E’ il 28 dicembre del 1895 quando i fratelli Lumière proiettano per la prima volta il cortometraggio intitolato La sortie des usines Lumière: da quel momento, tra intuizioni e innovazioni tecnologiche, il cinema assumerà progressivamente i tratti che ce lo rendono oggi così familiare. Perché allora accostarlo alla filosofia? Che attinenza può avere? Gilles Deleuze (Parigi, 1925-1995), è il filosofo contemporaneo che ha teorizzato in maniera problematica il rapporto esistente tra cinema e filosofia, individuando l’interessante analogia per cui, così come la filosofia elabora concetti, il cinema crea attraverso le immagini. Possiamo anche dire che esiste un’altra similitudine: quella tra lo sguardo dello spettatore e quello della macchina da presa, il cineocchio. Il nostro occhio è per forza di cose limitato spazialmente, coglie degli elementi che cadono nel nostro raggio visivo ed è altresì limitante: esso è condizionato nell’orientamento dai nostri interessi e dai nostri punti di vista che favoriscono via via la ricezione di alcuni elementi piuttosto che di altri. Il cineocchio, al contrario, potenzia le nostre possibilità percettive e, superando l’egocentrismo della nostra visione personale, permette di cogliere in modo nuovo la realtà. Così scrive il regista Dziga Vertov, all’interno del manifesto teorico del suo cinema, I kinoki. Un rivolgimento, del 1923: <<Io sono il cineocchio. Io, macchina, vi illustro il mondo come solo io posso vederlo. Io mi libero dell’immobilità umana, io sono in continuo movimento, io mi avvicino e mi allontano dagli oggetti, striscio sotto di essi, vi monto sopra. Svincolato dalla norma dei 16-17 fotogrammi al secondo, libero dai limiti dello spazio e del tempo. La mia vita è diretta verso la creazione di una nuova percezione del mondo. Così io decifro in modo nuovo un mondo che vi è già conosciuto>>. Il cinema mette in luce chiaramente la sua natura non statica: noi ci muoviamo attraverso di esso, nello spazio e nel tempo ma anche, e forse soprattutto emozionalmente, attraverso i ricordi, i pensieri e gli stati d’animo che la visione delle immagini suscita. Il dinamismo che contraddistingue questa recente forma d’arte, oltre che essere un’evidenza empirica, è stata oggetto di riflessioni di diversi intellettuali ed è qui che si radica il nesso cinema-filosofia. Nel 1907 H. Bergon, nell’Evoluzione Creatrice, ha individuato la vicinanza tra l’atto dello spirito che coglie il fluire del divenire del reale e riesce a costruirlo a posteriori e dall’esterno, e il cinematografo che permette di legare le immagini in sequenza per riprodurre la loro durata reale. Entrambi i processi sono creativi e danno luogo ad un’originale lettura del reale. Colui il quale porta a compimento la strada inaugurata da Bergson, è il già citato G.Deleuze, il quale crea concetti che diventano delle categorie proprie del cinema e della sua interpretazione filosofica. Deleuze parla di immagini-movimento e di immagini-tempo, individuando, col primo termine, l’essenza stessa del movimento ovvero il movimento puro, considerato come sostanza, che si riesce ad astrarre dal veicolo attraverso il muoversi della camera o il montaggio dei piani fissi, col secondo termine, l’immagine diretta del tempo, cioè non ottenuta attraverso la successione delle immagini in movimento, ma attraverso un processo in cui è l’immagine che sprigiona il tempo. Nel cinema moderno, basta citare alcuni nomi come O. Welles, A. Resnais o J-L.Godard, per capire come si sia preferito non dare un’idea indiretta del tempo attraverso la giustapposizione delle immagini, ma emanciparlo, utilizzando immagini di vario tipo, come immagini-ricordo (flashback) o immagini-sogno che lo hanno reso protagonista, a dispetto dei film classici, più ancorati all’azione. Mettendo da parte le argomentazioni tecniche, abbiamo compreso che il cinema è uno strumento che permette di rielaborare e potenziare la percezione della realtà. In questo è stato utile il confronto con la filosofia, ma non sarà troppo invadente e pesante la sovrastruttura dei concetti filosofici impiegati per interpretare il cinema? La risposta è negativa se pensiamo che la filosofia ha la capacità di mettere in rilievo gli elementi stilistici che del cinema sono propri e che spesso vengono taciuti da critiche interessate quasi esclusivamente all’aspetto narrativo, sostanzialmente facendo per le pellicole la stessa operazione che può essere fatta per un testo di letteratura. L’essenza del film, invece, come afferma Sartre <<è nella mobilità e nella durata. Esso è un’organizzazione di stati, una fuga, uno correre indivisibile, inafferrabile, come il nostro Io>>. Il cinema, pur nascendo in un preciso momento storico come invenzione tecnica che non aveva degli scopi immediatamente artistici o espressivi, si apparenta progressivamente con la filosofia, e per la creazione tramite immagini in luogo dei concetti e venendo a rispondere -anche se in modo diverso- alle domande dello spirito. Merita quindi di essere preso in carico senza escludere nessuna delle sue potenzialità creative, narrative e stilistiche, che ci permettono di amarlo e di esserne ogni volta toccati profondamente. Bibliografia: - D. Angelucci, Filosofia del cinema, Carocci editore, Roma 2013 - M. Bertolini, T. Tuppini (a cura), Deleuze e il cinema francese, Mimesis, Milano 2002 Immagini tratte da: - extrait du film sortie des usines Lumière à Monplaisir, da Wikipedia Italia, Di sconosciuto - User's archive, Pubblico dominio, voce “L’uscita dalle officine Lumière”; - Dziga Vertov in una sovrimpressione sulla sua cinepresa, da Wikipedia Italia, Di en:Dziga Vertov, Frame from the film, Pubblico dominio, voce “Cinema d’avanguardia russo”. - Sallie Gardner at a Gallop Di Eadweard Muybridge, Wikipedia Italia, The sequence is set to motion using these frames, originally taken from Eadweard Muybridge's Human and Animal Locomotion series, (plate 626, thoroughbred bay mare "Annie G." galloping) published 1887 by the University of Pennsylvania, Pubblico dominio, voce “La nascita e i primi anni del cinema”
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"Il sorpasso" dura appena 108 minuti ma al fotogramma estremo in cui campeggia la scritta FINE, la magnificenza che coglie lo spettatore durante la pellicola non tarda a perdersi davanti alle pressioni del tempo. "Il sorpasso", capolavoro di Dino Risi, road movie italiano che ha fatto la storia e senza il quale Dennis Hopper per sua stessa ammissione non avrebbe potuto in seguito tirare fuori l'altra perla del genere dal titolo di "Easy Rider". Film affondato sull'asfalto di una Roma desertica di Ferragosto a 130 km orari su una Lancia Aurelia sfrecciante sotto le tinte di un documentario lungo la costa tirrenica che prosegue per Ladispoli, Civitavecchia, Marina di Grosseto, Castiglioncello ed una Viareggio mai raggiunta. Se "il sorpasso" fosse stato realizzato a colori non avrebbe sortito lo stesso effetto dirompente che viene creato dallo scontro tra la strada scura e il paesaggio rischiarato dal sole, tra le tenebre notturne e la limpidezza dell'automobile, tra i capelli scuri e il fisico da "Marcantonio" di Vittorio Gassman alias Bruno Cortona e la chioma virginale e la minutezza adolescenziale di Jean-Louis Trintignant alias Roberto Mariani.
Due uomini così contrapposti nell'apparenza del loro carattere. Istrionico, farfallone, arrogante il quarantenne Bruno Cortona, abbandonato come un cane a Ferragosto. Timidissimo, asociale, rimasto legato in modo viscerale all'infanzia lo studente ventenne Roberto Mariani. Entrambi solissimi, così uguali nella mancanza di coraggio e la comodita del celare la propria incapacità. L'uno dietro i codici della Giurisprudenza, l'altro dietro le saettate della Lancia che forse nemeno è sua. Entrambi finiti un 15 Agosto a rivivere dopo secoli un autentico rapporto umano con un'altra persona, fatto di litigi e contrasti, solidarietà e condivisione. Due compagni di viaggio che ad un certo punto arrivano a scambiarsi ruolo, col risultato che Roberto il timido prende in mano la situazione gettandosi alla ricerca della sua bella vicina di casa con cui ha parlato solo una volta. E mentre il suo "Romanzo di Formazione" si realizza, Bruno prosegue nella sua "Sindrome da Peter Pan" superficiale, in cui è costretto a trovar rifugio da moglie e figlia riviste in un mix di gioie e rimpianti dopo 3 anni e poi abbandonate di nuovo.
"Il sorpasso", commedia drammatica. Una prima oretta, che si conclude suppergiù con le scene "pasoliniane" ambientate al Porto di Civitavecchia, in cui si afferma senza rivali la grandezza di un Vittorio Gassman che non sembra affatto recitare, ma essere seguito lungo un giorno di ferie per l'appunto.
Gassman designato nella mente del produttore Mario Cecchi Gori al posto di Alberto Sordi e del progetto inziale "Il giretto". Gassman cui si devono la scelta dell'ambientazione nella Castiglioncello meta delle sue vacanze e il finale dopo una scommessa vinta con Dino Risi. Gassman guascone, gladiatore che all'incontro diretto con i suoi problemi economici e familiari si piega clamorosamente, disperato, svergognato e sorretto dall'estro nascente del giovane compagno di avventura. Trintignant, francese d'Italia per la prima volta nella sua carriera, neanche sentito nominare da Risi per i suoi successi Oltralpe. Anzi arrivato per fare la controfigura. Diventato, con il doppiaggio di un Roberto Ferrari altrettanto in erba, l'interprete gigantesco di una riservatezza traballante, "un tallone d'Achille" provocato dalla mancanza d'amore da parte della sua famiglia. Personaggio innovativo perchè seguito nei suoi monologhi interiori attraverso un artistico espediente che nel cinema dell'epoca latitava. Quindi Roberto Mariani, vero protagonista, pur nella sua veste passiva di spettatore delle malefatte e disfatte di Bruno, snervante soprattutto per le donne a causa della sua inadeguatezza ad ordinare persino un caffè che uno più furbo di lui gli ha soffiato da sotto il naso. Personaggio sfortunato nella tragicità di un Ferragosto. Ma "il sorpasso" non avrebbe assunto l'immortalità da me ammirata durante la proiezione al Cinema Arsenale di Pisa che mi ha concesso questa preziosa opportunità, dico non l'avrebbe mai assunta se non avesse compiuto una ragguardevole fotografia dell'Italia del boom economico degli anni '60 che ancor oggi ci restituisce come scattata di getto. L'Italia colorata dalla musica dei dialetti e cadenze, oltre a quella ballata dei Vianello, Di Capri, Modugno, rappresentata come solo il Neorealismo da noi ha saputo fare, se si eccettuano poche eccezioni successive vedi Francesco Rosi, Bellocchio, Avati, Tornatore, Sorrentino, Mainetti. In un film, "il sorpasso", in cui non esiste la paura di criticare un contemporaneissimo Antognoni e di esaltare contemporaneamente l'immensa lezione contenuta nella semplicità di "Vecchio frack" di Domenico Modugno. In cui non ci si pone il problema morale del gioco di parole "Occhio Fin" per definire un maggiordomo omosessuale, e così il luogo comune degli italiani playboy che corrono dietro alle turiste straniere. "Il sorpasso" che al giorno d'oggi avrebbero tagliato fino a fargli perdere l'anima.
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Romano, classe 1976 e una passione sconfinata per il cinema, in particolare se si tratta di quello di genere, il buon vecchio cinema di genere che fra gli anni ’60 e la metà degli ‘80 dominava i cinema italiani, portando masse di persone nelle sale e facendo da scuola a tanti registi, sceneggiatori, attori e compositori divenuti negli anni delle vere e proprie leggende sopravvissute al tempo o simboli di un culto underground riscoperto nel XXI secolo dai vari Tarantino e compagnia cinefila. Tutto questo sembra riecheggiare alla lontana nella figura di Gabriele Mainetti, il regista che grazie alla sua opera prima Lo chiamavano Jeeg Robot è ora sulla bocca di tutti, appassionati di cinema e spettatori occasionali, cultori di manga, comics e anime e semplici curiosi della domenica. Una folta schiera di seguaci, un piccolo e grande esercito che ha ritrovato in questa pellicola ciò che il cinema italiano sapeva fare molto bene e che rischiava di essere messo in ombra: narrare storie avvincenti ed emozionanti con stile e personalità. Ed anche una certa dose di originalità, visto che dopo Il ragazzo invisibile diretto da Salvatores, Lo chiamavano Jeeg Robot si pone come il più compiuto esperimento del cinema italiano nei confronti del filone supereroistico dominato dagli americani. A distanza di tre mesi dall’uscita ufficiale del film e uno solo dai sette David di Donatello vinti durante l’ultima edizione, giovedì ventisei aprile il Cinema Arsenale di Pisa ha ospitato una lunga rassegna dedicata al giovane regista romano: alla presenza dello stesso Mainetti si sono succeduti sullo schermo dapprima due dei suoi cortometraggi, Basette del 2008 e Tiger Boy del 2012, e come gran finale Lo chiamavano Jeeg Robot. Di fronte a casi cinematografici di questa portata è bene interrogarsi sul valore di tali opere e sul perché del successo di critica e di pubblico: dopo le tre proiezioni, Gabriele Mainetti ha intrattenuto un lungo dialogo con i numerosi presenti in sala che lo hanno incalzato con disparate domande sulla realizzazione del film, sulla sua carriera e su altri eventi collaterali scaturiti proprio grazie al successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, come il suo incontro con il maestro Go Nagai, fonte primaria del film. Produttore, compositore, attore di televisione, cinema e teatro, il trentanovenne amante del cinema di Park Chan-wook e in particolare di Old Boy si è aperto completamente nell’ambiente intimo del Cinema Arsenale, raccontando di come sia riuscito a sintetizzare tutte le sue influenze cinematografiche ed extracinematografiche nella sua opera prima, creando un prodotto che gioca con il genere dei cinecomics ma reinterpretandolo sotto il profilo psicologico dei personaggi in maniera inedita e più complessa, elemento questo evidente già dai due corti e culminato nel lungometraggio.
La critica grida già alla via italiana ai film sui supereroi; al di là di queste facili etichette, il tocco di Mainetti, affiancato dagli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti, in bilico fra dramma e azione ha dato vita ad un cinema che recupera il passato e nello stesso tempo rimane ben radicato nel presente reinventato in chiave pop. Il segnale è stato lanciato: ora bisognerà vedere se anche altri fra registi e produttori sapranno raccogliere la sfida. ![]()
Perché hai deciso di ispirarti proprio a Jeeg Robot di Jeeg Robot d’acciaio e non a un altro personaggio dei cartoni giapponesi dell’epoca? E soprattutto che cosa volevi che rappresentasse per te all’interno del film la figura di Jeeg Robot?
Quando abbiamo pensato ad un supereroe nostrano, non essendocene di veri e propri in Italia a parte Ranxerox, che toccasse quante più persone possibile per il suo immaginario pop, l’associazione mentale immediata è stata quella con i cartoni del programma Bim Bum Bam che hanno cresciuto la mia generazione. All’inizio doveva essere UFO Robot; successivamente abbiamo scelto Jeeg Robot sia per una questione puramente estetica, per via dei suoi colori chiari e meno scuri, sia perché ci sembrava che rispetto a Goldrake e a Mazinga, una delle opere più riuscite di Go Nagai, fosse un pochino più “sfigato” e quindi in linea con il personaggio del mio film. Bisogna tenere conto anche di un’altra cosa: Hiroshi Shiba, rispetto agli altri personaggi dei cartoni coi mecha, è l’unico ad avere davvero una forma di superpotere che consiste nella sua trasformazione nella testa di Jeeg Robot, la quale si va poi ad assemblare con le altre parti meccaniche lanciate da Uzuki, il personaggio femminile del cartone. Infatti durante il film il personaggio di Alessia dice di voler lanciare i componenti a Enzo Ceccotti: ci sembrava quindi divertente fare questi rimandi continui al cartone. Jeeg Robot è comunque quello al quale ero più affezionato e mi sembrava inutile lanciarsi su una ricerca dei supereroi americani: sarebbe stato difficile per i diritti ed anche perché noi italiani non li conosciamo bene. Mi ero già ispirato in passato a Tiger Man e Lupin III per Tiger Boy e Basette: continuare ad ispirarmi ai personaggi dell’immaginario giapponese mi è sembrata una scelta obbligata anche per il film. Che rapporto c’è quindi fra i due corti Tiger Boy e Basette e il tuo primo lungometraggio Lo chiamavano Jeeg Robot? Innanzitutto c’è un lavoro che va avanti da vent’anni con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, affiancato da un bravissimo fumettista per la stesura della sceneggiatura del film, ovvero Menotti, che ci ha aiutato tanto nel migliorare l’elemento cinematografico generale. Nel 2005 a me e a Nicola venne fuori l’idea di raccontare la figura di Lupin III per come l’abbiamo vissuta in prima persona con i nostri occhi, lasciando quindi da parte qualsiasi operazione filologica sul personaggio e mescolandolo invece con quella che era la nostra realtà quotidiana. In questo modo è nato allora Basette, attuando la stessa operazione anche per Tiger Boy anche se in maniera più velata per quanto riguarda la figura di Tiger Man durante il corto. In Lo chiamavano Jeeg Robot l’immaginario del cartone originario ritorna a palesarsi un po’ di più: Jeeg Robot è l’anima dell’eroe che riverbera durante il film e uno strumento pop che abbiamo utilizzato per raccontare una storia che non ha niente a che fare con il mondo di Go Nagai. ![]()
Il tuo film riprende tanto dai canoni del cinema supereroistico ma a mio avviso sarebbe anche un po’ riduttivo appiattirlo solo su questa idea: giusto per fare un esempio, i tuoi personaggi non sono certo dei classici supereroi ma piuttosto persone molto fragili, sole e caratterizzate da una sfaccettature interiore molto travagliata. Per certi versi mi hanno ricordato i personaggi di Non essere cattivo di Caligari, film uscito poco prima del tuo, che quelli della Marvel o della DC che imperversano nelle sale. C’è quindi alla base una reinterpretazione non solo dei canoni supereroistici ma anche di determinati stilemi cinematografici.
Quello che più mi interessa è di intrattenere facendo spettacolo, con l’obiettivo di trasmettere emozioni. Io ho una mia idea di quello che è il genere cinematografico migliore e che si ricollega a ciò che ho trovato molto interessante leggendo un manuale di sceneggiatura di Robert McKee, Story: ebbene, in questo testo si dice che le storie servono a dare senso all’ambiguità del reale, e quando un paese non riesce a produrre delle storie, e in particolare quando le produce tutte uguali, allora è in profonda decadenza. Questo pensiero mi è piaciuto tantissimo perché è riuscito a mettere sotto la giusta luce le storie ispirate a determinati film e cartoni che avevo scelto durante il mio percorso. Non capivo per quale motivo, nel corso del mio cammino universitario, dovessi mettere da parte questo tipo di storie e tutelare invece un cinema autoriale considerato più sofisticato e migliore; non sono caduto però in questa trappola, continuando a pensare che quelle storie erano altrettanto importanti per me. Ho voluto quindi proteggere quel tipo di cinema che secondo me è meraviglioso: meraviglioso perché gioca molto con lo spettatore, costringendolo a mettersi in una posizione di sospensione dell’incredulità alta. In questo modo, lo spettatore si rilassa molto e si lascia andare con più facilità: è a questo punto allora che riesci ad emozionarlo più nel profondo, cosa che magari non è detto che riesca ad ottenere quel tipo di cinema intimista che imperversa in Italia e che è diventato ormai un genere a sé, sempre uguale a sé stesso e che non funziona ormai più. Naturalmente quest’ultimo discorso non è riferito a Caligari che io considero un maestro. Azzeccatissima la scelta di Ilenia Pastorelli, come mai la scelta è ricaduta su di lei? Dopo aver fatto una trentina di provini, nei quali avevo visto alcune tra le più grandi attrici italiane del panorama italiano, non ero ancora stato convinto da nessuno. Ero in un enorme fase di conflitto; se da un parte non volevo fare delle riproduzioni filologiche scontate, avevo il forte bisogno che l'attrice protagonista fosse autoctona, del quartiere, o quantomeno avesse il talento di poterlo raccontare quel quartiere. Purtroppo non riuscivamo a trovarla. Nicola addirittura si era ispirato in alcune battute, proprio a lei, che l'aveva vista al grande fratello! “A na certa” mi disse “ma guardate a Pastorelli, me fa tanto ride e magari è pure brava”. Alla fine la sua intuizione si rivelò esatta, era bella, simpatica e brava! Abbiamo lavorato tanto, l'ho fatta studiare con un mio amico in un “super corso intensivo” di come gestire il proprio vissuto e la propria emotività. Il valore umano di questa ragazza è davvero importante, parliamo di una ragazza che ha avuto dei trascorsi particolari e dovevamo lavorare proprio su questo, dovevamo saper gestire quella preziosa emotività. Un giorno mi chiama e mi dice con grande spontaneità: “Senti Gabriè ma comunque sto lavoro funziona così: devio pijà quello che sento e metterlo dentro e battute, no?”. Io gli risposi un “semplice”: “sì è così, fallo te và” e da lì ebbe inizio il nostro lavoro! Aveva decisamente imparato (ride). ![]()
Dietro il mistero del budino alla vaniglia, alimento preferito da Enzo, cosa si nasconde? Ce lo puoi svelare?
Guarda questa “cosa” del budino mi diverte tantissimo. Spesso litighiamo con Nicola Guaglianone e Menotti per la paternità di questa invenzione. In realtà per anni, non potendo più mangiare latticini, una cosa che, non vi nascondo, “mi fa rosicare da morire” considerato che ne bevevo un litro e mezzo al giorno, per ovvi motivi di salute ho iniziato a mangiare gli yogurt. La mattina prendevo chili di corn flakes e “ce mettevo” gli yogurt dentro. La gente quando veniva a casa mia e apriva il frigo rimaneva abbastanza basita e perplessa, si trovava davanti a uno spettacolo bizzarro perché vedeva oltre cinquanta yogurt. Loro (gli sceneggiatori) per farmi un dispetto hanno messo i budini alla vaniglia, che c'hanno il latte (ride). Ovviamente tutto questo serviva a raccontare l'immaturità del protagonista. Se il Leon di Luc Besson ha il latte, il nostro Enzo ha il budino, perché sostanzialmente è un bambino che si nutre ancora di cose dolci, non avendo ancora imparato a nutrirsi come i grandi. Questo è senza dubbio il significato principale. Il finale di Lo chiamavano Jeeg Robot è aperto, facendo presagire la possibilità di un suo seguito. Stai lavorando a qualcosa del genere? Ci stiamo lavorando, e quotidianamente butto giù idee insieme agli altri. Nicola faceva un paragone interessante, dicendo giustamente che non avrebbe senso raccontare di nuovo Rambo con i muscoli, fascetta e mitra in mano ma sarebbe più interessante parlare invece dello stesso Rambo con gli stessi muscoli, fascetta e mitra ma con maggiore conflitto interiore. Se non si fa questo ma si ripropone semplicemente il protagonista contro il cattivo di turno si perde la grande emozione che un personaggio travagliato come Ceccotti può regalare. Vogliamo anzi che il secondo capitolo sia migliore del primo.
Basette (2008) e Tiger Boy (2012): la recensione
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«Il mio primo vero giorno da ladro iniziò con le lacrime. Vorrei che l’ultimo finisse con un sorriso» Vogliamo inziare con questa frase per introdurvi lo struggente: Basette, un corto ispirato ai personaggi del celebre cartone giapponese Le avventurre di Lupin III, si tratta del primo esperimento da parte della coppia Mainetti/Guaglianone di inserire un personaggio protagonista della loro infanzia in un contesto difficile come la periferia romana, non un fan movie ma un vero e proprio corto di qualità diretto magistralmente dal nostro regista. Protagonista è Antonio, interpretato dal grandissimo Valerio Mastrandea, un giovane della borgata romana che tira a campare compiendo piccoli furti; una persona mediocre cresciuta negli anni Settanta con il mito del più famoso ladro dei cartoon. La sua è una famiglia di taccheggiatori di supermarket, che ricorda più i personaggi di Pier Paolo Pasolini che i coatti visti in Er Monnezza. Proprio il costume di carnevale del ladro gentiluomo fu il suo primo furto, nel giorno in cui la mamma fu arrestata. Da quel momento sono passati tanti anni e ora Antonio parte con i suoi due compagni Franco (Marco Giallini) e Tony (Daniele Liotti) per andare a fare una rapina all’ufficio postale, che dovrebbe sistemare per sempre le loro vite ‘’già scritte’’. Di colpo il corto diventa un adattamento a la romana di un possibile episodio del famoso manga. Antonio è proprio Arsenio Lupin durante il paradossale interrogatorio con l’ispettore di polizia Zenigata (Flavio Insinna), e i suoi due soci si sono trasformati in Jigen e Goemon, che invece di salvare l’amico arrestato si mettono a consumare droga (er pakistano del cavaliere nero) trovata nel deposito sequestri nel commissariato. Il nostro eroe, tuttavia, riesce a evadere anche da solo, ingannando per l’ennesima volta il goffo ispettore, andandosene poi in moto con Fujiko(Luisa Ranieri). La fine è incredibilmente amara e commovente. Da mozzare irrimediabilmente il fiato. Proiettato al sedicesimo Arcipelago Film Festival, il film ha vinto una lunga lista di premi per il genere cortometraggio e non c’è da stupirsi: nonostante i personaggi dei cartoni animati giapponesi siano soltanto degli involucri in cui agiscono dei personaggi assurdi ma pur sempre scelti in un panorama realista, questa atipica unione tra anime e criminalità di borgata è stata una ventata di freschezza e di novità. Stesse sensazioni che si possono provare vedendo Lo chiamavano Jeeg Robot. Il formidabile corto è già un Cult e non possiamo non lodare il regista romano per l’azzecatissima scelta degli attori, un mix tra volti cinematografici e televisivi. La trasposizione è a dir poco incredibile e Valerio Mastrandea nei panni del ladro più amato di sempre è assolutamente irresistibile! Menzione d’onore(lasciatemelo dire) anche per il grandissimo Marco Giallini, nessuno avrebbe potuto interpretare Jigen meglio di lui. Nel secondo corto presentato sempre da Mainetti al Cinema Arsenale di Pisa possiamo ammirare tutta la maturità acquisita dal regista.
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Il potentissimo e d’impatto Tiger Boy ci catapulta nella vita del piccolo Matteo, interpretato dal brillante Simone Santini, un bimbo di nove anni, che decide di riprodurre con ago e filo, la maschera del suo eroe preferito,‘’El Tigre’’, luchador professionista della periferia romana. Attraverso gli occhi brillanti e sognatori del piccolo compieremo un viaggio di rara bellezza, lo spettatore verrà subito colpito dalla durezza dell’argomento trattato. Scopriremo insieme che dietro ‘’il capriccio’’, battezzato troppo in fretta dalla stessa madre del protagonista e dai grandi, si nasconde tutta la paura e l’insicurezza di un bambino abusato, dall’insospettabile psicologo infantile della scuola, interpretato da Francesco Foti. Vivremo insieme a Matteo la sua innocente routinne, fatta da merende a base di sandwich al tonno e lunghe passeggiate tra i quartieri periferici di Roma, scandite purtroppo da tormentati incubi. Un giorno però la vita del nostro piccolo paladino cambia. Da solo trova la location dove il suo combattente preferito di Corviale deve sfidare il temibile avversario ‘’Er Dannato’’! El tigre ‘’gana’’ (vince) l’incontro e si volta verso Matteo, guardando dritto negli occhi, infondendogli quel coraggio e quella forza che servirà al piccolo a sconfiggere il suo aguzzino e a riprendersi le redini della propria giovane vita!
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‘’I pezzi de merda fanno meno paura, visti dall’alto!’’ è questa la frase ‘’fatality’’ del luchador romano ed è proprio la sfrontatezza e la ‘’cazzimma’’ di quest’ultimo che aiuteranno il nostro piccolo protagonista, dal cuore grande, a ritrovare la sua strada e strapparci più di una lacrima e un sorriso alla fine del corto. La dinamica è la stessa vista per ‘’Basette’’. Il corto è ispirato al famoso manga: ‘’Tiger Man’’ il nostro mitico ‘’Uomo Tigre’’. Attraverso il parallelismo col cartoon Mainetti e Guaglianone ci raccontano un storia vera e cruda, un rapporto madre figlio difficile, velato da un grandissimo e macabro segreto, una storia di riscatto e coraggio, un racconto puro che prende subito lo spettatore e ci fa notare fin da subito il grandissimo balzo in avanti compiuto dal regista e dallo sceneggiatore, dal 2008 al 2012. Ovviamente il secondo capolavoro di Mainetti ha riscosso un notevole successo, ottenendo notevolissimi e prestigiosi premi come: Grand Prix du Film Court de la Ville de Brest al Festival Européen du Film Court de Brest, Premio Nastro d'argento al migliore cortometraggio o il Best Script Award al Naoussa International Film Festival! Il regista si supera addirittura, firmando anche la musica e la produzione, mentre Guaglianone cura il soggetto e la sceneggiatura. Qui In basso potrete trovare entrambi i corti, pubblicati dalla Goon Films, casa di produzione di Gabriele Mainetti.
TIGER BOY from Goon Films on Vimeo. Immagini tratte da:
Tanto per cominciare, dovremmo rispondere ad una sola domanda: quante volte abbiamo ascoltato musica a occhi chiusi? Ci sarà capitato milioni di volte, e sotto le nostre palpebre abbiamo immaginato praticamente di tutto, dalle più belle storie d’amore, alle guerre più feroci, corse, terribili drammi e, ammettiamolo, almeno un’ apocalisse. In sostanza abbiamo girato dei film. Ebbene sì, siamo riusciti ad essere almeno una volta degli ottimi registi di un film tutto nostro, solo grazie a un ingrediente esterno: la musica. O meglio, la colonna sonora del nostro capolavoro immaginario. Quando all’inizio del secolo scorso, all’epoca del muto, il cinema non possedeva ancora il sonoro, si assisteva a una proiezione di immagini in sequenza (fotogrammi) di attori che si muovevano ma non parlavano, di porte che sbattevano ma non emettevano rumori, di treni che passavano senza che le locomotive stridessero sui binari. Insomma sembrava di esser diventati sordi, o di vivere in una campana. Se non fosse che tutto ciò era accompagnato da un’orchestra dal vivo che accompagnasse, appunto, la proiezione di quelle ‘pellicole’ in enormi e nuove immagini in movimento, cercandone attinenza sentimentale, spesso con scarsi risultati. Era il 1927, con Il suonatore di Jazz, quando per la prima volta fu battezzato il sonoro nei film, l’orchestra non comparve più e la musica era inserita (anche se solo parzialmente) direttamente all’interno del film. Nacque così, la prima Colonna Sonora, una composizione di uno o più brani solitamente orchestrali che accompagnano talune scene di un film per arricchirne il contenuto ed enfatizzarne il messaggio. La colonna sonora, chiamata così perché il suono veniva registrato sulla pellicola in senso longitudinale, segnò un vero e proprio salto di qualità per quella che stava diventando ormai una vera e propria industria. Gli spettatori iniziarono ad essere ancora più affascinati da quel mondo lontano che fino ad allora avevano potuto vedere ma non ascoltare, e mai assaporare pienamente in tutta la sua magia. Si ascoltava la voce degli attori, ci si spaventava a un grido improvviso, si rideva allo humor di una battuta… ma sopratutto ci si sentiva immersi completamente in una storia che veniva deliziata dalle note di un violino straziante, o da quelle allegre di un pianoforte ,proprio perché l’orecchio che ascoltava la musica di un film iniziò ad avere un potere di “intuito della scena e sintesi dei sentimenti” molto rapido. La colonna sonora (semplicemente soundtrack in inglese) iniziò a divenire così vera protagonista nel gioco di regia, e con il consolidamento del cinema divenne urgente cercare “addetti ai lavori”, quindi musicisti e/o direttori di orchestra che dedicassero tutta una loro opera al completamento di un film, tanto che nei decenni si sono creati sodalizi celebri tra registi e compositori: Nino Rota per Federico Fellini, Danny Elfman per Tim Burton, John Williams per Steven Spielberg e George Lucas, Nicola Piovani per Roberto Benigni, Angelo Badalamenti per David Lynch e ovviamente per Sergio Leone e Giuseppe Tornatore il grande Ennio Morricone (da poco celebrato con il secondo premio Oscar, dopo quello alla carriera). Grandi opere d’arte nate in questo modo ci hanno permesso di vivere un sogno, catapultandoci a suon di pistole con Clint Eastwood nel lontano west, nei vivaci ’60 con Audrey Hepburn e la sua ‘Colazione da Tiffany’ sulla delicata ‘Moon River’ di Henry Mancini, nella storica Roma di Hans Zimmer in ‘Il Gladiatore’, nel ‘Favoloso mondo di Amèlie’ di Yann Tiersen, sul ring con Bill Conti in ‘Rocky’, e infiniti altri universi che in molti casi hanno fatto di queste sinfonie alcuni veri trionfi nel mercato della musica mondiale, nonostante per alcuni studiosi, quando una musica ‘rimane’ o la canticchiamo uscendo dal cinema, ha svolto solo superficialmente il suo compito poiché non è stata in grado di cucirsi con la trama, quindi non è stata assorbita sufficientemente dal nostro cervello. Tanto che, controtendenza, c’è chi preferisce non utilizzarne. In qualunque caso, eccellenze straordinarie di questo tipo create per il cinema, rimangono e rimarranno probabilmente il veicolo principale per le nostre emozioni in quella sala con poltrone rosse e pop corn, consentendoci di sognare a orecchie drizzate il nostro personalissimo film a occhi chiusi!
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Dall’ultimo piano di un edificio di New York, un uomo, con una maschera sul volto e con degli abiti antichi, tenta di suicidarsi: egli è Don Juan de Marco (Johnny Depp), il più grande amante del mondo. Verrà poco dopo distolto dall’intenzione di farla finita dall’entrata in scena di uno psichiatra, Jack Mickler (Marlon Brando). Ci accorgiamo fin dalle prime battute, anche in seguito all’effetto straniante degli abiti indossati da don Juan, in un film non in costume, del suo trovarsi in una condizione irreale, delirante, ma non per questo priva di elementi di riflessione . La pellicola Don Juan de Marco - Maestro d’amore (1995, regia di J. Leven), il cui soggetto è liberamente ispirato al Don Juan (1819-1824) di Lord Byron, non è unicamente ascrivibile al genere della commedia o del film sentimentale, ma risulta avere degli accenti drammatici che emergeranno progressivamente durante le sedute psichiatriche a cui il giovane verrà sottoposto. La malattia mentale diventa, all’interno della pellicola, un potente strumento per evadere da una realtà che non piace e che offende: Il giovane si è costruito una maschera che gli permette di schermarsi dal dolore per i numerosi tradimenti della madre verso il padre, per la prematura scomparsa di quest’ultimo e per la forte insicurezza nei confronti delle donne. Come capiremo infatti, la ragione per cui aveva tentato il suicidio, senza averne peraltro la reale intenzione, era stato il rifiuto da parte di un’attrice che aveva tentato goffamente di sedurre, fallendo. La maschera diventa non appena un elemento compensatorio della vita che non piace e che frustra, ma realtà più vera della realtà: le cose cambiano e hanno luogo solo nell’immaginifico e accattivante universo che il ragazzo si è costruito. Noi vediamo questo mondo in tutto il suo fulgore attraverso i suoi occhi e il suo cuore puro, quando racconta dell’amore che aveva legato i genitori, delle sue innumerevoli amanti sparse nel mondo, quando parla della sua- tra tutte la più amata - donna Anna, come pure quando si ostina ad insistere nell’affermare di trovarsi in una villa, invece che in un ospedale e di conversare con un fantomatico don Octavio, piuttosto che di essere interrogato da un medico. Dalla fredda e formale ambientazione dello studio di uno psichiatra di un ospedale americano, siamo coinvolti e trasportati in vari luoghi, viaggiando assieme don Juan e, finendo quasi per credere che la vera realtà sia quella della fantasia/malattia di uno sbullonato che delira. Chi ascolta le esaltanti vicende amorose di don Juan è il dottor Jack Mickler, interpretato da Marlon Brando, in una delle sue ultime apparizioni cinematografiche. Lo psichiatra, giunto alle soglie della pensione, si ostina a non voler trattare il delirio clinicamente, attraverso i farmaci: intuisce la straordinaria ricchezza interiore di quello che per i suoi colleghi è un ordinario malato di mente, affetto da disturbo ossessivo- compulsivo con componente erotomane. La “malattia” del giovane è invece uno stato di grazia, che permette di vedere ciò che è invisibile agli occhi e che ha effetti benefici sullo stesso terapeuta, il quale, svegliato dal sonno di una vita ordinaria e incolore, si trova a chiedere alla moglie quali speranze e quali sogni avesse perso mentre lui era troppo impegnato a pensare a se stesso. Più in generale, torna a vivere proprio attraverso l’ultimo caso che lo separa dalla pensione, ridestato dalle parole del giovane. Meritano di essere citate le quattro domande che don Juan rivolge ad uno affascinato e, nello stesso tempo, scosso Mickler: << Che cosa è sacro? Di cosa è fatto lo spirito? Per cosa vale la pena morire? Per cosa vale la pena vivere?>>. La risposta a tutti e quattro i quesiti è unica: l’amore. L’atmosfera non suggerisce di trovarci all’interno di un ospedale per buona parte dello svolgimento del film. L’effetto è ottenuto soprattutto tramite l’escamotage del cambio di ambientazione che ci conduce nei luoghi e nelle circostanze in cui il protagonista immagina di essersi trovato, e, in parte, tramite le note della splendida e delicatissima Have you ever really loved a woman? (musica e testo di Bryan Adams, Michael Kamen e Robert John Lange, Nomination Oscar 1995 per la migliore colonna sonora), che accompagna le scene più salienti.
Pur se forse attraverso un’eccessiva semplificazione dello stato di malattia, visto troppo blandamente come marcata sensibilità e, ottimisticamente, come punto di vista privilegiato sulla realtà, il film coinvolge quanto le appassionate dissertazioni del protagonista: don Juan, innamorato dell’amore, capovolge modi ordinari di vedere e sentire, aprendo a visioni creative e non convenzionali della vita che spingono anche noi a non limitare il nostro sguardo e a rivolgerlo, per quanto possibile, oltre il visibile. Le immagini sono state realizzate tramite screenshots durante la visione del film.
A quarant'anni esatti dall'uscita del capolavoro noir del regista italo-americano che per la prima volta raccontò in modo puro e crudo la storia di un reduce dal Vietnam.
"La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina. Per strada, nei negozi. Dappertutto. Non c'è scampo. Sono nato per essere solo." Travis Bickle ripete in uno dei suoi frequenti monologhi interiori queste frasi, ben consapevole di una vera e propria maledizione che gli pende sulla testa da quando è nato. Uno stato di alienazione all'interno della società, di difficoltà di integrarsi di cui egli soffre probabilmente da sempre, e che risulta maledettamente peggiorato dopo i trascorsi tra i marines nella Guerra in Vietnam e il conseguente disturbo da stress post-traumatico che lo induce al ritorno a New York City a tentare di iniziare una nuova vita. Una vita da tassista. Taxi Driver.
All'epoca 34enne il regista Martin Scorsese che aveva gia ricevuto un'ampia fama hollywoodiana con il gangster cupo "Mean Streets - Domenica in chiesa, lunedì all'inferno" del 1973, con attenzione lesse e approvò in breve tempo un copione consegnatogli dallo sceneggiatore Paul Schrader, che l'aveva scritto ispirandosi da una parte agli scritti di Arthur Bremer aspirante omicida del Presidente americano George Wallace e dall'altra allo stress personale da lui vissuto nel periodo in cui divorziò dalla moglie andandosene a vivere nella sua macchina. Scorsese recuperando spunti provenienti dall'Esistenzialismo di Sartre e Camus e affascinato dall'album Astral weeks di Van Morrison prima scelse Al Pacino come suo protagonista, ma al rifiuto di questi si affidò a Robert De Niro, e mai scelta fu più saggia. Tanto per il successo del film in sè che conquistò la Palma d'Oro al Festival di Cannes nel 1976, portò a casa 4 Nomination agli Oscar ma soprattutto divenne ed ancora oggi dopo quarant'anni resta un Cult nella storia del Cinema. Quanto perchè dopo l'esordio in "Mean Streets", da "Taxi Driver" in poi iniziera tra regista ed attore un sodalizio fortunatissimo che passando attraverso altri grandi pellicole come "Toro Scatenato", "Re per una notte" e "Casinò" durera fino al 1995.
Dopo i titoli di apertura innaffiati dal jazz tetro ed elegante, in particolare nel celebre assolo di sax, di Bernard Herrmann geniale compositore di colonne sonore per Hitchcock che morì poco prima dell'uscita del film, si entra subito nel vivo della vicenda di questo giovane, ventiseienne dall'aria trasandata che si presenta ad un colloquio per tassisti perchè "la notte non riesco a dormire". Si chiama Travis (Paul Schrader scelse questo nome perchè contiene la radice di "travel", viaggio, con l'intenzione dunque di sottolineare l'animo vagabondo del personaggio), è un reduce dal Vietnam che a giudicare dal giubbotto delle forze armate indosso, dal fiaschetto di whiskey in tasca e dalla vita notturna trascorsa senza parlare con nessuno apparte colleghi e clienti, dalla guerra non sembra più essersi ripreso. Divide le sue giornate in due metà precise, standosene a casa dalle 6 del mattino alle 6 del pomeriggio a scrivere un diario, e le restanti a portare il suo taxi in tutti i quartieri della Grande Mela, senza distinzione di razze, al riparo dal tassametro. Mentre tra le fatiscenti o bellissime strade ne vede di tutti i colori, da distinti poltiici a teppistelli, a papponi, prostitute, spacciatori, drogati. Ma a cambiare la sua vita ci prova, e prova ad inseguire ance l'amore dopo aver vista "apparire come un angelo in tutto quel suzzume" Betsy (interpretata da Cybill Shepherd), una segretaria che lavora per la campagna di un candidato alla Presidenza, Palantine.
In alto Robert De Niro e Martin Scorsese, e Jodie Foster. In basso Cybill Shepherd e Harvey Keitel
Betsy appare la soluzione, la chiave per la normalità. Ma se l'approccio è dei migliori e lei si dimostra profondamente catturata da lui, purtroppo al primo vero appuntamento Travis mette in mostra le sue debolezze e un'ingenuita grave invitando la ragazza a seguirlo in uno dei cinema porno nei quali solitamente va quando non porta il taxi o non riesce a dormire. In un attimo il reduce subisce un crollo vertiginoso, senza appello dopo aver faticosamente e con buona volontà tentato di fare più di un passo in avanti. Il rifiuto da parte di Betsy lo getta nello sconforto, riaprendo in maniera definitiva le ferite ricevute dagli orrori del conflitto e riportando pienamente nello sciagurato stato mentale di giustiziere. Disgustato dalla giungla newyorckese, soprattutto dalla violenza dilagante di cui è testimone, Travis rivolge le sue attenzioni verso una nuova missione personale. Dotatosi di un arsenale di armi sensazionale, egli cade vittima assoluta dei disturbi psicologici di cui aveva gia dato prova finendo per individuare in Plantine, il candidato per cui lavora Betsy la ragione di tutti i suoi mali e progettare un autentico attentato ai suoi danni. L'apoteosi della follia in cui ricade il personaggio si ritrova nella celeberrima scena che lo vede parlare da solo davanti allo specchio fingendo di trovarsi Palantine di fronte a sè. "Ma dici a me, dici a me?", un monologo magistrale di un minuto e mezzo che Robert De Niro improvvisò totalmente dopo aver ricevuto una sola battuta "Travis parla allo specchio".
La parabola autodistruttiva di Travis si dipana nei 113 minuti della pellicola segnalata da elementi diversi tra cui spicca l'importanza del taglio dei capelli: da una pettinatura elegante e curata del primo approccio alla societa e a Betsy, si passa ad un taglio in perfetto stile marine per poi nel finale passare ad una repentina cresta che dall'attentato fallito lo accompagna sino all'altro obiettivo, sbagliato ed estremo parimenti, che egli si pone in conclusione. Egli si prende a cuore infatti la vicenda di una prostituta ragazzina, interpretata dall'appena dodicenne Jodie Foster all'esordio nel cinema, e tenta a suo modo di "liberarla" dal suo sfruttatore Sport (nei cui panni troviamo uno sbarbatello Harvey Keitel). Il finale del film riserva per lui stesso un'impensabile passaggio da assassino a "eroe", pur tuttavia nell'ultimo fotogramma vengano a galla i vecchi fantasmi da cui sembra non poter mestamente guarire.
Le tre "pettinature" del Taxi Driver
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<<La cosa più orribile che possa capitare ad una donna: un uomo, uno sconosciuto si è innamorato pazzamente di me>>: sono queste le parole che, a circa metà della pellicola, un’angosciatissima Nina (Florinda Bolkan), esprime ai suoi commensali. Siamo all’interno di un ricco salotto borghese in cui si svolge un’elegante cena. Metti una sera a cena (1969) è l’adattamento cinematografico dell’omonimo spettacolo teatrale del regista Giuseppe Patroni Griffi. L’interpretazione dell’allora esordiente Bolkan (in foto) le valse la Grolla d’Oro e un David di Donatello. La pellicola, ambientata quasi interamente in interni, descrive il triangolo amoroso tra Nina (Florinda Bolkan), il marito e scrittore Michele (Jean-Louis Trintignant) e l’amante di lei,attore teatrale, nonché amico del marito, Max (Tony Musante). La trama, sostanzialmente esigua di eventi salienti, mostrerà il progressivo ampliarsi del triangolo amoroso che assumerà le fattezze di quadrato e, successivamente, di pentagono, tramite l’ingresso di Giovanna ( l’amante di Michele) e di Ric (amante di Nina e di Max).
Così il gioco ricomincia! Il film risulta linguisticamente infarcito da forse eccessive riflessioni intellettualistico-filosofiche che ne appesantiscono l’atmosfera (si parla di “religione dell’amore, fanatismo e mistica del sentimento”) che contribuiscono però a dare l’idea dello spaesamento dei personaggi di fronte all’autenticità di un sentimento,
quello dell’amore, che non provano e di cui non sono oggetto (eccezion fatta per Nina che era l’oggetto dell’amore di Ric ). La tecnica del flashback e della frammentazione del montaggio strizzano l’occhio alla psicologia freudiana e, in particolare, alle libere associazioni. Il succedere degli eventi non segue un ordine cronologico, ma ci sono salti temporali in avanti e indietro, realizzati tramite l’aggancio ad elementi visivi su cui la camera indugia per poi ribaltarci in altri tempi e contesti, ma mostrando il medesimo oggetto, con un complessivo suggestivo effetto che, inevitabilmente, spinge lo spettatore a raziocinare sulla vicenda. Alla fine del film rimane insoluto l’interrogativo se <<gli uomini di valore vanno senza invito alle cene degli uomini da niente>>, come afferma Ric, citando Platone, o se invece sia il contrario, come afferma Michele, citando Omero. Questo lo lasciamo scegliere a voi, che speriamo di avere incuriosito verso la visione di una pellicola, non più giovanissima, ma che conserva indiscutibilmente, anche per via delle raffinate ambientazioni e dei costumi sofisticati, un alone di fascino, sia pur esso retrò ed intellettualistico. Immagini tratte da: - Immagine 1 da Wikipedia Italia, Di Johnny Freak - scatto di scena, Pubblico dominio, voce "Metti una sera a cena" - Immagine 2 da Wikipedia Italia, Di Angelo Frantoni - Italian magazine Playmen, Pubblico dominio, voce "Florinda Bolkan" - Immagine 3 da Wikipedia Italia, Di Olivier Strecker, CC BY-SA 3.0, voce "Ennio Morricone"
![]() La colonna sonora di Jóhann Jóhannsson, musicista e noto compositore islandese, squarcia il silenzio che si crea in sala a pochi minuti dall'inizio del film. Cupa, ombreggiante, un divenire di sospetti e tensione, che raggiunge il suo picco con una massiccia esplosione. Corpi putrefatti, poliziotti feriti e sotto shock, una vera a propria imboscata tesa dal cartello messicano, una delle organizzazioni criminali più temute al mondo. L'FBI è in ginocchio, impotente di fronte a questo spettacolo raccapricciante. La CIA allora crea una task-force per rintracciare i mandanti di quel massacro e arruola Kate, interpretata dalla bellissima Emily Blunt, stavolta nei panni di un personaggio orgoglioso e ligio al dovere. Un'agente che non sa che sta per iniziare una discesa negli inferi che metterà a dura prova la sua forte tempra morale. Dennis Villeneuve, regista franco-canadese, continua a raccontarci il lato oscuro degli Usa e dopo il capolavoro “Prisoners” ci offre il triste e solenne “Sicario”. Un sicario è generalmente colui che è affiliato a qualche organizzazione criminale, ha il suo credo e ubbidisce agli ordini senza alcuno scrupolo. Ma cosa succede quando il sicario agisce per vendetta? Cosa succede quando offre i suoi oscuri servigi alle istituzioni legali? Il regista ci mostra attraverso lo sguardo puro della giovane protagonista il mondo assurdo e violento della lotta al narcotraffico, ormai una vera e propria grandissima piaga sociale del nostro mondo. Gira un film sporco e crudo ma nello stesso tempo carico di emotività e ricco di suspense. Lo spettatore è chiamato ad una dura scelta: stare dalla parte dell'eroina senza macchia e senza paura Kate o seguire il rude e cinico coordinatore dell'operazione CIA Matt, interpretato da un solido Josh Brolin. In tutto questo caos, fatto di orrore, sangue e inquadrature di paesaggi da mozzare il fiato, spicca il ritorno di uno dei più grandi attori del panorama cinematografico mondiale: Benicio Del Toro! L'attore portoricano naturalizzato spagnolo, vincitore del premio Oscar al miglior attore protagonista e del Golden Globe per “Traffic” di Soderbergh, ci regala un'interpretazione magistrale nei panni di Alejandro, misterioso procuratore di origine colombiana, dallo sguardo ambiguo e dal viso segnato da mille battaglie. Un mix esplosivo di personaggi, una trama solida e ben scritta dallo sceneggiatore Taylor Sheridan; una fotografia geniale che si sposa a meraviglia con la colonna sonora del musicista islandese (citato all'inizio), carica di pathos e maestosità fanno di “Sicario” un film eccellente e ben diretto. Certo non ai livelli di “Prisoners” o “La donna che canta”, precedenti capolavori del regista, ma di sicuro un film che vale la pena di recuperare, che vi farà stare in sospeso fino all'ultimo secondo. Una pellicola che gioca con la sensibilità dello spettatore e ci invita tutti a riflettere sulle sfumature più dark dell'essere umano di oggi. Dall'altra parte del mondo, nella frontiera fra Messico e Stati Uniti si combatte quotidianamente una battaglia tra brutalità e civiltà, ma siamo davvero sicuri che questa civiltà non sia solo apparente, non sia solo l'ennesimo scherzo cupo della coscienza sporca di un paese che non fa altro che bombardarci di falsi idoli? Lo scoprirete solo vedendo l'ottima pellicola: “Sicario”. IlTermopolio vi invita a riempire le sale del cinema anche questa settimana e vi augura come sempre una buona lettura e una buona visione! A presto con il vostro consueto appuntamento con IlTermpolio. Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=JI6tq5WsD-w Soundtrack: https://www.youtube.com/watch?v=gCb2pKgNXd8 Immagini tratte da:
- poster Sicario: www.beethovenfm.cl - fuoriposto.com - thefilmstage.com - www.rbcasting.com - www.cineblog.it
In settimana abbiamo incontrato il giovane regista di corti forlivese Luca Zambianchi, per parlare dell'uscita del suo nuovo lavoro "Solitudine on demand", della sua formazione decennale e dei progetti futuri.
Luca Zambianchi ha appena 23 anni ma ne ha fatte di cose. Nato a Bologna nel 1992, ha però sempre vissuto nella "sua" Forlì, da cui si sposta dopo la fine degli studi liceali per volare a Londra e laurearsi in Management. Nel 2014 tuttavia sente il richiamo forte di rientrare in Italia, e si trasferisce a Pisa, dove vive tuttora e parallelamente agli studi porta avanti la passione per la regia e la scrittura di cui si nutre da sempre e che trova nella forma del cortometraggio la sua traduzione migliore. Così dopo l'esordio due anni orsono con la commedia grottesca "Bassa Marea", selezionata al XII Sedicicorto Film Festival di Forlì, nel Gennaio scorso Zambianchi pubblica la sua seconda opera "Solitudine on demand", una commedia drammatica dalle tinte ironiche ed amare allo stesso tempo tempo realizzata con una produzione totalmente indipendente.
Girato l'estate passata nelle campagne romagnole, il corto nella durata di 13 minuti mette in scena un fantasioso dialogo tra un uomo della società attuale (interpretato da James Foschi), che stressato dal tran-tran quotidiano un giorno cerca pace in un luogo disabitato lontano dalla città, e un personaggio stravagante ma saggio e perspicace che stando alle sue parole incarna la Solitudine in persona (ruolo ricoperto da Gianfranco Bottaini). Ansimando più per le fatiche mentali che fisiche provate da una vita che non ammette pause tra visualizzazioni, notifiche e like, l'uomo del nostro tempo arriva in un prato verde coperto lievemente dall'ombra di un albero per respirare appieno un pò di aria pura e soprattutto starsene in completa solitudine. Ma appena dopo pochi attimi egli si ritrova ad essere chiamato da un giovane coperto da abiti antichi, di un tempo chiaramente molto lontano, ma che dimostra di essere al passo con la contemporaneità fumando la sigaretta elettronica, mostrandogli una sua carta d'identità e infine proponendogli addirittura un selfie. Costui si presenta senza timore come la Solitudine, e nonostante le comprensibili proteste iniziali da parte del suo interlocutore, riesce grazie alla sicurezza della sua dialettica a persuaderlo presto ad ascoltarlo e a confidargli i motivi che l'hanno condotto a recarsi da solo in aperta campagna.
L'uomo del Terzo Millennio è stimolato a rivelare le pressioni di cui si sente vittima sfinita tra lavoro, famiglia e tutto il resto dinanzi ad una persona giocosa ma scaltra, altruista ma talvolta rattristata dalla sua condizione secolare di emblema del solitario. Ad un certo punto infatti i ruoli tra i due protagonisti arrivano ad invertirsi, con l'uomo del giorno d'oggi che si propone di fare compagnia paradossalmente alla Solitudine in un momento di debolezza di quest'ultima. Ma è solo un momento, necessario alla Solitudine per riprendere fiato prima di sottoporre il suo interlocutore ad alcuni "test terribili" per verificare se sia sincero o meno il suo desiderio di iniziare un'esistenza diversa, distaccata dal conformismo.
"Stimolare lo spettatore a riflettere sulla società contemporanea" è questo il fine perseguito dal regista Luca Zambianchi nella messa a punto del film. Sulla base di un'osservazione delle pieghe negative e superficiali causate dall'abuso della tecnologia nella società odierna, egli decide di esternare il suo punto di vista sulla situazione servendosi di componenti comiche e grottesche per non appesantire eccessivamente il discorso. L'uomo del Terzo Millennio risulta molto verosimile nella sua ansia generale, l'aria confusa e la facilità nel lasciarsi consolare. Riprendendo la lezione dei suoi modelli cinematografici, da Woody Allen a Nanni Moretti e Paolo Sorrentino fino alle scuole di pensiero della Nouvelle Vague e del Dogma scandinavo, Zambianchi tenta di sviluppare un cinema fatto di confronti autentici tra le persone, di conversazioni alla riscoperta dell'importanza dei valorie dei sentimenti, a discapito della spettacolarità di effetti speciali e ambientazioni da urlo che spesso bastano da sole a sbancare il botteghino.
"Solitudine on demand" invece è stato completato a budget 0, con riprese effettuate in pochi pomeriggi inoltrati al termine di una giornata di lavoro, e grazie alla volontà di un gruppo di persone che hanno messo a disposizione le loro differenti competenze senza ottenere una ricompensa in cambio. Presentato al Cinema Arsenale di Pisa il mese scorso nello spazio del giovedì riservato ai giovani videomakers, il cortometraggio ha concorso in questi giorni al 34esimo Valdarno Cinema Fedic, festival del cinema che anima la cittadina aretina attraverso proiezioni, premiazioni e ospiti di alto livello (quest'edizione ha visto la presenza di Carlo Verdone). Impegnato nella promozione del suo lavoro in attesa di conoscere il docu-film in uscita quest'estate dedicato alla storia dei cinema caduti in disuso nella sua Forlì, Luca Zambianchi ha riservato a "Solitudine on demand" un suo sito internet esclusivo (www.solitudineondemand.com), all'interno del quale è possibile trovare diversi contributi relativi alla pellicola, dalla presentazione della troupe e del cast, alle immagini riprese dal set e alla rassegna stampa.
- Immagini gentilmente concesse da Luca Zambianchi - Video tratto da Vimeo
Quando il 9 luglio 2013, la Walt Disney Pictures annunciò che il remake-live action de “Il Libro della Giungla” era in fase di sviluppo, iniziò a dilagare dello strano scetticismo tra i critici di tutto il mondo. Paura attorno a una tecnologia così poco conosciuta ai tempi, il live action appunto, ma che grazie al coraggioso regista Jon Favreau e l'intrepido presidente dei Walt Disney Studios, Alan Horn non ha minimamente intaccato la preparazione della pellicola, arrivata in aprile in tutte le sale e sbancando fin da subito i botteghini di tutto il globo. Rivelandosi una scommessa vinta al cento per cento è ormai quasi scontato, l'inizio di un filone di film di genere dedicati al panorama Disney (in cantiere Dumbo e Aladdin). Piaciuto moltissimo a tutti gli appassionati Disney e non solo. Anche i non fan del “cartoon” sono rimasti entusiasti dall'incredibile connubio tra fantasia e CGI. Tutto merito del grandissimo lavoro del regista Jon Favreau, che ha diretto la trasposizione del classico Disney in maniera sincera e piena di passione, che mantiene intatte le canzoni divertentissime e la “suspense” delle innumerevoli avventure del “cucciolo d'uomo”. Secondo Favreau la storia è il fattore principale, un racconto talmente universale ed emozionante in cui tutti possono identificarsi. Non parla solo del percorso di crescita del piccolo Mowgli ma è una storia di interazioni sociali, di problemi tra razze e questo rende il racconto non solo unico ed estremamente educativo ma anche molto attuale.
Da sinistra a destra Mougli e Bagheera cartoon, e Mougli e Baghera film
Grazie all'intervento degli ormai lanciatissimi studi teatrali di posa del Los Angeles Center Studios e gli effetti in computer grafica della Mooving Picture Company (MPC) e la Weta Digital si è riuscito a dare vita ai personaggi a cui tutti i fan sono affezionati. Renderli fotorealistici grazie all'utilizzo, da parte degli Studios, di alcuni filmati e documentari dei movimenti di animali reali. Non si può inoltre non elogiare di nuovo il regista statunitense per aver scelto in mezzo a milioni di bambini presentatosi ai cast, il piccolo ma talentuosissimo Neel Sethi, assoluto mattatore del film. Il giovane attore di New York si destreggia con “nonchalance” assoluta in mezzo a un cast di “big stars”, parliamo di: Ben Kingsley, nel ruolo della saggia pantera Bagheera, il nuovo 007 Idris Elba, nei panni della feroce e spietata tigre killer Shere Khan, la bellissima Scarlett Johansson, nel ruolo dell'ipnotica Kaa, e il folle genio di Bill Murray, che ci diverte tantissimo con il suo Baloo, davvero spumeggiante ed energico come nel capolavoro Disney.
Da sinistra a destra Idris Elba, Neel Sethi e Scarlett Johansson
Non di meno e ci tengo a sottolinearlo, il lavoro stupendo effettuato dal doppiaggio italiano. Le interpretazioni di: Tony Servillo (Bagheera), Neri Marcorè (Baloo) e la rivelazione, un bravissimo Giancarlo Magalli (Re Luigi) vanno assolutamente sottolineate e applaudite. Una vera rivincita per i nostri attori, spesso troppo bistrattati e presi poco sul serio. Alla Disney infine dobbiamo fare tutti un grande plauso per aver diretto in punta di piedi un lavoro eccezionale e ben riuscito, per aver saputo rigenerare e rimodernare un racconto classico ma soprattutto per aver trattato con estrema cautela una storia che è rimasta impressa nella mente e nel cuore di miliardi di appassionati. Un'esperienza emozionante, un grande spettacolo visivo che ha mantenuto intatto il legame emotivo che unisce il pubblico ai personaggi. Regalando ancora una volta un'avventura per grandi e piccini piena di brividi, emozioni e grandissima umanità, cosa che sopratutto in questo secolo deve servirci da lezione.
Da sinistra a destra il Cast del doppiaggio italiano, Giancarlo Magalli e Neri Marcorè
Insomma IlTermpolio vi invita caldamente a vederlo al cinema e a farvi trasportare dal duo Mowgli-Baloo sulle note dello “Stretto indispensabile”, che come dice il meraviglioso brano Disney: “In fondo basta il minimo, sapessi quanto è facile, trovar quel po' che occorre per campar!” IlTermopolio vi saluta e vi dà appuntamento alla prossima settimana, augurandovi un buon primo maggio e rinnovandovi l'invito ad andare sempre al cinema! A presto e buona visione.
Immagini tratte da:
locandina, da gamesurf.it Mougli e Bagheera cartoon, www.filmtv.it Mougli e Baghera film, kids.screenweek.it Idris Elba, www.supergacinema.it Neel Sethi, www.thejakartapost.com Scarlett, magicomondodeicineamanti.altervista.org cast doppiaggio italiano, chiacchiere-dal-foyer.blogspot.com Neri e Magalli, www.myreviews.it |
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Giugno 2023
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