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GENERE: giallo, azione, commedia, noir
ANNO: 2016 REGIA: Shane Black ATTORI: Russell Crowe, Ryan Gosling, Angourie Rice, Matt Bomer, Margaret Qualley SCENEGGIATURA: Shane Black, Anhony Bagarozzi FOTOGRAFIA: Philippe Rousselot MONTAGGIO: Joel Negron MUSICHE: David Buckley, John Ottman PRODUZIONE: Silver Pictures, Waypoint Entertainment DISTRIBUZIONE: Lucky Red PAESE: Stati Uniti d’America DURATA: 116 minuti
Il noir è un sottogenere del giallo, potremmo anche dire che è il versante oscuro (nero, appunto) delle opere che seguono canoni narrativi e stilemi delle storie investigative. Per sintetizzare brutalmente la differenza fra le due categorie, mentre nel giallo alla fine del film (o del libro) viene svelato il mistero e ristabilito l’ordine, nel noir spesso non tutti i pezzi della trama vengono messi a posto e alla fine dei giochi i conti raramente tornano.
The Nice Guys, uscito nel 2016 con la regia di Shane Black, incorpora alcuni elementi tipici della stagione del noir classico, quali protagonisti dalla moralità ambigua e un finale agrodolce (con i criminali che rimangono impuniti), combinati con la dinamicità tipica dell’action movie e con la componente di comicità che sprizza dal duo di detective strampalati. Siamo a Los Angeles, 1977: Jackson Healy (Russel Crowe) e Holland March (Ryan Gosling) sono i due partner per caso che si trovano invischiati in un complesso intrigo che parte dalla scomparsa di una ragazza e arriva a coinvolgere il mondo del cinema porno, l’industria automobilistica, malviventi con la faccia imbrattata di vernice blu e un gruppo di giovani che protestano per l’inquinamento atmosferico che soffoca gli uccelli.
In questa indagine che svela mano a mano un impensabile scenario di corruzione, coinvolgendo le alte sfere dell’autorità cittadine, i due “professionisti” saranno affiancati dalla figlia adolescente di March, Holly, che sarà spesso d’aiuto ai due scalcinati detective, portando buon senso e compassione tra le rudi vicissitudini del mestiere.
Il film scorre piacevolmente per tutte le due ore alternando scene di investigazione a intermezzi che riprendono una comicità quasi slapstick, incentrata sul linguaggio del corpo, con colpi e botte smorzati da una patina di invulnerabilità quasi cartoonesca (vedi il personaggio interpretato da Ryan Gosling che precipita numerose volte nel corso del film senza procurarsi troppi danni).
L’ambientazione losangelina è ricostruita con minuzia e sfarzo: dai costumi sgargianti e spigolosi, tipici degli anni ’70, alla colonna sonora con numerosi pezzi d’epoca che varia dalla disco music al funk; tutto contribuisce a immergere lo spettatore nel periodo storico, non senza un effetto nostalgia.
La messa in scena è sapiente ed è in grado di orchestrare sia le parti più narrative che quelle spettacolari e comiche con le giuste proporzioni. Resta però il dubbio che il punto di forza del film sia la coppia di protagonisti e che The Nice Guys rimanga un buonissimo buddy movie con un ottimo ritmo, tanto divertimento e poco di più. Probabilmente questa amalgama di generi diversi toglie un po' di spessore alla profondità dei personaggi e minimizza lo scavo nella realtà sociale del tempo, che non riesce ad andare oltre l’impeccabile ricostruzione formale.
Insomma, un film ottimo per trascorrere due ore in compagnia delle disavventure di questi due disadattati detective ma l’eccessiva apertura alla commedia e all’azione compromette quell’atmosfera unica e impalpabile che altre opere basate sull’investigazione hanno saputo trasmettere.
Immagini tratte da: locandina da coming.soon altre immagini, fotogrammi del film catturati dall'autore
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Il nome di Baz Luhrmann è da sempre strettamente legato alla musica in tutte le sue forme. La carriera del regista australiano è, infatti, segnata da successi come Moulin Rouge! (2001) e Il grande Gatsby (2013), due pellicole in cui la colonna sonora – e le scelte musicali a essa connesse - assume un ruolo molto importante. Questo connubio tra immagini e suoni è senza dubbio il segno distintivo di Luhrmann che con i suoi lavori ha sempre saputo dare una scossa al mondo del cinema. Dopo aver curato diverse campagne pubblicitarie di famose case di moda, questo discusso personaggio è approdato anche sul piccolo schermo, mettendosi in gioco con la creazione di The Get Down, show targato Netflix che unisce in uno spumeggiante mix le origini dell’hip hop e la crescita di alcuni giovani protagonisti. I primi sei episodi di questa ambiziosa serie sono stati distribuiti sulla popolare piattaforma di streaming il 12 agosto 2016 ma solo il 7 aprile 2017 il pubblico ha potuto conoscere gli ultimi tasselli della storia.
Le rime rap di Ezekiel “Zeke” Figuero portano lo spettatore nel Bronx nel 1977, anno in cui il protagonista inizia ad affrontare le difficoltà del passaggio all’età adulta a ritmo di hip hop, confrontandosi con una società segnata da criminalità, corruzione e non pochi pregiudizi. È in questo ambiente che conosce Shaolin Fantastic, giovane eccentrico con cui condivide il desiderio di sfondare nel mondo della musica: insieme a lui e ad alcuni amici di sempre fonderà il gruppo dei Get Down Brothers. Parallelamente, in un universo popolato da dj, writers e cantieri, si sviluppa il legame sentimentale tra Zeke e Mylene, aspirante cantante di disco music. All’ombra dei grattacieli di New York, questo variegato gruppo di protagonisti cercherà la sua strada tra amori, amicizie e ribellioni.
Bastano pochi minuti per farsi catturare dalle atmosfere Seventies accuratamente ricreate in questo prodotto ben contestualizzato: graffiti, vinili, colori sgargianti e solidi riferimenti a fatti reali centrano l’obiettivo. Si percepisce, inoltre, il forte desiderio di cambiamento, il sentimento di una metropoli che periodicamente sa come mescolare caratteri esistenti per dare vita a qualcosa di nuovo, ma anche la volontà di un gruppo di giovani che trova il coraggio di inseguire i propri sogni. Sono proprio questi ultimi il motore della storia e, in particolare, delle azioni dei due protagonisti, novelli Romeo e Giulietta perennemente ostacolati dagli avvenimenti.
La serie, nella sua prima parte, appare lenta nell’introduzione dei personaggi: l’estrema attenzione posta alle ambientazioni in principio penalizza lo sviluppo delle psicologie dei diversi protagonisti. Con l’avanzare della narrazione, tuttavia, lo show riesce a sopperire alle iniziali mancanze, sfruttando così buona parte del suo incredibile potenziale grazie a svolte inaspettate ed esplodendo in un finale ricco di emozioni e avvenimenti.
In conclusione, The Get Down si rivela un’esperienza originale che si mette in gioco nell’affrontare in maniera insolita storie di crescita e ricerca della propria identità, sperimentando ritmi e turbinii di colori che solitamente si associano al grande schermo e strizzando l’occhio, in particolare, a coloro che amano la musica in ogni sua forma. Immagini tratte da: Immagine 1: Poster – www.screencrush.com Immagine 2: Ezekiel e Mylene – www.movieplayer.it Immagine 3 The Get Down Brothers – www.screenertv.com
Dal 25 aprile approderà in sala il secondo e atteso capitolo della saga e noi del Termpolio rispolveriamo il primo e accattivante film firmato dall’eccentrico ma vincente regista James Gunn.
Rapito sulla Terra nel 1988 da pirati spaziali, Peter "Star Lord" Quill, ormai adulto, sopravvive nello spazio grazie a lavoretti poco puliti, finché le circostanze non lo mettono di fronte a una minaccia che rischia di compromettere le sorti della galassia intera. Eroe riluttante, incontrerà sulla sua strada complici ancora più riluttanti: l'aliena Gamora, il vendicativo Drax il Distruttore, il procione mutante Rocket e l'albero umanoide Groot.
Guardiani della Galassia è l'adattamento del fumetto omonimo Marvel, risalente al 2008, firmato da Dan Abnett e Andy Lannind, reboot di una serie nata nel 1969 sulle pagine della rivista Marvel Super Heroes. Grandissimo successo negli States e non solo: questo franchise ha conquistato tutto il globo. Piaciuto e acclamato perché irriverente, diverso, scanzonato.
Ma un approccio di questo tipo potrebbe portare lo spettatore a rimanere piuttosto deluso: Guardiani della galassia è certamente irriverente, diverso e scanzonato ma, in realtà, non lo è più delle altre pellicole prodotte dalla Marvel. Sotto questa veste innovativa si cela infatti il solito prodotto ben confezionato; tutti gli aspetti che hanno reso celebri i cinecomic vengono riproposti, come ad esempio il sarcasmo dei personaggi, che ricorda molto quello del filantropo Tony Stark, o le scene action stile cartoon, già viste nei precedenti film degli Avengers, o la melassa sprigionata dall’ormai celebre battuta: “Noi siamo Groot”, figlia della major “mamma” Disney. Certo, James Gunn si rivela all’altezza del compito, incassando cifre inaudite, ma non può essere considerato un grande innovatore.
Molto interessante è il modo in cui Guardiani della galassia concilia due target diversi: gli ultra-trentenni e gli adolescenti. I primi, non attirati da grandi franchise come Spider-Man, Hulk o Iron-Man, sono stati “catturati” con un ammiccamento ai magici anni Settanta e Ottanta che automaticamente trasforma figure stereotipate in tipi accattivanti. Peter (Chris Pratt), che ascolta nostalgiche musicassette, comincia omaggiando l'Indiana Jones nel prologo dei Predatori e prosegue guidando il suo simil-Millennium Falcon come un novello Ian Solo, con alle spalle un Groot (Vin Diesel), verbalmente poco comunicativo come un Chewbecca. Possiamo trovare moltissimo del primo Guerre Stellari in questa pellicola.
Catturata l'attenzione della vecchia generazione, la macchina del blockbuster si rivolge al gusto contemporaneo dei più giovani: gli effetti visivi enfatizzati, il procione Rocket (Bradley Cooper) in CGI, la regia barocca e ricca di raffinati effetti visivi, la sexy Gamora combattente ben interpretata dall’attrice Zoe Saldana (in quegli anni la più amata dagli americani), provvedono a coinvolgere chi gli omaggi al passato giustamente non li nota
Ci si diverte molto con Guardiani della Galassia ma, sia chiaro, non per i contenuti, spesso troppo sopravvalutati dalla critica odierna, piuttosto per il modo in cui l'intero film ufficializza, senza la scomoda interferenza di personaggi arcinoti o iconici, una realtà innegabile: il cinecomic, che piaccia o meno, è diventato a Hollywood la rilettura contemporanea delle saghe d'evasione. Quello che ieri Lucas o Spielberg hanno regalato a milioni di fan, oggi viene ripreso da registi come James Gunn o Joss Whedon. I nostalgici si approcciano a questo mondo con curiosità e scetticismo, i teenager si armano di gadget e inondano le sale e gli amanti del cinema sospirano silenziosamente, consci del fatto che dovranno sorbirsi l’ennesimo franchise diviso in saghe, crossover, reboot e spin-off.
Immagini tratte da:
Locandina: www.mymovies.com Immagine1: Wikipedia Immagine2: SkyCinema.it Immagine3: SuperEroiNews.com Immagine4: EveryEyeCinema.com
Dal 22 al 25 aprile Livorno accoglierà la sesta edizione dell'evento cine-letterario dell’horror e del fantastico: FiPiLi Horror Festival dove si riuniscono cineasti, artisti e scrittori accomunati dalla passione per il mondo del terrore e del fantastico.
Nei 4 giorni del festival si terranno eventi, proiezioni, anteprime nazionali, interviste esclusive, incontri letterari (a presidiare la giuria letteraria sarà l'autore de I Bastardi di Pizzofalcone Maurizio De Giovanni), tutti pronti a indagare un tema, quello del terrore, e riuscire a declinarlo nelle tante forme che questo sentimento evoca nello spettatore e nella società contemporanea. Lo sguardo dello spettatore e del lettore si allarga per coinvolgere maggiormente il pubblico di questo evento unico in terra toscana. Il FiPiLi Horror Festival è promosso dal Comune di Livorno, dal Nuovo Teatro delle Commedie, dalla Scuola Carver, dal Cinema La Gran Guardia, da Cecchi Gori Home Video, da Nocturno, da Erboristerie Benetti e da Itinera. Tra gli ospiti della prima giornata, avrà un ruolo speciale l'esperto di cinema Federico Frusciante, noto su YouTube per le sue recensioni di critica cinematografica. Frusciante videointervisterà Dario Argento, il maestro del brivido (tra i suoi lavori più noti Profondo rosso, Suspiria), ideatore del giallo all'italiana e re della suspense e della paura. Durante la serata verrà presentato il backstage di Opera, pellicola appena restaurata da CG Entertainment e presentata in un'elegante confezione deluxe. Inoltre, verrà proiettato integralmente il film 4 mosche di velluto grigio, diretto da Dario Argento nel 1971.
La domenica del 23 aprile sarà dedicata al fan club del maestro dell’orrore John Carpenter; in questa occasione verrà proiettato il primo cortometraggio del regista statunitense, Captain Voyeur, girato nel 1969. Nella stessa giornata sarà presente anche il creatore di effetti speciali Sergio Stivaletti che per oltre 30 anni ha ideato e creato personaggi, creature e mostri per il cinema, la televisione e il teatro, collaborando con alcuni dei più grandi registi italiani come Dario Argento, Michele Soavi, Lamberto Bava, Roberto Benigni e Gabriele Salvatores.
Il penultimo giorno sarà dedicato all’approfondimento degli horror coreani e alla proiezione del film Ballad in blood, ultima fatica del famoso regista horror Ruggero Deodato.
Nell'ultimo giorno avverrà la Premiazione del Concorso Cortometraggi FiPiLi Horror Festival 2017 con ospiti e giuria composta da Manetti Bros, da registi napoletani, da Filippo Mazzarella, critico cinematografico, dal critico youtube Federico Frusciante, da Valentina D’Amico, redattrice e inviata ai festival per Movieplayer.it e da Fabio Canessa, inviato del Il Tirreno ai festival più importanti del panorama nazionale e internazionale.
Questo festival sarà dedicato, oltre al cinema e ai libri, anche alle mostre: il regista Lucio Fulci sarà tributato con due esposizioni che verranno inaugurate il primo giorno del festival. Troverete il programma completo su www.fipilihorrorfestival.it
Immagini tratte da: https://www.uninfonews.it/wp-content/uploads/2017/04/Fi-Pi-Li.jpg ![]()
DATA USCITA: 23 marzo 2017
GENERE: thriller, fantascienza, drammatico, horror ANNO: 2017 REGIA: Daniel Espinosa ATTORI: Jake Gyllenhaal, Rebecca Ferguson, Ryan Reynolds, Olga Dihovichnaya, Hiroyuki Sanada, Ariyon Bakare SCENEGGIATURA: Rhett Reese, Paul Wernick FOTOGRAFIA: Seamus McGarvey MONTAGGIO: Simon Burchell, Frances Parker MUSICHE: Jon Ekstrand PRODUZIONE: Columbia Pictures, Skydance DISTRIBUZIONE: Warner Bros. PAESE: USA DURATA: 103 min
“Gravity”, con i suoi sette Oscar, nel 2013 ha aperto la strada a un nuovo periodo d’oro per il genere fantascientifico. Negli ultimi anni alcuni tra i più apprezzati registi si sono messi alla prova con avventure a bordo di navicelle capaci di superare barriere spazio-temporali, senza tuttavia dimenticare il vero fulcro di ogni storia: l’uomo e la sua identità sono i punti di contatto di ottimi film come “Interstellar”, “The Martian” e il più recente “Arrival”. Si usa spesso l’etichetta di “brainy sci-fi” parlando delle pellicole appena citate che, in diversi modi, hanno saputo intrecciare sana avventura con pillole di scienza. L’ultima fatica di Daniel Espinosa poteva rientrare nella categoria appena citata. Life – Non oltrepassare il limite, invece, sceglie di omaggiare i più classici film del filone fanta-horror sviluppatosi negli anni Settanta grazie al successo di “Alien”, esaltando la sua componente di puro intrattenimento. Questa pellicola dall’importante budget (60 milioni di dollari) deve indubbiamente molto alla celeberrima serie di fantascienza avviata da Ridley Scott nel 1979: la sceneggiatura ne riprende tematiche e atmosfere citando astutamente alcune iconiche scene.
Il cast all star, in cui spiccano i nomi di Jake Gyllenhaal e Ryan Reynolds, veste i panni di un gruppo di astronauti che, mentre studia dei campioni raccolti su Marte, individua una forma di vita. La scoperta è sensazionale e ha un importante impatto sulla società che vede, nella piccola e apparentemente innocua cellula ritrovata, una mascotte chiamata Calvin, simbolo del raggiungimento di un nuovo traguardo nell’esplorazione dello spazio. La realtà, tuttavia, non è così semplice. A migliaia di chilometri dalla superficie terrestre ha inizio una spaventosa e spietata corsa alla sopravvivenza in cui nessuna mossa può essere sottovalutata.
Sin dalle prime scene è chiaro che il destino di “Life” non sia quello di diventare un cult del genere. Espinosa, insieme al duo di sceneggiatori Reese-Wernick, pur costruendo un film dalle atmosfere cupe costellato da sequenze in grado di far sobbalzare sulla poltrona, non riesce a lasciare un segno unico e inconfondibile. Seppur invidiabilmente confezionato a livello tecnico, il prodotto manca di una visione d’insieme capace di renderlo un’indimenticabile esperienza a 360 gradi. La storia, infatti, appare nettamente divisa in due parti: un inizio accattivante e determinato seguito da un sviluppo a tratti lento e faticoso che si riscatta però in un buon finale. Il problema del secondo tempo è dovuto probabilmente all’incapacità di mantenere i ritmi fin troppo serrati imposti in partenza.
Nomi importanti comportano grandi aspettative: gli attori coinvolti nel progetto, nel complesso, non deludono dando vita a quella che potrebbe sembrare una curiosa versione in orbita di “Dieci piccoli indiani”. Il legame tra i vari componenti del team è ben rappresentato anche da dialoghi più spensierati che riescono a smorzare la tensione in alcuni punti strategici. Il vero e indiscusso protagonista della pellicola rimane, tuttavia, Calvin, un essere che si evolve e che esaspera l’istinto di sopravvivenza trasformandosi in un nemico temibile ed estremamente intelligente. Quest’ultimo è il punto di forza di un film che, pur non introducendo inediti aspetti nella storia dei film di fantascienza, regala poco meno di due ore di intrattenimento senza prendersi troppo sul serio.
Immagini tratte da: Immagine 1: Locandina – www.comingsoon.net Immagine 2: Space – www.horrornews.net Immagine 3 Astronave – www.movie-blogger.com
Che ne è stato di una giovane moglie frigida col marito che, a sua insaputa, si prostituiva in una casa di appuntamenti nella Parigi degli anni Sessanta?
Se lo è chiesto l’allora novantasettenne Manoel de Oliveira che nel 2006, a distanza di ben 39 anni dall’uscita del cultmovie Belle de jour di L. Buñuel, ne ha realizzato il sequel Belle toujours. Questa volta nei panni della protagonista, Bulle Ogier (Catherine Denevue rifiutò la parte), affiancata da Michel Piccoli, presente anche nella pellicola del ’67. Un incontro fortuito durante un concerto tra un uomo e una donna. Lui è Henri Husson; lei, Severine Serizy. Dopo la recherche senza tregua da parte di Husson che cerca di strappare un appuntamento all’affascinante signora, il rendez-vous avviene all’interno di una camera d’albergo dove, silenziosamente, i due commensali consumano un’elegante cena. Legati da un passato oscuro e consumati da una vita di perversioni ed eccessi, entrambi sono avvolti dal grigiore cupo della senilità e dalla luce fioca di alcune candele.
Se dell’avvenenza di Belle de jour è rimasto ormai uno sbiadito ricordo e delle ossessioni sado-masochiste una traccia indelebile nell’animo dolente di una donna da tempo vedova, chi sembra aver conservato il gusto per il sadico è proprio Husson.
La camera da presa indugia spesso su singoli elementi: una vetrina, una statua, un quadro, contribuendo a mettere in moto meccanismi attentivi e riflessivi nello spettatore. Un film lento e meditabondo in cui le macrosequenze narrative sono separate da scorci languidi di una Parigi notturna su cui risuonano le note di musiche classiche. Molto misurato l’uso delle parole. Poche le battute, intrise dal sapore amaro del rimpianto e della disillusione. E la speranza disattesa di Severine di poter placare i sensi di colpa verso il marito attraverso le rivelazioni di Husson. Che però non avverranno mai. Motivi psicologici appaiono nelle confessioni che Husson fa a un barman, occasione per scandire le dinamiche del pericoloso e ambiguo gioco che lo legava alla donna (il contenuto del racconto costituisce un riassunto del film Belle de jour). Segreti, trasgressioni, fantasie scabrose e ossessioni sessuali rievocati e riletti in una chiave, quella moralistica, ormai lontana dagli eccessi delle rappresentazioni sfrontate dell’inconscio del surrealismo di Buñuel. Due personaggi inquieti, così vicini eppure così lontani. E lo sfondo asettico e impersonale di una camera d’albergo in cui, sul finire, una gallina, spaesata, fa capolino. Ultimo omaggio di Oliveira al surrealismo buñuelliano.
Immagini tratte da:
http://www.filmtv.it/film/34847/belle-toujours-bella-sempre/ locandina http://www.tgcom24.mediaset.it/spettacolo/speciale-amarcord/catherine-deneuve-stella-senza-eta_2092535-201502a.shtml http://deeperintomovies.net/journal/archives/595 https://mubi.com/films/belle-toujours http://deeperintomovies.net/journal/archives/595 http://deeperintomovies.net/journal/archives/595
Una Sardegna mitologica inedita e di forte impatto visivo in cui riecheggiano, declinati in chiave fantasy, le atmosfere di Spartacus e Trecento. Il corto del giovane ventinovenne ogliastrino Mauro Aragoni è stato recentemente trasmesso da Paramount Channel in seconda serata, nei giorni 19 e 20 marzo, registrando un boom di ascolti (220 mila spettatori).
Sardegna, età del Bronzo. Immersi in un immaginifico bosco nero, popolato da strane presenze, entità malvagie, ombre e voci, seguiamo due uomini che camminano silenziosamente. Sono il guerriero Arduè (il rapper Salmo) e il maestro Bachis (M. Segal).
«Il bosco nero, dimora di streghe e demoni. Mai dare ascolto alle voci in questo luogo oscuro, mai seguire le ombre», raccomanda il maestro. Eppure, visioni di un passato recente tormentano la mente del giovane Arduè che scorge ovunque, nel sogno come nella realtà, l’ombra dell’amata figlia. Sarà proprio l’ineffabile presenza a orientare il dispiegarsi della vicenda in una sanguinaria vendetta. L’occasione sarà un torneo, cui partecipano gli uomini più forti provenienti da tutta l’isola, e un’arena di sabbia, immersa nell’aspro paesaggio sardo. Vincere o morire, nessuna alternativa in un itinerario sanguinoso e crudele in cui il supremo vincitore potrà accostarsi, come un dio, al Cielo.
Soli 20 minuti per un corto affascinante ed evocativo, diviso nei due micro-capitoli, S’Arena e Is Cogas. Inquadrature dall’alto (attraverso droni) sul mare, il verde e la roccia e ricostruzioni curatissime dell’abbigliamento delle maschere dei guerrieri, ispirate a quella tradizionale di S’urtzu e Sa Mamulada, come pure ai reperti archeologici e agli originali bronzetti preistorici.
Nessun dialogo, solo la voce avvolgente e sicura di Bachis che guida e spiega gli eventi, interrompendo o sovrapponendosi all’intreccio di effetti sonori che alternano ronzii di mosche, urla disumane, rumore di ferraglia e di ossa dilaniate. Un action-fantasy a bassissimo costo (appena 7000 euro) con una commistione riuscita tra crudeltà, mistero e atmosfere cupe e surreali che fanno dell’epic-horror movie un vero gioiello. Non resta che aspettare l’intera pellicola. Questa volta sembra che il giovane Arduè, infranto il tradizionale rituale del geronticidio, si troverà impegnato a combattere per salvare la sua stessa vita.
Il sito: http://nuraghesmovie.com/# Immagini tratte da: Immagine 0: http://www.vistanet.it/cagliari/blog/2017/03/06/nuraghes-sarena-paramount-channel-visionario-corto-firmato-aragoni/ Immagine 1: http://sardegnainblog.it/video/cinema/nuraghes-sarena-trailer-2017/ Immagine 2: http://www.hano.it/2017/03/17/nuraghes-sarena-spoiler/ Immagine 3: http://www.sardegnasotterranea.org/nuraghes-sarena-le-prime-critiche-gli-elogi/ Immagine 4: http://www.paramountchannel.it/speciali/nuraghes
Australia, 1919: la prima guerra mondiale è finita. Un agricoltore rabdomante di nome Joshua Connor (Russell Crowe) intraprende un viaggio alla ricerca dei suoi figli dati per morti in battaglia a Gallipoli, in Turchia, dove ha avuto luogo una delle battaglie più sanguinose della prima guerra mondiale. Joshua sa ascoltare la terra, sa trovare l'acqua nelle sue profondità eppure, trovare i suoi figli in quel luogo ostile è molto complicato. Gli unici che cercano di aiutarlo sono il piccolo Orhan e sua madre Ayshe, bellissima donna turca vedova di guerra (Olga Kurylenko), proprietaria dell'albergo in cui Connor alloggia. Finché un ufficiale dell'Esercito turco gli restituisce la speranza: uno dei suoi figli potrebbe essere vivo. Crowe, per la prima volta nelle vesti di regista, ambienta la storia dopo la guerra di Gallipoli dove le potenze della Triplice Intesa cercarono di oltrepassare lo stretto dei Dardanelli sottovalutando gli ottomani, il cui impero, nonostante fosse sull’orlo del collasso, era comunque ancora vivo e i Turchi combatterono con forza e coraggio. Nel corso di quello scontro persero la vita migliaia di soldati. Inoltre il film è tratto da una storia vera: Andrew Anastasios, ex archeologo, era entrato in possesso di una lettera che menzionava un padre partito dall’Australia nel 1919 per cercare i figli morti in Turchia durante la Prima Guerra Mondiale. In seguito alla scoperta di questo documento ha deciso di realizzare un libro da cui è nata una sceneggiatura che ha dato vita al film. Quindi Crowe ha avuto l'idea geniale di raccontare una storia che pochi conoscevano, ambientata nei splendidi paesaggi e nelle sconfinate praterie dell'Australia che richiamano gli scorci del film "Australia" di Baz Luhrmann con Nicole Kidman e nella magica Turchia con le sue moschee meravigliosamente decorate. Ottimi gli attori, il protagonista Russell Crowe è perfetto nei panni di un padre provato dalla morte dei figli ma disposto a tutto pur di riunire la sua famiglia, grazie alle sue doti di sensitivo rabdomante.
Brava anche l’albergatrice, interpretata da una intensa Olga Kurylenko, che si cala alla perfezione nei panni di questa donna orientale. Il rapporto tra Connor e Ayshe, inizialmente contrastante, si trasforma in un legame di fiducia, basato sulla comprensione e sul rispetto delle reciproche differenze culturali e alla fine entrambi si lasceranno alle spalle il dolore per ricominciare una nuova vita.
"The water diviner" è un mix tra dramma, azione e avventura con flashback che rappresentano gli orrori generati dalla guerra (molto emotiva la scena in cui i tre fratelli si ritrovano feriti insieme), mostrando anche gli usi, i costumi e la cultura del nemico, l'impero Ottomano, fatta di lusso, antiche leggende e atmosfere da mille e una notte. Il tutto arricchito da metafore e allegorie: l'acqua porta con sé la vita e la morte, l'inizio e la fine, ma rappresenta anche il legame tra il protagonista e la sua famiglia, destinato a durare per sempre.
Foto tratte da:
- http://pad.mymovies.it/ - https://mr.comingsoon.it/ - http://www.culturaeculture.it/
Arriva nelle sale italiane il live-action di Ghost in the Shell, opera partorita dal genio giapponese Masamune Shirow. Riuscirà il regista Rupert Sanders, con l’aiuto di Scarlett Johansson, a rilanciare il franchise cult?
Il regista e scrittore Mamoru Oshii, nelle tante interviste rilasciate negli ultimi mesi, afferma di nutrire una sorta di venerazione per il maestro del manga Masamune Shirow. Quest’ultimo, nella sua opera Ghost in the Shell, affronta il tema della fantascienza animistica in modo sopraffino. Personalmente non sono un grande amante nè di manga né di anime ma Ghost in the Shell è il precursore assoluto della cultura cyberpunk. Un’opera che ha conquistato il cuore di numerose persone nel mondo, ricca di contenuti profondi, in grado di lasciarci mille interrogativi. La grandezza di Shirow, con le sue tavole, e dell’anime di Oshii risiedono nella capacità di non dare banali spiegazioni ma di fornire i giusti mezzi narrativi per porci dei quesiti: “E se le macchine dovessero ribellarsi all’uomo?” -e ancora- “La nostra anima potrà essere conservata in un’armatura fatta di metallo e ingranaggi?”. Ghost è l’anima che risiede nello Shell, ovvero l’involucro che non potrà mai imprigionare la prima.
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Concetti talmente profondi, descritti attraverso un mondo lucido e allo stesso tempo caotico, che attirarono l’attenzione di due fratelli (oggi sorelle) visionari e tremendamente curiosi: i fratelli Wachowski. Lana e Andy (oggi si chiamano così) trassero ispirazione proprio dall’amatissimo manga per riuscire a dare alla luce Matrix e tutta la filosofia presente in quel tetro e misterioso universo. L’influenza del duo Shirow-Oshii è ancora più presente nella serie di corti Animatrix, short-movie di un fascino devastante, che spiegavano come le macchine fossero riuscite a sottomettere la razza umana. Ma fermi un attimo. Ce l’ho solamente io questa terribile sensazione di déjà-vu? Stiamo parlando di concetti già affrontati e ben digeriti nel 1999 e nel 2003. Eravamo riusciti a sopravvivere al Millennium Bug, la tecnologia faceva, giorno dopo giorno, passi in avanti sbalorditivi e il mondo stava cambiando pelle. Ovviamente anche il più longevo dei testimoni della nostra storia, il cinema, ci raccontava vicende che trasudavano originalità e spirito di coinvolgimento, quello che malauguratamente manca oggi.
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Tutto questo lo abbiamo già vissuto; l’inutile operazione commerciale della Paramount Pictures non potrà di certo farci stropicciare gli occhi dallo stupore. Rupert Sanders (ancora una volta alle prese con l’adattamento di un classico animato dopo Biancaneve e il cacciatore), il regista della trasposizione in live-action di GITS, non osa come i Wachowski ma si preoccupa di non pestare i piedi all’anime di Oshii, uscito nel ’95. Gli va dato senz’altro il merito di portarci in un mondo, dal punto di vista visivo, straordinario. Gli aspetti scenografici della sua pellicola sono decisamente curati e davvero stupefacenti, lo spettatore rimarrà affascinato da questo Giappone del futuro, dove la luce dei neon e degli ologrammi sui grattacieli si sostituisce a quella naturale. Le scene d’azione sono ben eseguite con un alto tasso adrenalinico e l’uso del 3D, questa volta, fa veramente la differenza, a tal punto che vi consiglio di guardarlo in 3D IMAX. Purtroppo, per Sanders e il suo team, è intollerabile la mancanza di una scrittura solida e lineare.
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I dialoghi spesso sono fini a sé stessi e i fiumi di filosofia presenti nel manga vengono risucchiati dalla paura di osare del regista. Sanders sembra concentrarsi solo sulla cura maniacale di alcune scene, sembra che voglia a tutti i costi “portare a casa il risultato”, correndo meno rischi possibili. Il profondo conflitto interiore della protagonista, Major, primo cyborg con cervello umano, non riesce ad appassionare lo spettatore. L’agente più forte a capo della Sezione 9, ovvero la squadra antiterrorismo che si occupa di criminali cibernetici, è un essere solitario che sogna i ricordi di una vita passata, un’anima desiderosa di conoscere le sue origini e destinata inevitabilmente a ribellarsi. Nella pellicola tutti i suoi interrogativi vengono frettolosamente spiegati, sembra che non ci sia tempo per conoscersi meglio, non scatta per niente la scintilla con il freddo personaggio interpretato dall’ottima Scarlett Johansson, sempre più a suo agio in questi ruoli del futuro ma lontana anni luce dalla splendida prova regalata con il capolavoro di Spike Jonze, HER.
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Ottimo il cast con la sorpresa della leggenda Takeshi Kitano, presenza che fa sognare i cinefili. Da lodare anche Juliette Binoche e il temibile villain Michael Pitt. Oltre a tutto questo però non c’è nient’altro, un altro prodotto vuoto, di cui onestamente non avevamo bisogno. Non può ridursi tutto ai magnifici effetti speciali, non bastano a far emozionare lo spettatore. Magari qualcuno è entusiasta di questa cinematografia moderna, tutta remake e tecnologia, ma, personalmente, credo sia arrivata l’ora di cambiare. Ghost in the Shell avrebbe dovuto segnare, stando ai pomposi proclami, una vera e propria rivoluzione.
Chi ama e vive di cinema si sarà fatto una grossa e amara risata. Cinematograficamente questa pellicola è ormai un ricordo del passato, un franchise ripreso con il solo scopo di monetizzare. È vero che noi esseri umani abbiamo sempre subìto il fascino del rapporto uomo-macchina, ma le major in questione si saranno certo dimenticate che prima di quest’operazione, al cinema, sono sbarcati capolavori come Blade Runner e Matrix, che di certo non hanno nulla a che vedere con il goffo e futile film in questione. Se siete fan della saga, forse vi accoderete alla marea di haters che ultimamente stanno monopolizzando il web con commenti al vetriolo; se state per approcciarvi a questo mondo per la prima volta accomodatevi pure ma state in guardia: il rischio di fare una trilogia del franchise è dietro l’angolo.
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Link Immagini: 11 Locandina: IMP Awards.com Immagine1: DailyNews24.it Immagine2: TheCheatSheet.com Immagine3: ScreenRant.com Immagine4: Movieplayer.com Immagine5: Youtube.com Immagine6: www.etonline.com ![]()
GENERE: noir, drammatico
ANNO: 2004 REGIA: Paolo Sorrentino ATTORI: Toni Servillo, Olivia Magnani, Adriano Giannini, Raffaele Pisu, Angela Goodwin, Gisela Volodi, Nino D’agata, Enzo Vitigliano SCENEGGIATURA: Paolo Sorrentino FOTOGRAFIA: Luca Bigazzi MONTAGGIO: Giorgio Franchini MUSICHE: Pasquale Catalano PRODUZIONE: Fandango, Indigo Film, con la Medusa Film DISTRIBUZIONE: Medusa Film PAESE: Italia DURATA: 100 minuti
Le conseguenze dell’amore è il secondo lungometraggio di Paolo Sorrentino. Il film, uscito nel 2004, ha ricevuto numerosi riconoscimenti ai festival italiani ed europei. Dopo il notevole esordio con “L’uomo in più”, il regista partenopeo cambia totalmente scenario e personaggi, ambientando il film in una grigia cittadina svizzera. Ancor più grigio è il protagonista, Titta di Girolamo, interpretato da un Toni Servillo magistrale, che si conferma l’attore prediletto di Sorrentino: un connubio artistico e personale che sarà coronato dal trionfo agli Oscar de “La grande bellezza”. Titta, fumatore accanito, è un uomo di mezza età sobrio e composto (tutta la frivolezza, nota in un passaggio del film, l’ha condensata nel nome), che vive in una camera di hotel e passa le giornate pasteggiando con due vecchi nobili in disgrazia, osservando furtivamente la bella cameriera del bar e combattendo senza successo contro un’insonnia tenace.
Ma dietro la maschera di posato uomo d’affari (afferma di lavorare “per una grossa società di intermediazione finanziaria”) scopriamo, mano a mano che il film avanza, che Titta nasconde più di un segreto. L’unico vizio che si concede nella solitudine ticinese è quello della droga: ogni mercoledì mattina, alle 10 in punto, si spara una dose di eroina; in ventiquattro anni non ha mai fatto strappi alla regola. Ma c’è di più: il suo “lavoro di commercialista” consiste nel trasportare periodicamente una valigia stracolma di dollari in banca per conto della malavita.
Titta di Girolamo è un personaggio sospeso: esiliato nel limbo della svizzera italiana, conduce un’esistenza misera, solitaria, perennemente in attesa di qualcuno o qualcosa che possa rompere la stasi mortuaria in cui si ritrova. Non pronuncia mai una parola più del necessario, si rifugia nel non-detto e nel silenzio, relegando unicamente allo sguardo la chiave per i propri desideri interiori.
A un certo punto qualcosa accade: Titta si fa coraggio e si avvicina alla ragazza del bar, e quasi contemporaneamente due mafiosi gli sottraggono la valigia con i soldi. Il sentimento amoroso, che fino a quel punto Titta aveva represso con assoluto autocontrollo, inizia a infiltrarsi nel complesso meccanismo fatto di automatismi e atti preordinati, sgretolando pericolosamente le prigioni che si era volontariamente costruito intorno.
A questo punto il protagonista è costretto a intraprendere un viaggio a ritroso nello spazio (dalla Svizzera fino al sud Italia) e nel tempo (per affrontare le persone responsabili del suo esilio disumanizzante). Una volta di fronte ai boss di cosa nostra Titta compirà un’eroica catarsi, che lo porta al sacrificio della vita per affermare la propria libertà.
Lo svolgimento del film si può dividere in due parti, in due movimenti: nel primo domina la noia, la lugubre routine della vita di Titta, inframmezzata dalle sue riflessioni solipsistiche e sembra che a muoversi sia soltanto la macchina da presa che esorcizza, con sinuosi movimenti, l’immobilità del protagonista; nella seconda parte, dopo l’inaspettato arrivo dei due affiliati e dopo l’apertura del protagonista verso la fascinosa e dolce barista, il ritmo accelera, l’andamento si fa convulso, la linea della narrazione si spezza e diviene complessa. La fotografia oscura, lugubre, plumbea esprime il senso di angosciosa pesantezza che attanaglia il protagonista e una colonna sonora incisiva ed eterogenea rendono il film un’opera in cui l’atmosfera e la suggestione hanno un peso maggiore rispetto alla serie di vicende narrate.
Come il titolo enuncia con nitore assoluto, è l’amore (vissuto o potenziale) il motore che fa scattare qualcosa nel protagonista, ma questo sconvolgimento, oltre a portare spazi di libertà e gioia, reca necessariamente anche pericolo, sofferenza e infine morte.
La redenzione suicidaria di Titta che conclude il film, può apparire come una sconfitta ma è forse l’atto più autentico e libero che compie il protagonista in tutta la narrazione. Una cosa è certa: le conseguenze dell’amore non vanno sottovalutate… Immagini tratte da: romalive.org archiviodelcinema.wordpress.com |
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Maggio 2023
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