Cinema) Lo chiamavano Jeeg Robot è senza alcun dubbio il vero capolavoro italiano dell'anno! imperdibile, innovativo e con un mix ineguagliabile di romanticismo, azione, horror e Pulp, che vi terrà incollati alla poltrona. Vi lascio con la frase del villain già cult, interpretato dal sempre più acclamato Luca Marinelli, che sogna le cose in grande, però in una visione piuttosto criminale: ''aho! ma te lo immagini du fiji de na super mignotta che se pijano Roma?''. IlTermopolio vi invita a portare i parenti, le amanti, i colleghi, gli eterni sognatori, gli amici con voi ad andarlo a vedere al Cinema! un saluto e a presto con il prossimo film. 
Immagine tratta da: Gamesurf

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