IL TERMOPOLIO
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29/5/2019

Rocketman: la recensione

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Un viaggio nel cuore di Reginald Dwight e di come sia riusciuto a diventare una delle leggende musicali della nostro tempo. Un film per chi ama sognare ad occhi aperti che troverete dal 29 maggio in tutte le sale.

Paese: Regno Unito                               
Genere: Biografico, Musical
Anno: 2019
Regia: Dexter Fletcher
Sceneggiatura: Lee Hall
Fotografia: George Richmond
Musiche: Matthew Margeson
Costumi: Julian Day
Distribuzione: 20th Century Fox
Attori: Taron Egerton (Elton John) Jamie Bell (Bernie Taupin) Richard Madden (John Reid) Bryce Dallas Howard (Sheila Eileen).
 
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Rocketman è un biopic autobiografico, fortemente voluto dal produttore sir Elton John. Dal 2012, ha cambiato diversi registi e attori protagonisti prima di trovare una sua forma definitiva. Inizialmente Michael Gracey (The Greatest Showman), avrebbe dovuto dirigere la pellicola con Tom Hardy come protagonista, tuttavia, a seguito di divergenze creative, Elton John ha deciso di cambiare studio, portando il progetto in Paramount Pictures ed assumendo Dexter Fletcher come regista. Lo stesso Fletcher, nel 2018, aveva salvato un altro celebre biopic, Bohemian Rhapsody, dal naufragio, a seguito dell'abbandono del regista Bryan Singer. In effetti, rispetto a Bohemian Rhapsody, si nota una certa somiglianza di stile nelle riprese e nel ritmo del montaggio. Che i due film siano diretti, almeno in parte, dalla stessa mano, è abbastanza evidente. Solo, in questo caso, il punto di vista attraverso cui si sviluppa la narrazione è soggettivo, interno al protagonista. E già questo, tra i due film, genera un'enorme differenza.
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Il film è tutto un lungo flashback, narrato direttamente dalla voce del protagonista. Lo stesso Elton John, interpretato da uno straordinario Taron Egerton, racconta gli episodi più importanti della sua vita durante una seduta di riabilitazione dall'abuso di alcool e droga. Questo permette alla pellicola di staccarsi dal realismo della rappresentazione e di prendersi il lusso di virare verso immagini più astratte e metaforiche. Fletcher sceglie di realizzare un vero e proprio musical, dove le canzoni non sono relegate a momenti in cui Elton John, realisticamente, canta su di un palco, ma sconfinano all'interno della narrazione, portandola avanti ad un livello più empatico e profondo. All'inizio questo espediente spiazza un po', ma quando si entra nel gioco e ci si lascia andare, la fiducia dello spettatore viene ripagata appieno da uno spettacolo maestoso, coinvolgente e, a tratti, commovente. La sceneggiatura di Lee Hall (già Premio Oscar per la sceneggiatura originale di Billy Elliot) colpisce nel segno, mantenendo un buon bilanciamento fra realismo e astrazione. I testi delle canzoni sono integrati in maniera pressoché perfetta, tanto che i brani sembrano quasi essere stati scritti apposta per il film.
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​Taron Egerton guida un cast eccezionale, tra cui spicca un Jamie Bell (Billy Elliot) che buca lo schermo al suo fianco, nei panni dell'amico fraterno e paroliere delle canzoni Bernie Taupin. Egerton stupisce, il "suo" Elton John prende letteralmente vita. Colpisce al cuore e commuove. C'è un primo piano in particolare quando, prima di entrare in scena in un concerto, dietro alle quinte, Elton John prova il "sorriso finto" che dovrà tenere di fronte al pubblico. In quel momento, i suoi occhi mostrano chiaramente il dolore che prova al di sotto della maschera di ostentata spavalderia che mostra al mondo. Il suo sguardo racconta più in quel breve istante di quanto potrebbero fare mille parole. La messa in scena è sontuosa, con piani sequenza dinamici ad enfatizzare coreografie perfette ed effetti visivi sempre credibili, eleganti e mai invasivi, neanche nei momenti più astratti e surreali. Il costumista Julian Day (già nominato ai BAFTA per Bohemian Rhapsody) ha fatto un lavoro eccezionale nel riprodurre gli sgargianti e vistosi abiti di scena di Elton John. Nei titoli di coda, infatti, vengono nuovamente mostrati, affiancati dalle foto degli originali indossati da Elton John, per mostrare l'incredibile lavoro di ricostruzione effettuato. 
Immagini tratte da:

Locandina:
MyMovies.it
Immagine1: JaMovie.com
Immagine2: NewsMtvItalia.it
Immagine3: NewsHub

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26/5/2019

Matthias et Maxime – Speciale Cannes 2019

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di Federica Gaspari
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​Genere: drammatico
Anno: 2019
Regia: Xavier Dolan
Attori: Xavier Dolan, Gabriel D’Almeida Freitas, Pier-Luc Funk, Antoine Pilon, Samuel Gauthier
Sceneggiatura: Xavier Dolan
Fotografia: André Turpin
Montaggio: Xavier Dolan
Produzione: Sons of Manuels
Paese: Canada
Durata: 119 min

Sin dall’annuncio dei titoli in gara nella selezione ufficiale di Cannes 2019, l’ultimo lavoro di Xavier Dolan è stato tra i più attesi e discussi. La curiosità alla vigilia dell’anteprima era altissima per ovvi motivi: Matthias et Maxime rappresenta l’inizio di un nuovo percorso per il giovane regista canadese. Il film, realizzato interamente in lingua francese, è un deciso cambio di rotta dopo la travagliata e infelice produzione hollywoodiana di The Death & Life of John F. Donovan. Quest’ultima fatica, presentata a Cannes a dieci anni esatti dall’esordio alla regia con J’ai tué ma mère, è un ritorno alla versione più intima e raccolta della già ricchissima filmografia del cineasta trentenne. Le proiezioni in programma a Cannes sono state tra le più affollate, sempre caratterizzate da lunghe code e tempi di attesa. IlTermopolio ha potuto partecipare in esclusiva alla proiezione nella prestigiosa Salle du Soixantième.
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​L’ottavo lungometraggio da regista e sceneggiatore per Dolan ruota intorno alle vite dei due protagonisti citati nel titoli. I due ragazzi si conoscono sin dalla tenera età e sono legati da una profonda amicizia mai messa in discussione. L’imminente partenza per l’Australia di Maxime (Xavier Dolan) e una scommessa persa da Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas) porteranno i due a ripensare il loro rapporto e ogni convinzione in un momento cruciale per la loro vita.

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Risate tra amici, serate in compagnia, confidenze decennali e gesti amichevoli che non hanno mai preteso spiegazioni: la camera di Dolan – qui in veste anche di protagonista – si avventura con sicurezza e grande dinamicità tra un entusiasta e travolgente groviglio di emozioni che lega ogni personaggio in scena. Al centro dell’azione ci sono, però, Matthias e Maxime, due amici che non hanno mai potuto immaginare che tra loro ci potesse essere qualcosa di più di una semplice e genuina amicizia. Dolan con maestria racconta una storia che va oltre le etichette e riflette sul ruolo inaspettato dell’amore in un consolidato rapporto di amicizia, una situazione in cui chiunque può ritrovarsi. È, infatti, immediato e spontaneo immedesimarsi nelle vicende vissute dai ragazzi: si è al loro fianco a cantare a squarciagola nei momenti spensierati tanto quanto si è vicino ad ogni personaggio negli attimi più difficili e sofferti.
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​Matthias et Maxime non è esplosivo e sorprendente tanto quanto Mommy ma nella sua apparente linearità e semplicità è un ottimo film che riesce a parlare direttamente allo spettatore senza filtri né presunzione. Una messa in scena di altissimo livello – non mancano sequenze di grande effetto come la lunga e liberatoria nuotata di Matthias – coniugandosi alle giuste scelte musicali, che sono da sempre un tratto distintivo di Dolan, conferma le abilità di un regista che, nonostante il recente passo falso, ha già ritrovato la giusta direzione con una storia genuina e diretta che racchiude tutti i migliori aspetti della sua filmografia.
 
Immagini tratte da:
www.allocine.fr
www.ledevoir.com
Foto scattate in occasione della 72esima edizione del Festival di Cannes

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26/5/2019

Game of Thrones - Il Finale

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La Recensione

di Matelda Giachi
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Sveglia a orario improbabile. Sigla, per l’ultima volta. Macerie. Quel che rimane di Approdo del re dopo che alla bionda son partiti i cinque minuti. Seguiamo Tyrion tra le rovine in quella che sappiamo già essere una ricerca senza speranza. Trova i fratelli sepolti e li piange; entrambi. Jaime, perché lo aveva sempre accettato e aveva con lui un legame speciale, e Cersei, della quale ha odiato l’amore di cui lo ha privato più che la crudeltà spietata. Poi affronta la sua regina e scaglia via la spilla di “Hand of the Queen”, con un disprezzo e una delusione proporzionali all’orgoglio provato quando il titolo gli era stato conferito, regalandoci due delle sequenze migliori dell’episodio. Ormai che il viaggio è finito, possiamo dire che, per merito di complessità di scrittura e del talento del suo interprete, Peter Dinklage, Tyrion Lannister è sicuramente il personaggio più bello di Game of Thrones. 
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Qui la narrazione riprende velocità; Daenerys inneggia a Immacolati e Dothraki, che hanno ormai la peculiare caratteristica di moltiplicarsi invece di decimarsi dopo ogni battaglia per poi dirigersi, con lo sguardo di chi ha appena subito una seduta di ipnosi, verso il famigerato Trono di Spade. “Pensavo fosse più grande”, dice a Jon Snow, prima di dare inizio ad un ultimo attacco di delirio di onnipotenza a cui lui, ormai privato dell’ultima speranza che l’amore suo si ripigli, pone fine con un coltello piantato nel cuore. Non senza aver prima pronunciato il suo mantra per la stagione otto, opportunamente caricato di drammaticità per il finale. “You will always be my Queen”. Non so cosa sia successo nella testa degli altri spettatori, nella mia è partita forte e chiara la voce di Whitney Houston nella ripresa di I Will Always Love You.
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È la volta di Drogon di regalare una delle sequenze più intense del finale: furioso per la morte della sua mamma, sfoga la rabbia non sull’assassino materiale ma sul vero responsabile, fondendolo con le sue fiamme insieme al nostro povero cuore.
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Buio. “Ti prego, non la scrittina qualche tempo dopo”. Qualche tempo dopo, senza scrittina. O almeno così deduciamo; un tempo per andare da Grande Inverno ad Approdo del re ci volevano almeno tre puntate, ora basta un intervallo pubblicitario. Sono riuniti tutti i lord sopravvissuti (compresa un sacco di gente inutile che non ricordavamo e un nuovo Principe di Dorne sfoderato dal cappello al posto del classico coniglio. I maschi di famiglia non dovevano essere tutti morti?) in quello che, di sicuro, è stato un lungo conclave. Infatti i partecipanti sono stati opportunamente forniti di bottigliette d’acqua contro la gola secca.
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Morale, gli Immacolati diventano proprietari terrieri, Pesce Lesso Tully tenta di farsi acclamare re ma viene fatto tornare a cuccia dalla nipote, che intanto ottiene l’indipendenza del Nord e corona il sogno di una vita diventando finalmente regina. L’altra nipote decide di non tornare a casa ma di prendere il mare e diventare Cristoforo Colombo. Sam Tarly diventa Gran Maestro e non si capisce dove abbia parcheggiato Gilly e i figli. Ma il vero vincitore del gioco del trono è Bronn, che si è defilato mentre tutti finivano di bisticciare per poi ricomparire sul finale: il mercenario è diventato Maestro del Conio e Lord di Alto Giardino. Un brindisi a Ser Bronn! Jon è il prototipo del “sei nato sfigato e sfigato morirai". Dopo aver salvato la vita di ogni abitante di Westeros almeno due o tre volte e minacce di varia natura, viene esiliato alla Barriera per aver ucciso la regina (peraltro ancora non riconosciuta da tutti come tale e salvando tutti, di nuovo, a discapito del suo cuore). Se possibile, torna anche vergine, grazie. Va detto comunque che, probabilmente, si sarebbe esiliato da solo ed è quindi felice così. Tyrion viene obbligato a richiappare la spilla e Brienne prende il posto di Jaime a capo della guardia reale (e qui lacrimuccia).
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​E sul trono? Brandon Stark. Otto stagioni di “Non mi interessa più niente”. “Ormai vivo solo nel passato”. “Sono cose che non mi riguardano” ed un’unica espressione facciale e poi… “Senti, t’andrebbe mica di fare il re?”. “Sono qui per questo”. E niente, il drago si è dato alla macchia quindi, purtroppo, niente Dracarys. Qualcuno comunque ha saggiamente fatto notare che il più avanti di tutti era stato Jaime a tentare di farlo fuori nella prima stagione. Lo sterminatore di re, un nome, una garanzia.
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Ma proprio alla fine, una gioia. Jon si riunisce con Ghost e Tormund. Ed è quasi happy ending.
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L’ottava serie ha diviso il pubblico tra entusiasti e delusi. Noi ci collochiamo un po’ nel mezzo: non è il cosa ma il come che ci ha lasciato una certa amarezza. La fretta di chiudere era papabile non solo nel susseguirsi veloce degli eventi ma anche negli errori, dagli oggetti dimenticati in scena di cui nessuno si è accorto, all’avvio di parentesi narrative mai chiuse, come nei personaggi svuotati della loro complessità e ridotti alla stilizzazione di se stessi.

Che il finale sia piaciuto o meno, con la sesta puntata dell’ottava stagione si è chiusa un’era, si è conclusa una seria diversa, esplicita, coraggiosa, coi contorni fantasy ma soprattutto umana. Game of Thrones è stata in grado di accaparrarsi un pubblico vastissimo, creare aspettativa e sorprendere. Un successo basato sulla complessità dei suoi personaggi, mai cristallizzati in un tipo caratteriale ma sempre in cambiamento a seguito del loro reciproco incontrarsi lungo quello che è stato, per tutti, un sanguinoso cammino. Una serie che ci ha insegnato che il confine tra bene e male non è netto come lo immaginiamo.

Voto alla serie: 8,5
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Voto alla stagione finale: 5/6
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19/5/2019

Dolor y Gloria: la recensione

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La recensione di Dolor y gloria: Pedro Almodóvar ripercorre la sua vita attraverso il cinema e il dolore scegliendo come alter ego Antonio Banderas.
Paese: Spagna                             
Genere: drammatico
Anno: 2019
Regia: Pedro Almodóvar 
Sceneggiatura: Pedro Almodóvar 
Fotografia: José Luis Alcaine
Montaggio: Teresa Font
Musiche: Alberto Iglesias
Distribuzione: Warner Bros.
Attori: Antonio Banderas (Salvador Mallo); Penélope Cruz (Jacinta da giovane); Asier Etxeandía (Alberto Crespo); Leonardo Sbaraglia (Federico).
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Dolor y Gloria è il nuovo, atteso, film di Pedro Almodóvar che segna il ritorno del regista dietro la macchina da presa, cimentandosi con una sorta di summa compendiaria della sua opera omnia, nonché con un bilancio agrodolce della propria vita, sospesa tra privato e pubblico, creatività e realtà. Davanti l’occhio meccanico, il regista ritrova i sodali Antonio Banderas e Penélope Cruz (quest’ultima in un’apparizione speciale), affiancati da Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia e Nora Navas.
Il film racconta una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo (Banderas), un regista cinematografico ormai sul viale del tramonto. Alcuni sono fisici, altri solo evocati dal ricordo: la sua infanzia negli anni ’60 quando emigrò con i genitori a Valencia, in cerca di fortuna; il primo desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni ’80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso di vuoto causato dall’impossibilità di poter girare nuovi film. Ma proprio nel recupero del proprio passato Salvador avverte l’urgenza di narrarlo, trovando così la propria via di salvezza.
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​Dolor y Gloria rappresenta una sorta di trilogia ideale per il regista, insieme a La Legge del Desiderio e La Mala Educación. Al contrario degli altri due, però, il film supera i confini stessi e i limiti della poetica cinematografica almodovariana, riflettendo proprio su quest’ultimi e sancendo la sua entrata nella dimensione degli autori, un gruppo capace di (auto)riflettere su se stesso e sul proprio cinema quanto di riprodurre, sotto forma di schemi fissi come frattali, determinate tematiche declinate sotto nuove luci e sfumature.
Lontano dall’umorismo sfrontato e dagli eccessi degli esordi e di buona parte del suo cinema, Almodóvar richiama gli amici di sempre Banderas e Cruz e li trasforma negli specchi che riflettono il suo passato; tanto l’attrice spagnola è la Madre, quella figura di donna forte e sempre presente nella vita del regista, che qui si trasforma per la prima volta in una figura conflittuale, quasi edipica, per la futura carriera del cineasta; quanto l’attore di Malaga si trasforma nel suo transfert, un personaggio che respira come Almodóvar, porta i capelli come lui, vive in quella che è casa sua e indossa perfino i suoi vestiti; eppure Salvador non è Pedro.
Salvador somiglia a Pedro, è un plausibile alter ego di Almodóvar nelle vicende narrate sullo schermo, anch’esse verosimili e vicine alla realtà; ma tutto ciò che lo spettatore vede sullo schermo è filtrato dalla creatività, dall’immaginario iperattivo che falsa e modifica, distorce, colora e inventa. Nell’impeccabile trama del presente tessuta da Almodóvar s’insinuano i ricordi, creando delle crepe, delle brecce dalle quali filtra la famosa luce del passato.
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Lo stile della regia mostra una forte eredità nei confronti dell’arte pittorica, dell’eleganza delle forme e del rispetto della natura fluida del colore; Almodóvar compone la propria tavolozza, satura l’immagine sul grande schermo e finisce per rendere entrambi (colore/forma) protagonisti attivi della narrazione, scandita dal ritmo perfetto di una sceneggiatura personale che mette a nudo l’anima dell’artista rendendolo vulnerabile, ostaggio dello sguardo dello spettatore.
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Con un Antonio Banderas intenso e maturo, Dolor y Gloria incarna il viaggio più complesso mai affrontato da Almodóvar, che per la prima volta toglie definitivamente la patina dell’umorismo sfrontato e sfrenato abbracciando la malinconia della rievocazione, costruendo un’ideale via crucis laica sulle tappe della memoria e del ricordo, finendo per utilizzare alla perfezione il meccanismo del cinema e del meta-cinema, dei rimandi tra Settima Arte e teatro, per comporre la sua opera più bella: un atto d’amore verso la creatività, un atto d’amore verso il cinema, una lettera appassionata verso l’opera di una vita.

Immagini tratte da:
​

Locandina: Coming Soon
Immagine1: Ciak Magazine
Immagine2: The HotCorn
Immagine3: SkyTg24
Immagine4: IlSussidiario.net

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16/5/2019

GOT 8X05: “The Bells”

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 La Recensione
di Matelda Giachi
Game of Thrones si dirige verso la propria conclusione a passi da gigante. Letteralmente, se si pensa che, in tre puntate, abbiamo affrontato e sconfitto gli Estranei, marciato su Approdo del Re e combattuto la battaglia definitiva, più o meno, per il Trono di Spade.

Tutto quello per cui ci siamo preparati per sette stagioni è andato in un battito di ali di drago. Era giusto il ritmo dei primi due episodi, che riportava tutti i protagonisti sopravvissuti in un unico luogo e faceva il punto sull’evoluzione di ognuno. Poi, sul più bello, è iniziata la corsa. Forse un budget mal distribuito e tante, troppe vastissime stoylines da portare a termine in soli quattro episodi, quando addirittura, volendo, ci sarebbe stato materiale per una serie ulteriore.

Ed ecco che si scopre che la “distruttrice di catene”, ordina il suo caffè da Starbucks, che accadono miracoli e a Jaime Lannister rispunta il braccio mozzato, che i Dothraki resuscitano senza impallidire e assumere un’aria sciupata, che gli Immacolati si moltiplicano per scissione binaria (dal momento che la riproduzione sessuata gli è stata negata) e che la trama presenta più buchi del comò della trisnonna divorato dai tarli.
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Non è tanto il cosa sia avvenuto che ci disturba, ma il come. Forse non la volevamo perché ci piacevano tanto la sua fierezza e la sua forza d’animo, ma la pazzia di Daenerys è un risvolto narrativo inaspettato quanto interessante; forse anche geniale. Se solo fosse stato ben scritto. Si, qualche avvisaglia è stata inserita nel copione, ma solo in quello degli ultimi episodi. I sedicenti campanelli di allarme, non ci hanno messo paura, ci hanno messo l’uggia. Mentre la madre dei Draghi pestava i piedi per un capriccio piuttosto che per un altro, tutti alzavamo il sopracciglio, spazientiti, insieme a Sansa Stark. E si, la regina è sola, ma lo è già stata in passato e forse ancora più che adesso. E non importa quanto sia brava Emilia Clarke, quanto sia bella l’inquadratura del volto di Dany mentre imbocca la via della follia non come destino ma come scelta consapevole. E’ stato tutto troppo veloce.
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Il grido ricorrente tra gli spettatori è che i personaggi siano stati traditi, stravolti. Ma forse sarebbe più giusto dire che sono stati “svuotati”. Niente di quello che accade ai protagonisti è completamente inverosimile o avulso dal loro essere, ma non è in linea con questo momento del loro cammino. Sono stati semplificati. Prima erano un quadro di Leonardo, ora sono figure stilizzate.
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Lord Varys è maestro di bisbigli e sotterfugi; sopravvissuto a innumerevoli sovrani, è riuscito a prendere per il naso anche Cersei, dalla quale, quanto a inganni, la Targaryen ha solo da imparare. Ma lei, nonostante sia fuori di sé dal dolore e dalla rabbia, lo smaschera con la facilità con cui si sgama un camaleonte daltonico e ci fa un bel barbecue. Facciamo che anche Varys è invecchiato e perde colpi…

Jon Snow, che all’inizio del terzo episodio aveva finalmente imparato a tenere un discorso in pubblico, per il troppo sforzo è sprofondato nel mutismo e ha una sola risposta per qualunque quesito. “Ohilà Jon, com’è il tempo là a Winterfell?”. “You are my Queen”. Utile come un tagliaerba nel deserto, passa la puntata a guardarsi intorno con lo sguardo perso di un cervo in galleria.
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Poche parole da spendere per Euron Greyjoy, nato e cresciuto per essere il cretino invasato della situazione. Non a caso, muore ancora convinto che il bimbo nel grembo di Cersei sia suo. Misterioso è il caso fortuito che l’ha portato a spiaggiarsi esattamente dove e quando stava passando Jaime per andare a raccattare la sorella. Dal momento che sono stati anche in grado di individuare e riconoscere Missandei, ipotizziamo il possesso di tecnologie radar avanzate da parte dei Lannister. 
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Parlando di Lannister, la morte di Cersei è forse il nostro più grande cruccio. Non è inammissibile che i due gemelli lascino il mondo insieme come insieme vi sono venuti. Per certi versi, è anche tragicamente romantico. Ma il più grande villain del trono (almeno fino a che Dany non ha sbroccato, ma, con sette stagioni di cattiveria, gode del diritto di anzianità), che ha guardato in faccia la morte a muso duro innumerevoli volte, il vero e unico leone Lannister, che lascia la serie piagnucolando schiacciata da due pietre è deprimente. E la profezia che la voleva uccisa da un fratello minore apriva un infinito ed elettrizzante panorama di possibilità di confronto finale tra i tre figli di Tywin. Non volevamo una fine triste per Cersei, la volevamo grandiosa.
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Jaime è in assoluto il personaggio più complesso e interessante di Game of Thrones. È doppio. Porta in sé l’egoismo e la crudeltà della sorella quanto il senso dell’onore e l’affettività del fratello. I due aspetti si rispecchiano e sono fatti emergere dalle due donne che ama. Cersei e Brienne di Tarth. Che alla fine la dipendenza per l’amore malato nei confronti della sorella abbia la meglio è perfettamente in linea con il trono, che raramente lascia spazio a della positività. Ma è anche vero che la scelta avviene senza apparente lotta interiore. Una notte si sveglia e gli torna in mente di essere una persona spregevole. Eppure Jaime Lannister non è mai stato così lontano dal se stesso della prima serie come quando ha guardato negli occhi Brandon Stark e gli ha chiesto scusa per il suo gesto. Potremmo definirla la scelta narrativa più semplice per cercare un finale non scontato.
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Menzione d’onore ai draghi. Ammettiamolo: quanto è sublime il potere distruttivo di Drogon che infiamma Approdo del Re? Ma come si spiega che invece Rhaegal, solo nell’episodio precedente sia caduto sotto i colpi di una sola arma, che lo ha pure centrato tre volte? A parte per il fatto di essere il drago di Jon e quindi più fesso, che potrebbe quasi essere coerente…
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Stupendo è però lo scontro dei fratelli Clegane. Nel fuoco, dove tutto ha avuto inizio, avviene anche la loro fine. Una conclusione degna.

Così come la massima intensità drammatica si ha nell’addio tra Tyrion e Jaime, forse la scena migliore di tutto l’episodio, se si prescinde dal dettaglio di una fuga passata inspiegabilmente inosservata.

Pura poesia le sequenze che seguono la fuga di Arya. Qui la giovane Stark ha la sola funzione di guidare lo spettatore attraverso le conseguenze della furia di Daenerys. Con tutta probabilità, tornerà protagonista per il gran finale; ha ancora occhi da chiudere.

Ma se avessimo avuto a disposizione dieci episodi invece che sei… Non avremmo forse avuto più momenti così?

Voto: 5/6
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Immagini tratte da:

www. tvzap.kataweb.it
www.entertainment-focus.com
www.mondofox.it
www.gingergeneration.it

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12/5/2019

Il Termopolio speciale Cannes 2019

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di Federica Gasparri
Lustrini, luccichii e red carpet: la stagione dei più prestigiosi festival cinematografici sta per iniziare! In passato Il Termopolio vi ha già potuto dare un assaggio della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, del Torino Film Festival, della Festa del Cinema di Roma, del Lucca Film Festival e del Milano Film Festival. A questo autorevole curriculum quest’anno si aggiungo un nuovo importante evento di richiamo internazionale: la settantaduesima edizione del Festival de Cannes!

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La selezione ufficiale

Dal 22 al 25 maggio, infatti, saremo sulla Promenade de la Croisette pronti a scoprire alcuni dei titoli più attesi della prossima stagione cinematografica. L’edizione 2019 vede in scena autori e interpreti di grande prestigio in tutte le categorie. Cannes 72, annunciata con il poster che omaggia la cineasta Agnès Varda scomparsa lo scorso marzo, potrà contare sui 21 film della Sélection Officielle en Competition: dal film d’apertura The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch a Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino passando per Matthias et Maxime di Xavier Dolan.

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Non mancheranno anche nomi del calibro di Pedro Almodovar, Terrence Malick e l’italianissimo Marco Bellocchio. La selezione, tuttavia, non dimentica anche nomi emergenti come quello della regista franco-senegalese Mati Diop, attesissima a La Croisette. La giuria presieduta da Alejandro Inarritu avrà l’ardua missione di incoronare il vincitore della Palma d’Oro.

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Atlantique, regia di Mati Diop
Bacurau, regia di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles
C'era una volta a... Hollywood (Once Upon a Time in... Hollywood), regia di Quentin Tarantino
Dolor y gloria, regia di Pedro Almodóvar
Frankie, regia di Ira Sachs
Gisaengchung, regia di Bong Joon-ho
La gomera, regia di Corneliu Porumboiu
A Hidden Life, regia di Terrence Malick
It Must Be Heaven, regia di Elia Suleiman
Le jeune Ahmed, regia di Jean-Pierre e Luc Dardenne
Little Joe, regia di Jessica Hausner
Matthias et Maxime, regia di Xavier Dolan
Mektoub, My Love: Intermezzo, regia di Abdellatif Kechiche
I morti non muoiono (The Dead Don't Die), regia di Jim Jarmusch - film d'apertura
Les Misérables, regia di Ladj Ly
Nan fang che zhan de ju hui, regia di Diao Yinan
Portrait de la jeune fille en feu, regia di Céline Sciamma
Roubaix, une lumiére, regia di Arnaud Desplechin
Sibyl, regia di Justine Triet
Sorry We Missed You, regia di Ken Loach
Il traditore, regia di Marco Bellocchio
 
Non solo Tarantino e Jarmusch!
Tra i fuori concorso si distinguono le partecipazioni di Asif Kapadia con il nuovo documentario su Maradona, Nicolas Winding Refn con le prime due puntate della sua nuova serie tv e Gaspar Noè con la sua ultima fatica che verrà presentata in occasione di una proiezione speciale di mezzanotte. Grande attesa anche per l’anteprima di Rocketman, ultimo biopic dedicato alla carriera di Elton John, che vede protagonista Taron Egerton.

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Immagini tratte da:
https://www.festival-cannes.com/
https://www.la-croix.com
https://www.rollingstone.it
 

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5/5/2019

GoT 8X03: La battaglia delle polemiche

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“The Long Night”, la recensione
Di Matelda Giachi

Il terzo episodio dell’ottava serie de’ Il Trono di Spade è stato tra i più attesi di sempre nonché tra i più contestati.
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Certo, vuoi la promessa di uno scontro talmente epico da farci dimenticare quello del Fosso di Helm, vuoi una battaglia mediatica che ha impennato le vendite di xanax, siamo tutti rimasti un po’ delusi o perplessi da un impatto emotivo inferiore alle aspettative. E chi dice il contrario Il Signore degli Anelli non lo ha mai visto o lo ha visto male, ed è bene che vada a colmare le proprie lacune.
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Ciò detto, alcune cose però potevano anche essere intuite. “The long night”. The “Night King”. Un esercito di morti… L’inverno (quella stagione in cui fa freddo e fa notte alle tre. Se non piove, sennò anche prima) che, non fosse ancora chiaro, ormai è arrivato. Per di più a Winterfell, dove la luce e la temperatura non sono poi così tropicali neanche d’estate (un nome una garanzia)… Però dovevano girare prima del tramonto perché sennò i fan non capiscono chi vive e chi muore. Ora: a nessuno è venuto in mente che, forse, (attenzione, grosso spoiler), la cosa potesse essere voluta? Così da mantenere alte la tensione e la preoccupazione per la sorte dei protagonisti. In aggiunta, il cinema spesso sfrutta la fotografia per immedesimare lo spettatore nella condizione dei personaggi del film. E’ il motivo per cui Gravity, di Alfonso Cuaròn, è nato per essere visto al cinema e in 3D, così da avere un assaggio di cosa voglia dire essere persi nello spazio. Allo stesso modo, in The Long Night, si ha un’idea delle condizioni in cui l’esercito dei vivi si trova a combattere.
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​Dopo le nozze rosse siamo abituati a pensare che al peggio non ci sia mai fine e che quindi il bilancio dello scontro con gli Estranei sia stato, tutto sommato, benevolo e anche poco coraggioso. Effettivamente, chi non ha guardato i titoli di coda pensando: “Poteva andare peggio”? Riflettendo però a mente fredda, per ragioni di trama, le cose potevano andare poco diversamente.
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Daenerys e Jon erano quasi intoccabili: senza Dany, a fare a cazzotti con la dolce Cersei per il trono di Spade, chi ci andava? Si asserragliavano tutti al nord attorno al cipiglio giudicante di Lady Sansa e buonasera. Fine della serie. Uccidere Jon dopo le rivelazioni fatte sulle sue origini sarebbe stato poi un suicidio drammaturgico. Jaimie? E giocarsi la possibilità di farlo trovare di nuovo faccia a faccia con la sorella? Vederlo voltare le spalle a Cersei e cavalcare verso Grande Inverno è stata forse la più grande soddisfazione in sette serie di GoT. Stesso ragionamento sarà stato fatto per il Mastino. La morte di Sansa e Tyrion, o Gilly, tutti destinati a rimanere nascosti e protetti, avrebbe significato la sconfitta, quindi la morte di tutti e anche la fine della serie con tre puntate di anticipo. Sulla questione della sicurezza delle cripte, quando il tuo nemico è un seriale risvegliatore di morti incazzati e molesti, soprassediamo. Idem con patate se fosse morto Bran Stark, in quanto “memoria dell’umanità”. Giusto perché ci fidiamo delle parole di Sam. Ancora ci stiamo chiedendo cosa diavolo abbia fatto il giovane Stark durante tutta la battaglia. “Devo andare”. Solito svolazzamento di corvi… E quindi? Beh? Eddai, dicci! Nulla. Torna giusto per dare la sua benedizione a Theon “Sono a posto caro, adesso mi salva la sorella, muori pure in pace”. Grazie Bran per le emozioni.
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​La sostanza è che gli sceneggiatori hanno deciso di far uscire di scena quei personaggi il cui cammino era ormai compiuto. Theon ha guadagnato la sua redenzione, Melisandre ha finalmente decifrato correttamente i messaggi nel fuoco e smesso di sacrificare gente a caso, portando a termine la sua missione. Ed ha terminato la sua guardia e Sir Jorah è riuscito a morire non divorato dalla malattia ma proteggendo e salvando la sua amata regina. Alzi la mano chi ha singhiozzato più di Daenerys.
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Sul fatto di non aver ucciso nessuno dei protagonisti principali, ci troviamo relativamente d’accordo. Arrivati a questo punto, nessuno è davvero marginale, tantomeno la piccola e carismatica Lyanna Mormont, che in poche puntate è riuscita a conquistare lo stesso affetto di chi c’era da sempre e della cui dipartita è impossibile non rimanere turbati.
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Una puntata che è stata un’alternanza di cose inspiegabili, come l’invio al macello dei poveri Dothraki, visivamente eccezionale ma tatticamente priva di senso, ma anche di attimi quasi poetici, come nel congedo tra Tyrion e Sansa nelle cripte durante i momenti più intensi dello scontro. Come non ricordare, infine, il faccia a faccia tra Arya e Melisandre anni dopo il primo incontro. Quanto è cambiato il destino della piccola Stark in tutto questo tempo? Sarà proprio Melisandre, vicina all’addio definitivo mostrato nell’epilogo della puntata, a spingere la ragazza al confronto definito con il Night King, una delle sequenze più discusse quanto riuscite di questa puntata.
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Dopo la battaglia con gli Estranei non resta che un solo nemico: Cersei. Il grande scontro per il trono avrà già luogo nella prossima puntata o bisognerà ancora attendere? Questa notte avremo qualche risposta!
 
Immagini tratte da:

www.mondofox.com
www.denofgeek.com
www.hypable.com
www.t13.cl
www.seriangolo.it

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5/5/2019

Anteprima dei nuovi episodi della serie tv New Amsterdam

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di Vanessa Varini
Titolo: "New Amsterdam" 
Foto

Paese: Stati Uniti d'America

Anno: 2018 – 2019

Genere: drammatico, medico

Stagioni: 1

Episodi: 22

Durata: 43 min (episodio)

Ideatore: David Schulner

Fotografia: Stuart Dryburgh, Andrew Voegeli

Musiche: Craig Wedren

Interpreti e personaggi:

Ryan Eggold (Dr. Max Goodwin); Janet Montgomery (Dr. Laura Bloom); Freema Agyeman (Dr. Helen Sharpe); Jocko Sims (Dr. Floyd Reynolds); Tyler Labine (Dr. Iggy Frome); Anupam Kher (Dr. Vijay Kapoor)

​Se siete appassionati di medical drama (come Grey's Anatomy e The Good Doctor) e di storie vere, avrete sicuramente seguito la prima parte di "New Amsterdam" andata in onda a dicembre 2018, una serie Tv ispirata alla vera storia del Bellevue Hospital di New York City, il più antico ospedale pubblico d’America (è stato fondato nel 1736). Ora arrivano su Canale 5 in prima visione assoluta gli ultimi tredici episodi della prima stagione. "New Amsterdam" ha come protagonista l'instancabile e testardo medico e direttore sanitario Max Goodwin, interpretato da Ryan Eggold, un personaggio ispirato al dottor Eric Manheimer, direttore sanitario per quindici anni del Belleveu Hospital che ha scritto un libro Twelve Patients: Life and Death at Bellevue Hospital, basato sulla storia dei pazienti dell'ospedale (uno dei quali è lui stesso, a cui è stato diagnosticato un cancro alla gola che è riuscito a sconfiggere) da cui poi è stata tratta la sceneggiatura della serie.
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​Nei primi episodi Max, con i suoi modi decisi, ha riformato e migliorato il sistema ospedaliero per fornire un'ottima assistenza ai pazienti, anche se non sono mancate inizialmente delle incomprensioni con i colleghi: la dottoressa Lauren Bloom (Janet Montgomery), l'oncologa Helen Sharpe (Freema Agyeman), il nuovo capo della chirurgia cardio-toracica Floyd Reynolds (Jocko Sims), lo psichiatra Iggy Frome (Tyler Labine) e il medico indiano Vijay Kapoor (Anupam Kher).
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La prima stagione si è conclusa con un sconvolgente colpo di scena: Max, in gita al lago con sua moglie Georgia che aspetta un bambino, sviene colpito da un malore. Le nuove puntate iniziano con Max che viene trasportato in ambulanza al "New Amsterdam", dove intanto i medici hanno appreso da Sharpe che il loro direttore sanitario è malato di cancro. Fulton assume la direzione dell’ospedale e si rende conto di quanto Max abbia già cambiato la gestione dei medici e dei reparti. Intanto Georgia aspetta di sapere se i minuti in cui Max non ha respirato abbiano o meno causato danni cerebrali. Quando si risveglia, per l'uomo iniziano le cure mai lui non intende smettere di lavorare.

​"New Amsterdam", però, non è la solita serie tv medica improntata solo sulle emergenze che s'intrecciano con la vita privata dei protagonisti, diffonde anche un messaggio di denuncia verso il sistema sanitario americano, non mostra le operazioni chirurgiche (in nove episodi si é assistito solo ad un'operazione al cuore) e quindi è adatta anche ai telespettatori più impressionabili e il lieto fine è assicurato almeno per il protagonista. ​

​Quindi buona visione a tutti!

​FOTO TRATTE DA:
​

https://www.superguidatv.it/
https://thenypost.files.wordpress.com/
https://www.sorrisi.com/

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