Che cosa rende un film un Cult? Una regia memorabile, una sceneggiatura originale, la bravura di un gruppo di attori perfettamente immedesimati nei ruoli a loro richiesti? Oppure una colonna sonora da urlo in simbiosi eccellente con le immagini, una serie di battute e scenette strampalate difficili da cancellare dalla testa, se non addirittura la capacità da parte del film di trasformarsi in un fenomeno di massa e costume. Bene, nel 1998 Joel della Premiata Ditta "Fratelli Coen" è riuscito a comporre con "Il Grande Lebowski" un mosaico vibrante al quale appartiene buona parte di questi elementi al punto tale da assicurargli una popolarità clamorosa ed un'assenza nelle sale mai troppo lunga.
Reduci dal successo planetario di "Fargo" (1996) che valse loro la Palma d'Oro a Cannes, i Coen decisero di abbandonare le distese ghiacciate e provinciali del Minnesota per scendere di peso tra le strade soleggiate e affollate di una Los Angeles come corteggiata dalla cinepresa alla scoperta di una galleria di "tipi" fortemente diversi l'uno dall'altro se non spesse volte lontani anni luce l'uno dell'altro e volutamente contrapposti. Se il protagonista "The Dude" (termine che indica genericamente "l'individuo, il tizio" , ma tradotto arbitrariamente nella versione italiana con "Drugo") è un disoccupato pacifista che vive di soli White Russian e Bowling, mentre il suo omonimo Jeffrey Lebowski rappresenta l'emblema spiccicato dell'uomo d'affari statunitense miliardario, pragmatico, eroe della solidarietà e della Nazione dopo aver perso l'uso delle gambe nella Guerra in Corea. Se accanto ad un reduce schizzato del Vietnam che si spaccia per ebreo compaiono una pittrice femminista lunatica il cui unico reale interesse consiste nella gravidanza, e un trio di svitati "Nichilisti" che d'altro canto sono disposti a tutto pur di acchiapparsi un bel po' di quattrini, allora ci si rende facilmente conto di come i Fratelli Coen tendano in questa, come in altre loro opere, a portare sotto la luce dei riflettori personalità tirate a galla dai margini della società a stelle e strisce, dalle sale infoiate dei birilli ai villoni con piscina di Malibù.
Tanti Frankenstein, caratteristici a loro modo, si alternano nelle vesti di squinternati ma indimenticabili solisti che accompagnano il Drugo nella caotica ricerca della mogliettina playmate da copertina Playboy del Lebowski magnate cominciata perché nella sua vita tranquilla da nullafacente convinto, campione di pigrizia e meditazione zen e seguace del trotzkijsmo, viene a mancare il tappeto, una delle tre cose cui tiene seriamente oltre alla palla con i tre buchi e il suo cocktail preferito. Quando il suo omonimo famoso gli chiede se lui abbia un lavoro, il Drugo lo guarda attonito, come se stesse cadendo dalle nuvole al suono di quella parola. La trama centrale che lo vede protagonista di per sé non brilla particolarmente per scorrevolezza e sostanza, ma tutto ciò accade proprio secondo le intenzioni del regista che d'altronde è interessato a fornire una sequela di tanti piccoli bozzetti in cui si elevano tanti "soggettoni" artisticamente geniali, che fanno il verso al ritratto del cittadino americano medio, cattolico, razionale, appassionato di football e donuts.
Da sinistra a destra Jeff Bridges è "Il Drugo Jeffrey Lebowski", John Goodman alias "Walter Sobchak", Steve Buscemi "Donnie" e Julianne Moore nei panni di "Maude Lebowski".
Da sinistra a destra John Turturro è "Jesus", Peter Stormare, Flea e Torsten Voges interpretano "I Nichilisti",Philip Seymour Hoffman nelle vesti del "maggiordomo Brandt", e Sam Elliott "Lo Straniero" e voce narrante del film.
Resta molto difficile da dimenticare dopo averla vista anche solo la prima volta la scena cult in cui Walter, il miglior amico di Drugo reduce dal Vietnam, minaccia con la pistola un avversario durante una partita di bowling reo di aver commesso di una penalità e mettendolo in guardia che "Stai per entrare in una Valle di Lacrime". Così come non si può non apprezzare la presentazione di Jesus, l'indimenticabile giocatore di bowling messicano pervertito che esibisce un rituale tutto suo nell'approccio al gioco al ritmo di una bollente interpretazione latina di "Hotel California" da parte dei Gypsy Kings ("Il Grande Lebowski" possiede una colonna sonora di alto livello e variegatezza musicali, che spazia dal country dei Sons of the Pioneers e il folk di Bob Dylan a "Oye Como va" di Santana e al pop della classica "Just dropped in" di Mickey Newbury qui cantata da Kenny Rogers). Senza tralasciare il docile Donnie, l'amico ritardato di Walter e Drugo le cui incursioni fuori luogo danno vita a siparietti esilaranti, il laboratorio snob in cui Maude Lebowski catapultandosi "dipinge" su una tela poggiata sul pavimento e, per concludere, la scena del Gutterballs, il sogno in preciso stile Lebowski. Non vi ho certamente detto tutto, né spoilerato nulla, anche perché per un motivo e numerosi altri "Il Grande Lebowski" non deve mancare prima o poi nella lista di un vero amante del cinema.
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The tragedy of King Richard the Third è l'ultimo di una sequenza di drammi shakespeariani nota come seconda tetralogia o tetralogia minore, e conclude di fatto una narrazione drammatica cominciata con le tre parti di cui si compone l'Enrico VI. Il primo in-folio del 1623 cataloga l'opera tra le Histories, o drammi storici, ovvero quei drammi contrassegnati da un setting geografico concreto, da personaggi realmente esistiti e da avvenimenti storicamente documentati. Sullo sfondo di questo dramma d'intrigo e di potere campeggia un'Inghilterra dilaniata da conflitti intestini e da sanguinose lotte dinastiche tra le casate rivali degli York e dei Lancaster per la successione al trono. Solo l'incoronazione di Enrico VII e l'avvento dei Tudor porrà fine alla guerra civile e inaugurerà un'epoca di relativa pace e prosperità. È il duca di Gloucester, futuro Riccardo III, la cui ripugnanza e deformità fisica cela una ben più abietta stortura morale, il protagonista indiscusso dell'opera. Cinico, spietato, d'una malvagità esasperata e inumana, archetipo di governante machiavellico, astuto, subdolo e senza scrupoli, Riccardo userà ogni tipo di violenza e d'inganno per aprirsi la strada verso la corona. Ogni mezzo è lecito: manderà a morte i suoi più stretti consanguinei e non avrà scrupoli a sedurre vedove e a chiudere nella Torre i legittimi eredi al trono, i giovani figli di Edoardo IV. Ma sangue chiama sangue. Riccardo morirà sul campo di battaglia, a Bosworth, nel 1485, per mano del suo successore Enrico, il futuro re Enrico VII. L'avvincente dramma tra le opere shakespeariane più rappresentate sui palcoscenici teatrali in misura maggiore rispetto allo stesso Amleto, non ha potuto non ricevere un adeguato riconoscimento dal cinema anglosassone, che nella seconda metà del secolo scorso ha prodotto tre differenti trasposizioni filmiche. Nel 1955 Laurence Olivier, uno tra i più grandi attori inglesi, aveva portato sullo schermo il suo Riccardo III. Olivier, già autore di un film sull'Amleto e sull'Enrico V, rimaneggiò l'opera di Shakespeare, mantenendone lo spirito e l'ambientazione, ma riducendone notevolmente la durata (una scelta quasi obbligata, data la lunghezza del testo originale) tagliando molte scene e situazioni, senza tradire lo spirito e la drammaticità dell'opera e del personaggio. Quarant'anni dopo, nel 1995, fu Ian McKellen, diretto da Richard Loncraine, a calarsi nei passi dello spietato sovrano inglese. Il Riccardo III di McKellen e Loncraine abbandona l'ambientazione medievale e ogni pretesa di realismo storico, per calare l'azione negli anni Trenta del secolo scorso, in un'Inghilterra immaginaria in cui vige una dittatura militare nazifascista. In questa rilettura modernista, in cui i personaggi si muovono fra stanze fumose in cui si suona jazz e inquietanti complessi industriali, Riccardo è un epigono di Hitler, spietato e senza scrupoli. Le divise militari nere hanno preso il posto delle armature, e i carri armati quello dei cavalli. La trasposizione più recente della tragedia nel 1996 vede la firma alla sua prima regia oltrechè nelle vesti di un protagonista non inglese ma statunitense, ossia Al Pacino, che costruisce in Looking for Richard ("Riccardo III. Un uomo, un re") uno studio invece di un film per eccellenza sul testo shakespeariano, una pellicola a metà strada tra documentario e rappresentazione drammatica. Sin dalle prime battute infatti il grande attore italoamericano annuncia il suo intento di voler documentare per l'appunto la messa a punto del suo film, ragion per cui accompagnato da una squadra di colleghi autori si muove ad intervalli tra le strade di New York e monumenti storici adatti alla messa in scena raccogliendo l'opinione della gente comune e di illustri critici ed attori inglesi (Sir John Gielgud, Vanessa Redgrave, Kenneth Branagh) sul significato di Riccardo III. L'impianto di ricerca sociale e filologica inizialmente funziona mescolandosi in maniera interessante con l'atteggiamento di rispetto e quasi timore espresso da Pacino nei confronti del colosso shakespeariano, cui alterna momenti di ironia ed irriverenza legati ai divertenti confronti con i suoi aiutanti. Col procedere della sua ricerca, il premio Oscar conduce lo spettatore all'interno della scena mettendo progressivamente in atto la rappresentazione coadiuvato da un cast importante (Winona Rider, Alec Baldwin, Kevin Spacey su tutti), ma tuttavia perdendo la freschezza particolare dell'indagine fino a concludersi in uno spettacolo dai toni esageratamente istrionici di sè stesso. Che se da una parte regala un'interpretazione del re magistrale d'altro canto sembra abdicare alla sofisticata idea di regia concepita dal principio. Da noi vanno ringraziamenti sentiti al Cinema Arsenale di Pisa che giovedì scorso ci ha concesso di assistere non solo alla proiezione di Pacino, ma anche all'interessante introduzione tenuta dal Professore del'Università di Pisa Maurizio Ambrosini. Immagini tratte da: - Title page of fifth quarto edition of Richard III (1612) - da Wikipedia inglese, By William Shakespeare - The Tragedie of King Richard the third, Public Domain, voce "List of Shakespeare plays in quarto" - Ian Mckellen in Richard Loncraine 1995 film adaptation da sondermag.wordpress.com - Locandina da www.italia-film.co Grazie alla distribuzione di Lucky Red e della Cineteca di Bologna a distanza di quasi sessanta anni è possibile ammirare in sala uno dei capolavori noir che ha segnato la storia della cinematografia: stiamo parlando di “Ascenseur puor l'échefaud”, ovvero “Ascensore per il patibolo”, tratto dal romanzo di Noël Calef e diretto dal genio Louis Malle. Il regista francese allora venticinquenne, fresco vincitore della Palma d'Oro nel '56 assieme a Jacques Cousteau per il documentario: “Il mondo del silenzio”, realizza una pellicola che spacca lo schermo e folgora lo spettatore con inquadrature innovative e una sceneggiatura che frammenta i dialoghi e lascia spazio a lunghi silenzi, scanditi solo dalla tromba dell'immortale Miles Davis. La trama è ricca di passione e vulnerabilità allo stesso tempo. Julien Tavernier interpretato da Maurice Ronet lavora per conto dell'arrivista e spietato uomo d'affari Simon Carala ma è innamorato perdutamente della splendida consorte di quest'ultimo, Florence, interpretata dalla divina Jeanne Moreau. I due amanti decidono insieme di far fuori il marito e tutto va secondo i piani fino a quando Julien non resterà coinvolto in situazioni molto inattese. La regia è innovativa e ci catapulta in un mondo estremamente reale, dove i protagonisti vagano tra omicidi, tradimenti, menzogne e verità svelate fino ad arrivare al tanto atteso finale classico noir, dove molto spesso l'amore ha un sapore amaro ma fortemente intenso: la rassegnazione alla durezza della vita, l'angoscia e l'amore sono i fili conduttori della pellicola ma non possiamo non parlare della straordinaria colonna sonora, di Miles Davis. ![]() una dimensione nuova alle immagini, “Ascensore per il patibolo” non avrebbe avuto quel successo”. Effettivamente le melodie jazz e la bellezza disarmante di Jeanne Moreau ci fanno vivere un'esperienza intima, sconsolante ma senza dubbio un'esperienza irripetibile. I cultori del cinema, i cinefili, i maniaci estremi della pellicola e ovviamente i giovani che si affacciano solo ora alla scoperta della “settima arte” non possono non cogliere l'imperdibile occasione di andare in sala a godere di una delle opere più belle e preziose dell'intera cinematografia mondiale! Potrei continuare a parlare di questo gioiello senza tempo per ore (non vi nascondo la forte emozione provata in sala dal sottoscritto) ma vi lascio alle parole del pluripremiato Malle, che in una delle sue interviste dichiarò: “È solo quando la memoria viene filtrata dall'immaginazione, che i film arrivano realmente nel profondo dell'anima”. Vi do appuntamento al prossimo film e come al solito io e tutta la redazione de IlTermopolio vi invitiamo con ardore a riempire le sale cinematografiche, a dare libero sfogo alla vostra fantasia e a nutrire la vostra anima di cultura. Immagini tratte da: Immagine 1 (locandina): Eco di Bergamo Immagine 2 : San Marino News
Oggi parleremo di uno di quei film capace di tenerci incollati alla poltrona dal 1° all'ultimo minuto. Un capolavoro uscito in sordina nel mercato nazionale, ma che si presentava come uno dei prodotti di punta del cinema nord-americano, dato l'incasso di oltre 30 milioni di dollari. Il genio di David Cronenberg ci regalò nel lontano 2005 una perla noir di assoluto valore: “A History of violence”. Il film è tratto dal graphic novel di John Wagner e Vince Locke pubblicata dalla casa editrice Vertigo. Ci racconta le vicende di Tom Stall, un uomo a prima vista semplice e buono, proprietario di un ristorante nella piccola città immaginaria di Millbroook. In un giorno qualunque Tom diventa un eroe americano dopo aver salvato una cameriera e l'intero locale da due brutti ceffi, nonché membri di una famiglia irlandese. Qui iniziano i guai per il nostro Tom, perché ad un certo punto della pellicola, Cronenberg sconvolge tutte le certezze dello spettatore e inevitabilmente la storia si tinge di rosso e di estrema violenza. Il regista ci offre una pellicola cruda e rigorosa, la violenza narrata nel film è estremamente aspra e disturbante e si espande come un virus in tutta la vita del protagonista. Un grandissimo apologo sul falso dove lo spettatore deve fare i conti con la forza dirompente dell'odio umano in un mondo basato sulla menzogna e la meschinità. Le interpretazioni di Viggo Mortensen ed Ed Harris sono strepitose. Nella prima parte del film Viggo ci appare come un marito amorevole e un goffo amante, ma che dopo i fatti accaduti si vede costretto a gettare la maschera e a rituffarsi in un mondo da cui era voluto scappare, ma che non si era dimenticato di lui. Ed Harris invece ci appare come lo sfregiato Carl Fogarty, membro della mala irlandese, con occhi di ghiaccio, velati da una diabolicità che ci penetra l'anima e allo stesso tempo ci affascina! Cronenberg come al solito scava nella psiche “deviata” dell'animo umano e con le sua inquadrature taglienti e d'effetto ci conduce in una storia dal sapore umano e quindi inevitabilmente, una storia amara. Eccezionale pellicola da recuperare (se non l'avete vista) a tutti i costi! Cast perfetto, sceneggiatura di Josh Olson impeccabile, musiche gravi e tetre curate dal “vecchio lupo” Howard Shore, rendono quest'opera una vera e propria perla del cinema internazionale contemporaneo! IlTermopolio vi invita come sempre ad andare al cinema e vi dà appuntamento alla prossima settimana con una nuova recensione! A presto e Buon Cinema cari lettori!
Il cinema Arsenale ha voluto celebrare nei giorni passati, dal 4 al 6 aprile, la tessera associativa 2016 con la proiezione di “Hitchcock/Truffaut”, film documentario di Kent Jones. La pellicola narra la conversazione tra i due grandi maestri avvenuta nel 1962, che è stata d’ ispirazione per il libro di François Truffaut Il cinema secondo Hitchcock del 1966.
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Il libro è considerato un manuale indispensabile per chiunque voglia approcciarsi al mondo del cinema; scritto in forma di dialogo, è formato inizialmente da 15 capitoli, a cui Truffaut ne aggiunse un altro dopo la morte di Hitchcock.
Il film unisce parte di immagini e audio originali e contributi di grandi autori contemporanei, come Martin Scorsese, David Fincher, Wes Anderson e Peter Bogdanovich. Ogni sera un’ospite d’eccezione ha introdotto la proiezione: lunedì 4 aprile lo scrittore Marco Malvaldi (purtroppo assente per motivi personali) è stato intervistato in diretta telefonica dal giornalista Fabio Canessa; martedì 5 aprile è stata la volta del regista e critico Italo Moscati; a chiuso l’evento mercoledì 6 aprile il professore Maurizio Ambrosini, docente di Storia e critica del cinema dell’ Università di Pisa. Proprio quest’ultimo ci ha spiegato in modo approfondito il legame tra i due grandi autori. Il loro primo incontro si ha nel 1955 durante le riprese di “Caccia al ladro”.
In quel periodo Hitchcock era ritenuto dai suoi contemporanei un grande sceneggiatore, un artigiano, un tecnico dotato di grande abilità, ma non un autore. Il suo cinema era considerato principalmente commerciale: attirava il pubblico, ma aveva poca sostanza.
Truffaut e gli altri componenti del Cahiers du cinéma rovesciarono completamente quest’idea, vedendo in Hitchcock uno degli autori che più aveva riflettuto sul significato di “fare cinema”. Truffaut inoltre, era fermamente convinto che gli autori che avevano fatto il loro ingresso sulla scena con il cinema muto fossero messaggeri di un segreto che sarebbe andato perduto alla loro morte e che i successori non avrebbero potuto sperimentare. È l’urgenza di trasmettere, tramandare questo segreto che spinge Truffaut a intervistare Hitchcock. Ed è durante quell’intervista che Truffaut mostra la grandezza dei Hitchcock: come questi avesse colto la verità profonda all'interno della creazione di un mondo finzionale, dove aveva sempre tenuto presente l’importante funzione del pubblico. La sua capacità d catturare lo spettatore, anche con i metodi più bassi, gli ha permesso di gestirne le emozioni. Nei film di Hitchcock è forte infatti la costruzione degli schemi, visivi, percettivi ed emotivi che lo spettatore prova; si ha una doppia percorribilità del film: da narratore a spettatore e viceversa.
Proprio queste idee hanno permesso la nascita dell’analisi del film. Ci è chiara ora l’importanza della conversazione tra i due autori e del volume che ne è scaturito. Consigliamo assolutamente la visione di questo film! Buona visione!
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foto d’autore Martedì 29 Marzo il Cinema Arsenale di Pisa ci ha permesso d'incontrare la meravigliosa e talentuosa attrice e regista: Laura Morante. Quest'ultima è stata invitata dal noto cinema pisano per presentare il suo ultimo lavoro: Assolo, del quale non è solo protagonista ma è anche autrice e soprattutto per la seconda volta regista. Quest'evento è stato possibile grazie all'iniziativa de Il Cinema Arsenale che, nel mese di Marzo si è tinto di rosa, offrendoci un ciclo di appuntamenti ricco di proiezioni e prime visioni tutte dedicate all'universo femminile. IlTermopolio vi augura con grande orgoglio una buona lettura e vi dà appuntamento al prossimo incontro cinematografico. D: Da dove nasce l'idea per il suo ultimo film: Assolo? R: Diciamo che l'idea come spesso accade è mia e di Daniele Costantini. Volevamo raccontare una donna che affrontava con enormi difficoltà lo scoglio della vita da single, dopo essere stata più volte sposata, aver avuto varie relazioni e due figli che sono successivamente usciti di casa. In seguito c'è stato un lungo periodo durante il quale abbiamo continuato ad accumulare materiale per la pellicola, tutto abbastanza buono, però non riuscivamo a trovare una forma giusta. Non riuscivamo a trovare la chiave perché la pellicola possiede varie componenti, è un film umoristico ma in qualche modo divertente, ci sono umori e sensazioni molto diversi. Io stavo per arrendermi, ho detto a Daniele Costantini che non ce l'avrei fatta, che non riuscivo a trovare il modo di raccontare questa storia. Mi ero detta: ''Pazienza, ne racconteremo un'altra'', ma lui mi disse di provare ancora una settimana, nonostante fossimo fermi da mesi. Probabilmente avevo bisogno di quest'atto di fiducia per sbloccarmi e appunto in quella settimana mi sono sbloccata e siamo riusciti ad arrivare fino in fondo. D: Com'è stato dividersi tra questi tre ruoli: autrice, regista e protagonista? R: Ovviamente non è semplicissimo, anche per questo ho voluto che Daniele fosse sempre presente sul set, perché era un po' il mio sguardo, diciamo: lui sapeva che cosa io volevo dal ruolo e dopo ogni ciak andavo a chiedere che cosa pensava di quello che avevo fatto. Il lavoro doppio di regista e attore è diventato semplice da quando è nato il monitor, vale a dire da parecchi anni ormai. Col monitor riesci a controllare tutto, un tempo era più complicato perché uno vedeva il materiale a disposizione soltanto una volta ogni 4-5 giorni, quando ormai le scene erano girate. Invece adesso c'è questa verifica immediata che rende le cose più semplici psicologicamente, perché vedersi non è affatto indolore (ride). ![]() D: Come mai questa scelta di cimentarsi nella regia? R: La prima volta, con il film precedente, Ciliegine, non è stata una mia idea, è stata un'idea del produttore, che è francese, ed il film appunto è francese all'80%; questo invece è interamente italiano. Dovevamo cercare un regista e lui aveva comprato i diritti della sceneggiatura e ad un certo punto mi ha proposto di fare la regia. Io, lì per lì, non ero tanto propensa, poi alla fine mi ha convinto e il film in Italia è stato accolto bene. La seconda volta, con Assolo, invece è partita da me, ho voluto farla io, ho scritto la sceneggiatura con Daniele Costantini e sì, posso affermare, che questo è un progetto che ho voluto fortemente. ![]() D: Che cosa ne pensa del panorama cinematografico nazionale? R: Io purtroppo col fatto che sono stata molto immersa nel lavoro, prima le preparazioni, poi le riprese e dopo il montaggio, non ho avuto molto tempo a disposizione. Ci sono moltissimi film italiani che non ho visto e devo recuperare, come ad esempio 'Lo chiamavano Jeeg Robot', quindi sono un po' impreparata in questo momento per parlare del cinema italiano. D: Che consigli si sente di dare ai giovani registi che vogliono intraprendere questa strada? R: La prima cosa che posso dirvi è essere molto tenaci e pazienti perché non è per niente semplice (ride). Perseverate e non lasciate nulla al caso. D: Sappiamo che lei ha lavorato e lavora molto in Francia, ci può dare la sua opinione tra questi due tipi di cinema, italiano e francese appunto? R: Io preferisco distinguere per individui piuttosto che per razze o per religioni. Penso di aver incontrato molte persone a me affini in Francia e a cui mi sono sentita affine, come ne ho incontrate altrettante in Italia e come ne ho incontrate altrove. Ho lavorato prevalentemente in Francia ma ho anche lavorato in Portogallo, dove ho fatto quattro film, ho lavorato in Spagna, in Svizzera e in Argentina. Ho cominciato da subito a girare in Romania, perché facevo un cinema che si chiamava “Cinema d'autore”, una definizione che adesso è ormai un po' stantia, ma un tempo esisteva ed era un cinema che girava nei festival e quindi venivo molto spesso chiamata a lavorare all'estero. Poi in Francia ci ho vissuto dieci anni e chiaramente ci ho lavorato di più. D: Il suo rapporto con il teatro? Cosa le dà di diverso rispetto al cinema? R: A me tutti gli attori rispondono: “il rapporto col pubblico”. Il che non è falso, però devo dire che per me la differenza più forte è il rapporto col testo, mi piace molto forse perché ho una formazione più letteraria che non cinematografica, infatti nel cinema manca un po' l'intensità del rapporto con il testo che invece nel teatro ovviamente c'è. Nel teatro si prova, quando si può per mesi, e quindi si sviscera tutto, a me ad esempio piace proprio il periodo delle prove. I miei colleghi mi prendevano sempre in giro perché io volevo che le prove continuassero in eterno, non volevo mai andare in scena. Le tournée sono una cosa molto faticosa ma bella! Perché è bellissimo girare e scoprire posti nuovi, fondamentalmente posso dire che il teatro è la mia seconda casa. Le foto sono di Eva Dei
Sicuramente Martin Scorsese non ha vissuto più turbolenze nella pubblicazione di un suo film come gli capitò nell'arco di un decennio, tra il 1977 e il 1988, per "L'ultima tentazione di Cristo". Il regista italo-americano raccontò di sentire "Dio vicino a sè durante la difficile realizzazione di questa pellicola,tratta dal romanzo "La tentazione di Cristo" dell'autore greco Nikos Kazantzakis che aveva ricevuto critiche talmente dure da non poter ricevere la normale sepoltura sul suolo della sua nazione. All'iniziale entusiasmo espresso dalla Paramount, che tuttavia mirava in fin dei conti a sfruttare soltanto il momento d'oro di Scorsese con i vari "Toro Scatenato" e "Taxi Driver", seguì un progressivo rifiuto e conclusiva cancellazione del progetto a seguito delle 500 lettere che ogni giorno arrivavano in redazione in protesta contro il carattere "blasfemo" e "pornografico" del film. Scorsese si vide bloccare la sua opera all'inizio degli anni 80 che in America registravano un gusto conservatore e da più di un ventennio non assistevano ad un nuovo capitolo della cinematografia "cristologica", cominciata alla fine del secolo precedente e gettonatissima negli Anni Sessanta. Fu il produttore della Universal Tom Pollock a rivalutare la sua proposta affascinato dall'analisi non convenzionale della figura del Messia che il regista aveva intenzione di rappresentare: "Gesù è cresciuto nel mondo. Non stava nel tempio. Non stava in chiesa. Stava in strada". Sulla scorta del testo di Kazantzakis e di un suo interesse naturale coltivato sin dall'infanzia, Scorsese squarcia il modello tradizionale di un Cristo completamente descritto quasi completamente per gli insegnamenti lasciati ai contemporanei e ai posteri e per le azioni compiute, dalla Notte di Betlemme alla Resurrezione. Il Gesù scorsesiano, volutamente interpretato da un attore biondo ed europeo (Willem Dafoe), non risorge nemmeno, ma in sintonia col romanzo viene sottoposto ad una significativa analisi della sua psicologia, ha una mente ed un cuore fondamentalmente colmi di paura, sentimento che pian piano si eleva a senso del dovere sia nell'essere uomo che figlio di Dio. La prima parte del film trasmette immediatamente la confusione totale in cui si ritrova a vivere il giovane Rabbi, figlio di Maria e Giuseppe, che passa il tempo a fabbricare croci per i Romani e per tale ragione ha ricevuto un'aperta condanna a morte dagli ebrei zeoliti affidata a Giuda, il cui ruolo è ricoperto da un perfetto Harvey Keitel. E altro aspetto sorprendente inaugurato già nella prima mezzora della pellicola consiste proprio in un legame strettissimo tra Gesù e Giuda, prima suo carnefice designato, poi suo discepolo prediletto, e ancora carnefice e discepolo nel finale, ma soprattutto migliore amico e suo "salvatore" nei momenti di timore peggiore. Altra chiave nella comprensione dell'originalità del soggetto di Scorsese che tenta una commistione tra Cristo terreno e divino sottolineandone tutti gli aspetti tra cui la carnalità e gli istinti sessuali e materiali, emerge nella figura della Maddalena, interpretata da Barbara Hershey grazie alla quale il regista conobbe il romanzo di Karanztakis. Senza filtri la Maddalena vive il suo ruolo di prostituta d'alto borgo ridotta in tale stato dall'amore che Gesù le rifiutò dopo essere cresciuti insieme fianco a fianco. Ma alla scoperta dell'evoluzione che il giovane vive dopo aver guardato dentro di sè e capito la sua vera identità, ne diviene adepta fedele seguendolo nelle sue peregrinazioni e assistendo ai miracoli (trasformazione dell'acqua in vino, riesumazione di Lazzaro tra gli altri) che lo porteranno ad essere incoronato "Maestro". Sulle note dell'avvincente colonna sonora composta dall'ex- frontman dei Genesis Peter Gabriel che fornisce un vivo intrecciarsi di sonorità rock con un ricco panorama di sonorità mediorientali, arabe ed indiane di world music, Scorsese costruisce una parte centrale con protagonista un Gesù tradizionale nel compimento della sua opera, per poi recuperare una dimensione misteriosa e crearne una visionaria di alto livello nella mezzora finale. Dopo l'incontro con un Ponzio Pilato più risoluto e duro del solito nelle fattezze di David Bowie, giunge la scena della crocifissione durante la quale il Cristo sembra esasperato dalle risate di odio rivolte a lui dalla folla e si ribella a Dio in preda al terrore della morte e al desiderio di voler avere un'esistenza normale da uomo. Da qui si innesta un sogno di vita magistralmente dipinto da Scorsese, che col suo tocco artistico crea un'apoteosi dei sensi.
Immagini tratte da: - The Last Temptation of Christ da Wikipedia, Fair Use; - Willem Dafoe, da ilgornaledigitale.it - L'Ultima Tentazione di Cristo da alekinoplu.pl |
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Dicembre 2022
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