di Vanessa Varini
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Titolo: The Mandalorian
Paese: Stati Uniti d'America Anno: 2019 Ideatore: Jon Favreau Soggetto: George Lucas (creatore di Guerre stellari) Regia: Dave Filoni, Rick Famuyiwa, Deborah Chow, Bryce Dallas Howard, Taika Waititi Genere: azione, avventura, fantascienza Stagione: 1 Episodi: 8 Durata: 31-46 min (episodio) Fotografia: Greig Fraser, Barry Idoine Musiche: Ludwig Göransson Scenografia: Andrew L. Jones Costumi: Joseph Porro Produttore esecutivo: Jon Favreau, Dave Filoni, Kathleen Kennedy Cast: Din Djarin il Mandaloriano (Pedro Pascal); Il Cliente (Werner Herzog); Kuiil (Nick Nolte); Carasynthia "Cara" Dune (Gina Carano)
Martedì 24 marzo è arrivata in Italia la piattaforma streaming di video on demand Disney+. Tra le tante novità del catalogo c'è "The Mandalorian", la serie tv che si svolge nell'universo narrativo di "Star Wars" prodotta e ideata da Jon Favreau (regista dei primi due "Iron Man" e dei live action del "Libro della giungla" e del "Re Leone"). I primi due episodi sono disponibili dal 24 marzo, mentre il terzo episodio é stato rilasciato venerdì 27 marzo. Italia 1, invece, in anteprima, ha trasmesso domenica 22 marzo in seconda serata, alle 23:40, il primo episodio intitolato "Capitolo 1: Il Mandaloriano".
Il telefilm é ambientato cinque anni dopo la caduta dell’Impero del film "Il Ritorno dello Jedi" e prima della comparsa del Primo Ordine de "Il Risveglio della Forza". Nella galassia un guerriero pistolero dal carattere solitario di nome Din Djarin soprannominato Mando (Pietro Pascal), che non si toglie mai la maschera, vaga per i lontani confini dello spazio guadagnandosi da vivere come cacciatore di taglie. Così un ex-ufficiale dell’Impero, ll Cliente, lo incarica di catturare una misteriosa creatura di cinquant'anni e in cambio lui gli offrirà una grande ricompensa. Mando trova la creatura ma quando scopre che è il dolce Baby Yoda, un Bambino (The Child) verde, dalle grandi orecchie, della stessa specie del Maestro Jedi Yoda e che possiede abilità simili alla Forza, decide di proteggerlo.
I due nei prossimi episodi (otto in tutto, della durata di trenta minuti ciascuno e diretti da vari registi come Taika Waititi, premio Oscar per la sceneggiatura non originale di "Jojo Rabbit" e Bryce Dallas Howard) si ritroveranno a fuggire dai pericoli e a svolgere varie missioni per sopravvivere.
"The Mandalorian" è caratterizzato da una trama semplice (incentrata sul bene che combatte il male), dialoghi ridotti ma non mancano alcuni momenti divertenti, scene d'azione spettacolari e uno stile cinematografico che mescola liberamente western e fantascienza come nei film "Cowboys and Aliens" (diretto proprio da Jon Favreau) e "Solo: A Star Wars Story".
Se volete continuare il viaggio in una galassia lontana lontana nel mondo di "The Mandalorian" non perdete i restanti episodi della serie che saranno caricati settimanalmente ogni venerdì su Disney+.
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La nostra recensione di Ultras, il film originale Netflix diretto da Francesco Lettieri che ci porta nel mondo delle tifoserie organizzate, in catalogo dal 20 Marzo.
di Salvatore Amoroso
Lo si capisce subito che Ultras non è un film sul calcio. Il campo (il San Paolo di Napoli, nello specifico), non è importante. Anzi, è un pretesto: il ripiego perfetto per un’ideale che intreccia generazioni, relazioni e gerarchie. Sono le tribune il cuore pulsante, l’altare su cui sacrificare anema e sangu. E così, Francesco Lettieri, dopo una lunga carriera come regista di videoclip, esordisce in lungometraggio che non intende fare sociologismo su un fenomeno italiano ed europeo: quei tifosi che vanno oltre il risultato (fanno i cori dando le spalle alla partita, giusto per fare un esempio) per sentirsi invece parte attiva di qualcosa che somigli ad una tribù, ad un gruppo, ad una famiglia. Così, Ultras, che è stato in sala per tre giorni (9,10, 11 marzo) e poi su Netflix ( disponibile sulla piattaforma dal 20 marzo), come fosse una canzone neomelodica, mischia l’eccessivo al poetico: colori, musica e cinema dal grande respiro e dalla grande claustrofobia. In fondo, è la sensazione che prova il protagonista della storia, Sandro (Aniello Arena) che a cinquant’anni è ancora capo degli Apache, anche se allo stadio non può andare per un D.A.SPO. da siglare. Al posto suo, una nuova generazione di ultras: più impulsivi, più arroganti, più affamati. Ma soprattutto più giovani. Allora, Sandro, l’ultimo dei Moicani (partenopei, si intende) si trova tirato in mezzo: la famiglia (dal sangue misto) da una parte, oppure l’amore di Terry (Antonia Truppo) dall’altra, perché magari il tempo per certe cose è passato, e la domenica magari è meglio andare a pranzo sotto il sole di Ischia. E nel film di Lettieri, è preponderante il lato umano: l’azione, nel senso stretto del termine, fa solo muovere i personaggi, costantemente in bilico tra una carezza e un’ingiustificabile propensione alla violenza. Moto ondoso che dovrebbe portarli (il condizionale è obbligatorio) a sentirsi portatori e rappresentati di una cultura, di una città. Sentendo una viscerale esigenza di sottostare ad una bandiera o ad una sciarpa logora, da tirare su quando c’è da impugnare la spranga. Il calcio, come detto, non c’entra niente: solo le nuove leve vorrebbero lo scudetto del Napoli, agli altri basta scendere sul campo di battaglia, sfogarsi, andare in guerra. Come fossero parte unica di un esercito di reietti, che rifiutano le regole civili, sociali e moderne. Ma, oltre alla teoria, la pratica cinematografica di Ultras è, nel senso più stretto del termine, spettacolare e molto cinematografica: non è un caso se Lettieri punti alla sospensione assoluta di qualsiasi appiglio spaziotemporale servendosi dei frequenti campi lunghi dall’alto, di chiara ispirazione garroniana. Le notti si intrecciano con le mattine in una progressione indistinta, scandita solo dal proseguire delle giornate di un campionato di cui non vedremo mai neanche un singolo fotogramma, gli spostamenti sono tutti istantanei tanto che le andate e i ritorni da Firenze o da Roma sembrano non comportare alcun reale allontanamento o trasferta. Quando davanti al panorama della città i ragazzini connetteranno Napoli al mondo con il significativo dialogo: “se vinciamo davvero crolla Napoli”, “no, crolla il mondo intero”), è perché davanti a loro in quell’istante si stagliano i confini conosciuti di tutto il loro universo, abbracciato dal Vesuvio come unico orizzonte possibile. Striscioni, cori, tatuaggi, petti nudi, l’ossessione per la religione. C’è epica, c’è romanticismo e c’è malinconia. Lo sguardo di Lettieri non giudica mai, né si fa cronaca giornalistica: piuttosto lascia suonare la musica di Liberato (straordinaria We Come From Napoli sui titoli di coda, composta insieme a Robert Del Naja dei Massive Attack), che accompagna le gesta tragiche, disperate e disgraziate di un gruppo di uomini disposti a sacrificare tutto per qualcosa che, in fondo, non comprendono bene nemmeno loro.
Immagini tratte da:
Locandina: MyMovies Immagine1: LaRepubblica Immagine2: Cinematographe.it Immagine3: Corriere dello Sport.it Di Federica Gaspari
In un momento estremamente complesso a livello sociale e psicologico, concetti come solidarietà, senso civico e responsabilità sono tornati prepotentemente al centro di ogni conversazione. Quotidiani, telegiornali e altri mezzi di informazione, giorno dopo giorno, ritraggono tutte le sfumature delle possibili reazioni della comunità davanti a un’emergenza, un’insormontabile difficoltà. Dall’egoista inconsapevole all’altruista fuori controllo: ogni comportamento, non solo i più assurdi, spesso sembra essere frutto della fervida immaginazione di un audace sceneggiatore. La fantasia, tuttavia, è più concreta di quello che si potrebbe pensare. In questo clima caotico e intimorito, Netflix inserisce nel suo catalogo Il buco, racconto fantascientifico con sfumature horror dal tempismo a dir poco inquietante. Con il titolo originale El Hoyo, questo film del regista spagnolo Galder Gatzelu-Urrutia ha raccolto consensi e reazioni sconvolte in alcuni maggiori festival di cinema indipendente e di genere: dal Toronto Film Festival al Sitges, fino al Torino Film Festival dove ha ottenuto il premio speciale della scuola Holden. Il motivo di questo successo alimentato ora dal passaparola? La scelta di simboli e immagini semplici che non lasciano scampo. “Ci sono tre tipi di persone: quelli di sopra, quelli di sotto e quelli che cadono.” In un futuro imprecisato, Goreng (Ivan Massague) si risveglia in quella che sembra essere una prigione con una peculiare struttura verticale. L’uomo condivide con il lugubre e anziano Trimagasi (Zorion Eguileor) uno dei livelli della “fossa”, un edificio dall’atmosfera claustrofobica diviso su più livelli che determinano la spartizione giornaliera del cibo che avviene attraverso un meccanismo a discesa che distribuisce progressivamente gli avanzi degli inquilini del piano superiore. In un meccanismo consolidato, come si possono rompere delle dinamiche radicate con un messaggio di umanità? Gaztelu-Urrutia, con l’aiuto del tocco surreale della fotografia di Jon D. Dominguez, riesce a catturare l’attenzione anche dello spettatore più distratto sin dalla prima inquadratura riuscendo a costruire un legame che va oltre la semplice curiosità per un originale spunto narrativo. Con toni da sofisticata fiaba dark e con brutale efficacia, il film inghiottisce letteralmente il suo pubblico, trascinandolo in un turbinio di follia e puro orrore. Cosa accade nel momento in cui, ai livelli più bassi di questa società verticale a senso unico, non arriva alcuna porzione del pasto? Gli istinti più violenti si accendono portando un individuo a compiere gesti spietati dettati da sopravvivenza e da pazzia. Le giustificazioni per cui è la società a rendere il singolo crudele non bastano. Cos’è, infatti, questa collettività se non la somma dei contributi di ogni inquilino della fossa? In un continuo gioco di allucinazioni, buone intenzioni in frantumi e illusioni disperate, il nome di Don Chisciotte non esita ad affiorare. Un barlume di speranza, la certezza di poter credere nel prossimo, può tuttavia rendere credibile un piano che sulla carta potrebbe sembrare l’ennesima lotta contro mulini a vento.
Nonostante alcune svolte didascaliche, la curatissima ma mai pedante sceneggiatura tratteggia con lucida e cruda freddezza una società paurosamente simile a quella reale, in cui assenza di empatia e necessità di additare la colpa dei propri atteggiamenti a terzi sono veri motori di una vita in nome di cui si sacrifica ogni grammo di umanità. La penna di Desola e Rivero e le interpretazioni viscerali di Goreng e di Eguileor – attore iberico che ricorda nemmeno troppo vagamente Anthony Hopkins con la sua inquietudine – stringono in una morsa l’incosciente spettatore convinto di trovarsi al cospetto di un banale prodotto d’intrattenimento. Il finale, in netto contratto con la limpida trasparenza dei simboli dell’intera narrazione, lascia più domande – dettate dalla volontà di vedere una luce in fondo alla fossa – che risposte. Gli interrogativi, non i punti fermi, sono, dopotutto, il modo migliore per avviare un cambiamento necessario. Immagini tratte da: www.netflix.com www.torinofilmfest.org di Federica Gaspari
Il clima che segna il primo episodio è molto simile all’atmosfera che caratterizza la produzione di questa nuova stagione. Al termine delle precedenti puntate, infatti, lo show si avviava con determinazione verso un punto di svolta: con l’abbandono del parco e delle location squisitamente da western moderno si sarebbe inevitabilmente aperto uno scenario totalmente inedito. Il materiale di partenza, il film del 1973 diretto da Michael Crichton, non sembrava dare suggerimenti sulle future mosse della Delos company, azienda amministratrice del parco, ma, soprattutto, degli showrunner Jonathan Nolan e Lisa Joy. Per molto tempo alcuni fan erano addirittura convinti che gli ultimi episodi segnati dalla fuga dell’host Dolores e dalle enigmatiche visioni fuori dal parco avrebbero rappresentato la perfetta conclusione della serie, un epilogo in grado di non tradire la sua natura lasciando domande ed enigmi stimolanti. HBO e i produttori – tra cui spicca il nome di J.J. Abrams – hanno però immaginato un futuro per Westworld, un nuovo capitolo della sua storia che ha però il sapore di una rinascita. La premiere della terza stagione, infatti, è quasi totalmente priva di riferimenti al suo passato. La sensazione che segue la visione è quella di assistere a un reboot o, mantenendo il gergo tecnico dei programmatori degli host, un completo reset della storia e delle dinamiche che ne orchestrano ogni svolta. In un futuro elegante e sofisticato che ha i grattacieli di Singapore, le architetture di Valencia e le luci di Londra, Dolores (Evan Rachel Wood) mette in atto la sua vendetta sanguinosa nei confronti dei vecchi ospiti del parco. Tuttavia, il più vecchio host funzionante di Westworld sembra essere alle prese con un intrigo indecifrabile. Difficile, però, credere che questa beniamina del pubblico abbia scelto di avventurarsi in un mondo a lei sconosciuto senza alcun piano preciso. I prossimi episodi, senza alcun dubbio, sveleranno altre sue mosse. Nella prima puntata di questa terza stagione trovano spazio anche i nuovi ingressi nel cast. In particolare, Aaron Paul, noto al grande pubblico per il suo ruolo nella serie cult Breaking Bad, interpreta Caleb, un nuovo personaggio dal passato segnato da duri traumi e con un presente rigidamente inquadrato da un’insormontabile routine. Spetta a lui portare al centro della scena, per la prima volta dall’inizio dello show, il lato umano della serie. Come sottolineato anche dagli sceneggiatori, sarà proprio questo il fulcro dell’intera stagione che, secondo le prime teorie condivise dai fan sul web, potrebbe sfruttare echi di Futureworld – 2000 anni nel futuro, sfortunato sequel uscito solamente tre anni dopo il film originale di Michael Crichton. Cyborg fuori controllo che sostituiscono personalità chiave della società umana? Al momento si possono solamente studiare fantasiose teorie sui possibili sviluppi delle prossime otto puntate. L’altro grande ingresso nel cast di questa stagione, un attore del calibro di Vincent Cassell, sicuramente avrà un ruolo importante – considerata la segretezza con cui è stato gestito il suo personaggio – nelle strategie narrative di Nolan e Joy. L’appuntamento, per chi non si preparerà con dosi di caffeina alla lunga nottata della diretta statunitense, è per domani sera, quando il secondo episodio della terza stagione di Westworld andrà in onda su Sky Atlantic. Immagini tratte da: www.hbo.com
di Salvatore Amoroso
Ispirato al libro “Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game” di Michael Lewis che tratta la vera storia di una squadra di baseball, gli Oakland Athletics, "L’arte di vincere" è uno dei migliori film d’argomento sportivo che riesce a coniugare una precisa ricostruzione storica con l’analisi di certe trame esistenziali. ![]()
Genere: drammatico
Anno: 2011 Regia: Bennet Miller Attori: Brad Pitt (Billy Beane), Jonah Hill (Peter Brand), Philip Seymour Hoffman (Art Howe), Robin Wright (Sharon), Chris Pratt (Scott Hatteberg), Stephen Bishop (David Justice), Reed Diamond (Mark Shapiro) Sceneggiatura: Aaron Sorkin, Steven Zaillian Fotografia: Wally Pfister Musiche: Mychael Danna Montaggio: Christopher Tellefsen Distribuzione: Sony Pictures Italia
In un periodo come questo dove tutte le nostre certezze sono state azzerate c’è bisogno di storie come ‘’Moneyball’’. Molti lo scambieranno solamente per un film "sportivo", una pellicola sul baseball che arriva dagli Usa, di fatto irricevibile da qualsiasi altro pubblico al di fuori della patria. Non è così. Il saper perdere può insegnarci tanto, dalla sconfitta possiamo ottenere il meglio di noi stessi. La sequenza della partita decisiva, che qui è spezzata in un anti climax, fugace apparizione di ombre, osservata da un costernato Brad Pitt all'interno degli spogliatoi è una delle cose più toccanti che potete ammirare nel cinema contemporaneo. "Moneyball" è un'opera speculare e gemella al "The Social Network" di Fincher, non solo perché firmata da uno degli sceneggiatori (Aaron Sorkin) di quel film, ma poiché ne prosegue la disamina, complessa e pessimista, sulle tante sfaccettature del Sogno americano, sul progresso e l'avanzare del capitalismo. "Come si fa a non essere romantici con il baseball?" si chiede uno dei protagonisti del film. Eppure la pellicola di Bennet Miller (regista dell'ottimo "Truman Capote - A Sangue Freddo") pare interrogarsi su un presente in cui il romanticismo e i sentimenti hanno abbandonato lo sport così come ogni altro ambito dell'agire umano.
"L'arte di vincere" dice il titolo italiano, ma forse sarebbe più corretto "La scienza di vincere", perché è proprio così che il general manager Billy Beane interpretato da un magistrale Brad Pitt, aiutato dallo scaltro analista Peter Brand ovvero Jonah Hill, in uno dei ruoli più sorprendenti della sua carriera, cerca di mettere in piedi la sua squadra "perfetta". Con l'ausilio di un software per computer che calcola la percentuale di basi raggiunte da tutti i giocatori della Major League, Beane riesce a massimizzare le ristrettezze del budget della propria squadra, scandalosamente inferiore a quello di altri team, utilizzando giocatori aprioristicamente scartati e sottovalutati da altri per deficit fisici o comportamentali. E questo nonostante opposizioni e sberleffi di colleghi e amici. "Dobbiamo comprare vittorie, non giocatori" gli consiglia il giovane statista, e difatti Beane ha l'intuizione giusta, comprende che il gioco può essere frutto di un calcolo, di una previsione matematica. Nell'agire del GM degli Oakland's Athletics si nascondono i germi di un nuovo modo di intendere lo sport e il futuro, così come in quello di Zuckerberg e i suoi amici nerd, forse inavvertitamente e involontariamente, si profilava una nuova concezione del capitalismo globale. "Adattarsi o morire", come sentenzia Beane ad un certo punto. E le altre squadre hanno seguito il suo esempio a ruota.
Il film di Miller sfugge al contempo ai classici meccanismi del biopic, concentrandosi pochissimo sul lato umano e "privato" dei suoi protagonisti. Beane come il suo aiutante Brand sembrano vivere solo per il loro lavoro, costantemente impegnati sul campo da gioco o in angusti uffici trattando la compravendita di nuovi giocatori con altre squadre. Non ci è dato sapere molto sulla loro vita o il loro passato. Beane ha un divorzio alle spalle e una figlia che vede qualche volta, ma il suo volto rassegnato e i suoi occhi esplicano più di tante immagini. "Moneyball" è un racconto di formazione adulto e privo di sensazionalismi, in cui si impara a convivere con sé stessi e con il fallimento. Il fallimento nei propri affetti, nella propria carriera da battitore, il fallimento nel vedere la propria squadra perdere poco dopo aver assaporato il gusto della vittoria. "Sei un perdente papà" canta la figlia a Billy nel finale. Ma noi, come il protagonista, siamo consapevoli che la Storia e il presente, si sono formati anche grazie alle intuizioni di "perdenti" come Beane o nerd antipatici come Zuckerberg.
Immagini tratte da:
Locandina: MyMovies Immagine1: ScreenWeek.it Immagine2: ComingSoon.it Immagine3: ComingSoon.it Di Federica Gaspari
La nostalgia dei tempi passati nel mondo dell’intrattenimento non è più un semplice trend: è un vero e proprio dato di fatto. Serie come Stranger Things e The OA e film come Super 8 e Ready Player One hanno consolidato il cambiamento di una cultura sul piccolo e il grande schermo rivolta verso i classici del passato e, in particolare, in direzione degli anni Ottanta e Novanta. Un colosso dei servizi streaming come Netflix ha scelto di fare di questa retro-nostalgia il tratto distintivo delle sue produzioni più apprezzate e attese. L’ingrediente fondamentale della ricetta di queste produzioni è l’attenzione rivolta ai giovani outsiders, assoluti protagonisti celebrati in particolare con il tripudio di pubblico e critica The End of this f*****g World. Proprio gli autori di questa serie britannica si celano dietro all’ideazione e produzione di I Am Not Okay with This, tenn “dramedy” tratto dall’omonima graphic novel di Charles Forsman, già autore del fumetto che ha ispirato l’altro titolo Netflix citato in precedenza. Sydney Novak (Sophia Lillis) è una diciassettenne fuori dagli schemi che vive insieme al fratellino Liam (Aidan Wojtak-Hissong) e alla madre Maggie (Kathleen Rose Perkins). Nel pieno dell’adolescenza, questa ragazzina trascorre le giornate insieme all’amica Dina (Sofia Bryant), giovane piena di energia, esatta antitesi della protagonista. Nel vivo di una quotidianità di alti e bassi, Sydney conoscerà nuovi strani amici come il vicino di casa Stan (Wyatt Oleff) e inizierà a scoprire il suo potenziale decisamente inaspettato… La promozione martellante di casa Netflix funziona senza troppi sforzi. È ormai chiaro che per attirare il pubblico di appassionati è necessario inserire semplicemente un titolo magico nella tagline pubblicitaria: Stranger Things. La creatura dei fratelli Duffer, unica vera produzione del colosso in grado di sostenere ben tre stagioni, può contare su una reputazione ineccepibile oltre che su un seguito di fedelissimi. I Am Not Okay with This, mescolando le più classiche tematiche da coming of age con un pizzico di fantascienza, ripropone una formula che ha ben poco di originale. Proprio per questo, buona parte della riuscita della serie tv è affidata al duo protagonista, che rinnova la collaborazione dopo il successo in sala di IT. Le interpretazioni di Sophia Lillis e, in particolare, dell’eccentrico co-protagonista Wyatt Oleff sono ammirevoli e l’intesa che si crea tra i due è il vero motore di una narrazione appassionante che, tuttavia, non trova la stessa efficacia quando uno dei due non è in scena. Due promettenti giovani talenti, però, non bastano se la cornice che li inquadra esaspera ogni aspetto. La ricerca di continui riferimenti al passato – VHS, vestiti, accostamenti di colore – distrae l’attenzione dalla storia, ricadendo anche in diverse contraddizioni. Il buon materiale di partenza, in grado di affrontare gli alti e bassi dell’adolescenza con un’interessante componente paranormale, viene spiacevolmente adombrato da una confezione pretenziosa e complessa, ossessionata da un’estetica di riferimenti più o meno urlati e vezzi pretestuosi da cinema indie. Il risultato è quindi una serie che intrattiene ma che con i suoi problemi di forma e con la scelta misteriosa di articolarsi su episodi di venti minuti – non senza sequenze riempitive – lascia molto amaro in bocca. Il finale sospeso che apre a grandi possibilità per la sua vocazione fantascientifica in stile Legion in una (molto) probabile seconda stagione. Si spera, però, che alcuni vizi rimangano brutti ricordi di questa prima avventura al fianco di Sydney Novak. Immagini tratte da: www.netflix.com www.nytimes.com di Federica Gaspari ![]() Data di uscita: 5 marzo 2020 Genere: drammatico, sentimentale Anno: 2019 Regia: Melina Matsoukas Attori: Daniel Kaluuya, Jodie Turner-Smith, Bokeem Woodbine, Chloe Sevigny, Flea, Sturgill Simpson, Indya Moore Sceneggiatura: Lena Waithe Fotografia: Tat Radcliffe Montaggio: Pete Beaudreau Musiche: Devonté Hynes Produzione: 3BlackDot, Bron Creative, Makeready, De La Revolucion Films, Hillman Grad Productions Distribuzione: Universal Pictures Paese: Stati Uniti d’America Durata: 132 min La rappresentanza delle donne e delle minoranze etniche sul grande schermo è una questione molto delicata – non solo - nel mondo del cinema. Si tratta di un tema scottante che torna abitualmente ad accendersi ogni volta che vengono snocciolate statistiche relative a ruoli da protagonisti, registi e altre figure professionali coinvolte nel processo creativo cinematografico. L’urgenza di queste problematiche ha suggerito due strade molto diverse. La prima ripercorre schemi classici e collaudati che riscoprono figure iconiche di piccole comunità o minoranze attraverso bio-pic che, purtroppo, spesso non riescono a essere incisivi ricadendo in riflessioni banali e semplicistiche. Attraverso festival di cinema indipendente, invece, si fanno strada storie originali in grado di intrecciarsi con l’attualità e con necessità narrative che van ben oltre l’intrattenimento senza però dimenticare questa componente. All’ultima edizione del Torino Film Festival è stato presentato un gioiellino che racchiude in sé tutte le caratteristiche di questa rivoluzione brillante e consapevole del proprio potenziale. Queen & Slim di Melina Matsoukas fa tesoro degli insegnamenti dei più riusciti film dalle tematiche sociali degli ultimi anni e sviluppa una riflessione tutt’altro che banale sul significato della propria esistenza, dei propri gesti e sogni, dando voce non solo alla comunità e all’immaginario afro-americano ma a tutti i dimenticati e perseguitati. Queen (Jodie Turner-Smith), giovane avvocato difensore, è alle prese con un appuntamento di Tinder con Slim (Daniel Kaluuya), un ragazzo con cui visibilmente non riesce a trovare un’intesa. La serata sembra avviarsi verso una conclusione con Slim che riaccompagna a casa la ragazza quando, senza apparente motivo, l’auto su cui viaggiano i due protagonisti viene fermata da un poliziotto per un controllo. Le dinamiche di questo evento prenderanno una direzione tragicamente inaspettata, innescando una fuga drammatica che porterà Queen e Slim ad attraversare gli Stati Uniti in un’avventura di incontri, avvenimenti e rivelazioni. Con il suo debutto alla regia per il grande schermo, la regista non tradisce la sua voce e visione già ampiamente articolata grazie alla lunga collaborazione con Beyoncé culminata con il video-statement di Formation nel 2016, videoclip con cui la cantante si è riappropriata della propria identità e delle proprie origini. I temi cari alla Matsoukas ritornano in questo film attraverso la scrittura di Lena Waithe che con grande lucidità sviscera urgenze, odi e sogni della società americana avvolgendo la narrazione con un tono epico tutt’altro che fuori luogo. La cronaca statunitense, infatti, è segnata da notizie di scontri tra poliziotti e comunità afroamericana, divenuti ormai così radicati in un’assurda abitudine da risultare quasi eventi secondari con vittime dimenticate senza volto e storia. Cosa succederebbe se, mantenendo le variabili, cambiasse la formula narrativa che troppe volte si è ripetuta in anni recenti? Partendo proprio da questo interrogativo si sviluppo il viaggio epico e impegnato ma non per questo appesantito attraverso un paese di amici e nemici, di opportunisti e altruisti, e, soprattutto, simboli. “Can I be your legacy?”
In un presente in crisi rivolto verso un futuro in pericolo, le icone e la loro eredità diventano essenziali. Il termine inglese legacy, vero fulcro della sceneggiatura di questo imperdibile film, racchiude in se tutto il significato di una pellicola e di una riflessione, brillantemente interpretata da Kaluuya – già apprezzato in Get Out – e da Turner-Smith, che focalizza l’attenzione sull’importanza dell’eredità dei gesti, delle parole e dei pensieri. Un film prezioso che rischia di passare inosservato nelle sale in un periodo di straordinarie preoccupazioni. Immagini tratte da: https://www.torinofilmfest.org/it/
di Matelda Giachi
“L’arte era la sua voce”.
Così recita il promo di Volevo Nascondermi, il film di Giorgio Diritti che è stato presentato in concorso alla Berlinale questo febbraio. Diritti ci racconta la storia del pittore Antonio Ligabue, conosciuto per i colori sgargianti e la passione per gli animali selvatici. Una vita travagliata, fatta di povertà, disordini mentali e incapacità di comunicare. Finché un giorno non scopre una tavolozza di colori e pittura e scultura come mezzi di espressione. Un film biografico che cerca di esplorare tutti i lati della vita del pittore, saltando avanti e indietro nel tempo. Il film di per sé è imperfetto, dal coinvolgimento incostante; a volte sfiora la poesia, a volte invece è troppo freddo, e che vuole strafare con un finale scenografico laddove la semplicità poteva essere la chiave. E poi c’è Elio Germano. A decretare l’eccezionalità della sua performance ci ha già pensato la giuria della Berlinale, capitanata niente meno che da Jeremy Irons, che gli ha assegnato l’Orso d’Argento come miglior attore. Un premio che vale più di mille parole, perché, a Berlino, il talento vince sul glamour. Germano aveva ben poco su cui lavorare, le testimonianze che riguardano la vita di Ligabue non sono molte e così l’attore ha dovuto lavorare molto di costruzione propria. La sua è una recitazione a tutto tondo, fatta di parole, postura e mimica. Un artista, un poveraccio, un emarginato con problemi di linguaggio. Elio Germano non è mai sopra le righe, neanche quando il suo personaggio urla di rabbia o imita il verso della tigre. Quello che colpisce del soggetto, e che Germano ha saputo rendere così concreto da entrare nel cuore dello spettatore, è la sua voglia di esserci, di mordere la vita, nonostante i problemi, la sua condizione e la sua, assolutamente consapevole, bruttezza. Ligabue colleziona moto, vuole sposarsi, ha uno sguardo penetrante, deciso; ha un cuore che batte forte a dispetto di qualsiasi sopruso e, soprattutto, è consapevole di sé e del proprio valore di artista e lotta, come le tigri che dipinge, per farsi apprezzare e riconoscere tale valore. “Elio Germano è da Orso”, abbiamo pensato uscendo di sala. E così è stato. Il premio all’attore italiano è un premio al talento, all’impegno, all’arte. Dopo Marinelli a Venezia, e insieme alla vittoria dei fratelli D’Innocenzo per la sceneggiatura di Favolacce, un altro segnale forte e chiaro che il cinema italiano di qualità c’è e vuole, anche lui, farsi riconoscere. Voto: 7 di Federica Gaspari ![]() Paese: Stati Uniti Anno: 2020 Formato: serie TV Genere: drammatico, thriller Stagione: 1 Puntate: 10 Regia: Alfonso Gomez-Rejon, Wayne Yip, Nelson McCormick, Dennie Gordon, Millicent Shelton, Michael Uppendhal Sceneggiatura: David Weil, Nikki Toscano, Mark Bianculli, David J. Rosen, Zakiyyah Alexander, Eduardo Javier Canto, Ryan Maldonado Produzione: Monkeypaw Productions, Sonar Entertainment, Big Indie, Governor’s Court, Amazon Studios Cast: Logan Lerman, Al Pacino, Jerrika Hinton, Lena Olin, Saul Rubinek, Carol Kane, Josh Radnor La memoria e la riflessione sugli eventi più tragici del passato recente – e non solo – sono cardini di una società consapevole in grado di comprendere se stessa e le proprie dinamiche. Spesso i processi che rendono possibile questa presa di coscienza – mai scontata – avanzano grazie all’elaborazione di tematiche complesse nel mondo dell’intrattenimento. Non mancano, infatti, illustri produzioni sul piccolo e grande schermo che in tempi più e meno vicini hanno saputo trattare la storia dell’Olocausto con diversi livelli di efficacia. Alcuni titoli hanno scelto di avvicinarsi a questo difficile argomento con la vocazione o necessità della verità. Altri, invece, hanno preferito avventurarsi tra le sue pieghe immaginando storie e svolte alternative con personaggi reali o fittizi, affidandosi così all’esplosività di una narrazione d’impatto che non rinuncia alla sua origine di intrattenimento come coinvolgimento. L’ultima discussa produzione di Amazon Studios scegli tra mille polemiche la seconda strada senza mai ambire a ricercare la verità oppure a narrare eventi realmente accaduti. La serie Hunters, tuttavia, riesce a intrecciare comunque realtà e fantasia con abilità e grande sicurezza, regalando al pubblico di appassionati e non del piccolo schermo un prodotto estremamente interessante, capace di osare e rischiare fino alla fine. Lo show ideato da David Weil si articola in dieci episodi che seguono la storia di Jonah Heidelbaum (Logan Lerman), giovane ebreo rimasto orfano e privo di riferimenti nella caotica New York dei riottosi anni Settanta. L’incontro inaspettato con Meyer Hofferman (Al Pacino), un anziano misterioso amico della nonna di Jonah, mostrerà agli occhi del protagonista avvenimenti e segreti mai svelati che sono il motore di una terribile e cruda operazione senza esclusioni di colpi avviata al termine della Seconda Guerra Mondiale: la caccia ai nazisti nascosti negli Stati Uniti. Irriverente, tagliente e senza filtri: Hunters non ha paura di nascondere la sua natura. La narrazione si sviluppa a partire da più storie, racconti e personaggi reali ma rielabora il materiale di partenza con originalità e grande coraggio, senza paura di critiche e, soprattutto, senza avere la presunzione di raccontare la verità. Con questo obiettivo limpido e scevro da ogni tipo di ambiguità, lo show guidato da un cast eterogeneo, coeso e in gran forma sfrutta un tono tutt’altro che serioso. Sfondando ripetutamente la quarta parete, la serie riesce in breve tempo a creare un legame irresistibile con il suo pubblico. In questo modo riesce a reggere i contraccolpi nella seconda parte di una sceneggiatura a più mani grazie alla sua capacità narrativa e tematica di appropriarsi di un’estetica anni Settanta che deve molto all’immaginario pop e sociale del blaxploitation – genere dai risvolti che non sono mai stati un’esclusiva della rielaborazione tipicamente tarantiniana. Meglio, infatti, non dimenticare che dietro alla produzione si nasconde il nome di un grande cultore ed esperto del genere come Jordan Peele, artefice di grandi successi come Get Out e Noi. Le incertezze degli ultimi episodi, quindi, non intaccano uno show motivato e potente nonostante la sua vena d’intrattenimento. Il più grande pregio – un’arma a doppio taglio per molti critici e spettatori scettici davanti alla squadra di Al Pacino – è la scelta di non cercare compromessi, la volontà da premiare e non da reprimere di trovare una propria voce per raccontare una storia che andando fuori dagli schemi tratteggia riflessioni non banali sul ruolo della vendetta e la percezione di bene e male. Tutto questo è scomodo e spesso non mette a proprio agio. Chi, tuttavia, ha mai stabilito che una storia memorabile debba essere accomodante?
Immagini tratte da: www.imdb.com www.amazon.com di Vanessa Varini Il 3 aprile 2020 si svolgerà a Roma la 65ª edizione dei David di Donatello e la serata della premiazione, trasmessa in diretta in prima serata su Rai 1, sarà condotta da Carlo Conti. Tra i favoriti di quest’anno ci sono i film "Il Traditore" di Marco Bellocchio (18 nomination) che narra le vicende del criminale Tommaso Buscetta, primo pentito di mafia, interpretato da Pierfrancesco Favino, "Il Primo Re" di Matteo Rovere (15 nomination) una rivisitazione del mito di Romolo e Remo, interpretati rispettivamente da Alessio Lapice e Alessandro Borghi e "Pinocchio" di Matteo Garrone (15 nomination) basato sul romanzo per ragazzi Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi. Tutte queste pellicole si sfidano nella categoria Miglior Film insieme a "La paranza dei bambini" adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo di Roberto Saviano e "Martin Eden" tratto dall'omonimo romanzo del 1909 scritto da Jack London. Per il premio miglior regia sono candidati i registi che hanno diretto i film con maggior nomination. Nella categoria migliore attore protagonista, invece, sono candidati Toni Servillo per "5 è il numero perfetto" Alessandro Borghi per "Il primo re", Francesco Di Leva per "Il sindaco di rione Sanità", Pierfrancesco Favino per "Il traditore" e Luca Marinelli per "Martin Eden" mentre nella categoria migliore attrice protagonista si contendono il premio Valeria Bruni Tedeschi per "I villeggianti", Jasmine Trinca per "La dea fortuna", Isabella Ragonese per "Mio fratello rincorre i dinosauri", Linda Caridi per "Ricordi?", Lunetta Savino per "Rosa" e Valeria Golino per "Tutto il mio folle amore" che è anche candidata come migliore attrice non protagonista per "5 è il numero perfetto". Come migliore attore non protagonista spiccano le candidature di Roberto Benigni per "Pinocchio" dove interpreta il ruolo di Geppetto e quella di Stefano Accorsi per "Il campione". Intanto mercoledì 18 febbraio sono stati già distribuiti due premi: quello per la categoria Miglior Film Straniero assegnato al film coreano "Parasite", che ha già vinto la Palma d'oro alla 72ª edizione del Festival di Cannes e quattro premi Oscar tra cui quello come miglior film. e quello per il miglior cortometraggio assegnato ad "Inverno" di Giulio Mastromauro che racconta la storia di Timo, un piccolo giostraio greco che affronta un durissimo inverno con la sua famiglia. Secondo voi quest'anno chi vincerà i premi David di Donatello? Immagini tratte : https://www.lagazzettadellospettacolo.it/ https://www.ciakclub.it/ https://cdncnw.18tickets.it/ |
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Maggio 2023
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