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Anno: 2016
Durata: 103 min Genere: commedia, drammatico, biografico Regia: Roger Spottiswoode Soggetto: James Bowen, Garry Jenkins (tratto dall'omonimo romanzo di James Bowen) Sceneggiatura: Tim John, Maria Nation Produttore: Adam Rolston Fotografia: Peter Wunstorf Musiche: David Hirschfelder, Charlie Fink Cast Luke Treadaway: James Bowen Ruta Gedmintas: Betty Robinson Joanne Froggatt: Val Anthony Head: Nigel Bowen Beth Goddard: Hilary Darren Evans: Baz Caroline Goodall: Mary Ruth Sheen: Elsie John Henshaw: Dobson Nina Wadia: Padma Franc Ashman: Danielle Ivana Basic: receptionist di Carefoot Lorraine Ashbourne: Simone
James Bowen (Luke Treadaway) è un senzatetto che sta combattendo la tossicodipendenza e che si guadagna da vivere suonando la chitarra per strada. Dopo numerosi fallimenti, decide di darsi un'ultima possibilità per cambiare la sua vita affidandosi al suo operatore di supporto, Val (Joanne Froggatt), che lo aiuta concedendogli una casa popolare a Tottenham in cui andare a vivere. Una sera, mentre si trova nella vasca da bagno di casa sua, sente provenire un rumore dalla cucina e vi trova un gatto rosso, probabilmente randagio. Da quel giorno i due diventeranno amici inseparabili e insieme supereranno molte difficoltà.
La storia vera di James Bowen, australiano giunto a Londra e caduto nel tunnel della dipendenza della droga ma in recupero, che suona la chitarra per racimolare quattrini a Covent Garden e del gatto Bob, un gatto rosso dal passato misterioso che passava i giorni a rovistare nelle spazzature, è diventata un libro, "A spasso con Bob", che ha venduto un milione di copie nella sola Inghilterra, ha dato vita a molti altri libri sulle avventure del gatto Bob; inoltre, le canzoni cantate da James sono state incise in un cd. Infine, le loro avventure, che hanno rivoluzionato la vita di entrambi, hanno ispirato un film.
Tutto questo successo è merito di Bob, diventato un'attrazione per turisti e pendolari che si fermavano per una foto, un video condiviso con successo su Youtube. Ma Bob è soprattutto colui che ha curato James. Senza medicina ma con una massiccia dose d'amore: Bob ha aiutato James a relazionarsi con le persone, a combattere la solitudine, lo ha aiutato a tornare a vivere e gli ha dato qualcosa per cui lottare. Il film è molto realistico, ad esempio il vero gatto Bob interpreta sè stesso. Inoltre mostra le difficoltà della dura vita di strada senza fare sconti, i pericoli mortali della droga e la lotta alla disintossicazione. Bob rimarrà sempre al fianco di James, condividendo paure, crisi di astinenza dalla droga, salendogli sulla spalla mentre va a raccogliere soldi suonando a Covent Garden o in giro per Londra in bicicletta per vendere il giornale Big Issue.
Tutto è però mostrato in maniera rosea (anche la lotta contro la droga), infatti è un film per famiglie, semplice ma allo stesso tempo profondo, vi commuoverete, sorriderete e in più c'è una marcata sottotrama psicologica (la mancanza affettiva profonda di James che è stato abbandonato da suo padre, che ora ha un'altra donna e un'altra famiglia). Ottimi gli attori Luke Treadaway, Joanne Froggatt (la cameriera Anna di "Downton Abbey") e Ruta Gedmintas nei panni dell'amica animalista del protagonista. Rimarrete conquistati da questa storia di speranza e di riscatto anche se non siete gattofili, perché nella vita c'è sempre una seconda possibilità.
Immagini tratte da: http://pad.mymovies.it/ http://mysocialpet.it/ https://www.miciogatto.it/
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GENERE: Commedia, Azione
ANNO: 2017 REGIA: Sydney Sibilia ATTORI: Edoardo Leo, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Libero de Rienzo, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia, Pietro Sermonti SCENEGGIATURA: Sydney Sibilia, Francesca Manieri, Luigi Di Capua FOTOGRAFIA: Vladan Radovic MONTAGGIO: Gianni Vezzosi MUSICHE: Michele Braga PRODUZIONE: Fandango, Groenlandia Film, Rai Cinema DISTRIBUZIONE: 01 Distribution PAESE: Italia DURATA: 118 minuti
È uscito da pochi mesi il sequel di Smetto quando voglio, che aggiunge al titolo originale la qualifica di Masterclass. Il prequel del 2014 diretto da Sydney Sibilia (che firma anche questo secondo capitolo) è stato un fulmine a ciel sereno nel panorama della commedia italiana: azione, gag esuberanti, temi politicamente scorretti, colori saturi e fotografia lisergica. Un concentrato di stravaganza ed energia in una porzione di mercato dominata da una sequela di storie sentimentali e romantiche senza guizzi e ritmo.
Questo sequel riprende la formula base dell’originale con gli stessi reagenti (stesso cast), cercando di amplificare i risultati ottenuti dall’esperimento: la banda dei ricercatori, “l'associazione a delinquere con il più alto tasso di cultura di sempre", si ricostituisce, dopo l’offerta da parte della polizia di uno sconto di pena a Pietro Zinni (Edoardo Leo), il capo della banda attualmente in carcere in attesa di giudizio, e il lavaggio della fedina penale per tutti i membri della banda.
Così, questa congrega sgangherata di accademici sbattuti fuori dalle università si riunisce nuovamente in gruppo d’azione, stavolta non per vendere smart drugs (le nuove droghe composte di molecole non ancora dichiarate illegali) bensì per debellarle, lavorando al servizio delle forze dell’ordine, in totale oscurità.
Sicuramente il cast e i personaggi stessi sono un punto di forza anche di questo secondo capitolo: tra gli attori principali c’è molta complicità e tutti sono perfettamente calati nella parte; da Andrea De Sanctis (Pietro Sermonti), antropologo culturale che assicura alla banda la facoltà camaleontica di mimetizzarsi negli ambienti sociali più disparati ad Alberto Petrelli (Stefano Fresi), “il chimico computazionale più accreditato del paese”, braccio destro di Zinni e mente della banda, con qualche piccolo problemi riguardo le sostanze analizzate…
Da una parte Sibilia pesca dalla tradizione nobile della commedia all’italiana (un riferimento esplicito è I soliti ignoti di Monicelli), dall’altra aggiorna il linguaggio filmico rileggendo le esperienze dei caper movies più cool degli ultimi anni, come la saga di Ocean’s.
Oltre alle numerose scene che strappano una risata (a volte dolceamara…) e alle ottime scene action, questo brand (possiamo chiamarlo così dato che uscirà fra non molto il terzo capitolo della saga) ha avuto il merito di prendere un tema reale e profondo (la fuga dei cervelli e il problema della mancanza di lavoro anche per persone iperqualificate) e trattarlo con uno stile rumoroso, eccessivo, molto sopra le righe e, finalmente, cinematograficamente efficace: veramente un’iniezione d’energia per la convalescente commedia italiana.
Immagini tratte da:
www.mymovies.com www.comingsoon.com
L'8 giugno è uscito nelle sale cinematografiche La Mummia, film che inaugura Dark Universe, il nuovo progetto della Universal Pictures. L'obiettivo è quello di ripetere i successi Marvel, record d'incassi al cinema grazie a pellicole con protagonisti i supereroi dei fumetti (come Gli Avangers, Iron Man, Hulk, Thor, Capitan America). Questa volta i kolossal sono dedicati ai personaggi dell'Universo horror e di avventura. Al posto dei supereroi abbiamo i mostri classici della letteratura gotica e dei romanzi del terrore come Dracula (anche se hanno già realizzato diversi film sul re dei vampiri), l'uomo lupo, l'uomo invisibile, il fantasma dell'opera, il mostro di Frankenstein, il mostro della laguna nera. Il Dark Universe produrrà un reboot dedicato a ogni mostro per svariati anni. Il primo è la Mummia, dove ricompare uno dei personaggi simbolo del cinema dell'orrore che è stato lanciato nel 1932 da un film con Boris Karloff.
e in seguito come protagonista di una saga iniziata nel 1999 con Brendan Fraser.
Come il remake ufficiale del film del '32 prodotto dalla Universal, anche il film del '99 ruota attorno al personaggio di Imhotep, sacerdote, visir, architetto e medico egizio realmente esistito ai tempi del faraone Djoser, agli inizi della terza dinastia, che negli anni venti cerca di riportare in vita la sua amata Anck-su-namun. Cambia, però, il genere di film, d'avventura/azione legato al fantasy, genere avventuroso che troviamo anche nella nuova pellicola dell’Universal. Il film racconta la storia di un'antica principessa egizia che viene riportata accidentalmente in vita ai giorni nostri: animata da malvagità, terrorizzerà l'intera umanità. Esiste però un'organizzazione segreta, chiamata Prodigium, capace di sconfiggere la minaccia che grava sul mondo. Protagonisti del film sono Tom Cruise e Annabelle Wallis, i personaggi che per primi si imbattono nella maledizione e che la scateneranno al giorno d'oggi. Sofia Boutella interpreta la regina Ahmanet, cioè la mummia. Dopo La Mummia, il secondo capitolo del Dark Universe sarà La moglie di Frankenstein che uscirà il 14 febbraio 2019, con Johnny Depp nei panni dell’Uomo Invisibile e Javier Bardem in quelli di Frankenstein. Seguiranno le pellicole dedicate al mostro della laguna nera (2019), all'uomo invisibile (2020 con Johnny Depp), a Van Helsing e all'uomo lupo. Nell'universo della Mummia compare anche il Dottore Jekyll (Russell Crowe), l'unico apparentemente in possesso delle conoscenze necessarie a fermare Ahmanet, a cui presto verrà dedicato un film.
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Un viaggio lungo 6000 kilometri conduce il giovane broker Lockart (D. DeHann) in un centro benessere in una non precisata località sulle vette delle Alpi svizzere, famosa per le cure a base d’acqua. Qui dovrà cercare Roland Pembroke, amministratore delegato della propria azienda, e convincerlo a tornare in America per firmare gli accordi di fusione con un’altra società. Ma il soggiorno di Lockart durerà più a lungo del previsto.
Gore Verbinski torna al cinema dopo la saga Pirati dei Caraibi e Rango, confezionando un horror psicologico sospeso tra il thriller e il mistery, dal sapore distopico che per molti versi ricorda nei temi The Lobster (2015) del greco Lanthimos.
La vicenda ruota attorno la casa di cura: immersa nel verde, è a prima vista un luogo quasi incantato. Il film si inabissa nei meandri dell’edificio, percorsi dal giovane broker che cerca di sondare inestricabili enigmi nello scenario surreale di asettici corridoi e di scantinati polverosi e pieni di strumenti di tortura. Un soggiorno, quello di Lockart, che si tramuterà in un incubo claustrofobico, senza possibilità di ritorno, reso più angosciante dal mistero che aleggia intorno alla villa: una storia incestuosa avvenuta duecento anni prima che fa da sfondo al progetto eugenetico di un potente ricco barone.
Girato quasi interamente presso il castello Hohenzollern, alle pendici delle Alpi sveve, e all’interno dell’ospedale militare per i soldati della Prima Guerra mondiale di Beelitz-Heilstätten, La cura dal benessere alterna una luce brillante nelle scene che si svolgono all’esterno e una oscurità perturbante nei freddi corridoi del centro benessere.
Ricordi e traumi infantili, paure, visioni, allucinazioni e realtà si mescolano continuamente nella mente confusa di Lockart (e, per dirla tutta, anche dello spettatore!), contribuendo alla suggestione di atmosfere stranianti, opprimenti e tese. Sembra stia sempre per accadere qualcosa di misterioso e terrificante. E in effetti, le immagini mostrano una escalation di violenza e torture inferte ai pazienti, nella tradizione dei migliori horror. Tante sono le scene raccapriccianti, dalla estrazione di denti senza anestesia fino all’apnea forzata in una vasca colma di anguille, in un disturbante ritorno della camera da presa su dettagli inquietanti.
Coinvolgente la prima parte, più incline a combinare registro horror e psicologico strizzando l’occhio a pellicole come Shutter island, forse meno accattivante il finale, che vira più verso il surrealismo fantasy. Molto riuscita la creazione dell’opprimente set, vicino in alcuni punti al gusto gotico degli horror anni Settanta. Già sentita la ripetizione di cantilene da parte di candide vocine femminili, inscrivibile alla tradizione del genere. Un film molto lungo che ripropone citazioni e stilemi tipici dell’horror, senza importanti novità. A rincorrersi ancestrali paure e tabù, angoscia di morte, progetti eugenetici, speranze di immortalità e critiche al frenetico stile di vita occidentale in un magmatico calderone di evocazioni oniriche e paranoiche distorsioni della realtà.
Immagini tratte da:
http://www.mymovies.it/film/2017/acureforwellness/ http://www.ondacinema.it/film/recensione/la-cura-dal-benessere.html https://it.wikipedia.org/wiki/La_cura_dal_benessere https://farefilm.it/persone/fox-si-scusa-le-notizie-false-diffuse-promuovere-la-cura-dal-benessere-9129 http://es.ign.com/la-cura-del-bienestar/116292/feature/critica-de-la-cura-del-bienestar
Richard Linklater è, tra i registi statunitensi di successo, uno di quelli che più è riuscito a mantenere una propria indipendenza nei confronti delle major e delle richieste del grande pubblico. A testimoniare la sua autonomia basterebbe citare Boyhood, film-monstrum dalla durata di lavorazione di 12 anni circa.
Tra le sue sperimentazioni estetiche e produttive spicca un’altra opera: A Scanner Darkly – Un oscuro scrutare del 2006, tratto da un romanzo di Philip K. Dick. I libri dello scrittore americano non sono nuovi agli adattamenti cinematografici: hanno ispirato film come Blade Runner e Minority Report.
Siamo in California in un futuro prossimo imprecisato. Una nuova e devastante droga, la cosiddetta “sostanza M” sta invadendo le strade della città e mettendo in ginocchio la popolazione. Keanu Reeves è Bob Arctor, un agente della narcotici sotto copertura che convive con alcuni sbandati. Le cose iniziato a farsi complicate quando l’assunzione della sostanza M provoca in Arctor degli stati psicotici, rendendo sempre più difficile la distinzione, tra veglia e sogno, realtà e allucinazione. La narrazione prosegue mostrando la progressiva spirale di follia di Arctor e dei suoi amici, giungendo infine a una conclusione sorprendente.
Memorabili le performances di Robert Downey Jr e di Woody Harrelson nei panni di due tossici accampati nell’appartamento di Arctor, e quella di Winona Ryder, che interpreta Donna, la ragazza di Arctor, nonché sua procacciatrice di sostanza M.
Schizofrenia, paranoia, dipendenza. Una società devastata e tenuta in trappola dalle corporation, rapporti sociali disfunzionali e inquietanti, il ruolo della tecnologia nella realtà umana, il calvario della tossicodipendenza, la ricerca della libertà e il bisogno di verità: le tematiche del film, fedelmente tratto dal romanzo, sono varie e profonde ma è forse l’impianto visivo a donargli lo status di vera e propria esperienza estetica.
Sicuramente un elemento di forte impatto, che contribuisce all’atmosfera allucinata e inquieta della pellicola, è la tecnica utilizzata: il rotoscope, che consiste nel trasformare in disegni animati i fotogrammi di una pellicola. Così viene mantenuta una dose maggiore di “realismo” rispetto a un’opera di animazione pura, ma è trasfigurato in un’esperienza visuale unica e sorprendente. Un esempio in cui questa tecnica trova la sua espressione più potente è la raffigurazione della “tuta disindividuante”, un abito tecnologico elaborato a partire da un milione di frammenti di rappresentazioni di uomini donne a bambini, che lo rendono sostanzialmente il “signor chiunque”, e dunque, il signor nessuno.
Questo tipo di immagini liquide, caotiche, oniriche si sposano splendidamente all’atmosfera psicotropa del romanzo creando un’opera unica che trova una sintesi sublime tra forma e contenuto.
Immagini tratte da: www.thedissolve.com www.whysoserial.com
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DATA USCITA: 25 aprile 2017
GENERE: azione, fantascienza, avventura ANNO: 2017 REGIA: James Gunn ATTORI: Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Bautista, Michael Rooker, Karen Gillan, Pom Klementieff, Elizabeth Debicki, Chris Sullivan, Sean Gunn, Sylvester Stallone, Kurt Russell SCENEGGIATURA: James Gunn FOTOGRAFIA: Henry Braham MONTAGGIO: Fred Raskin, Craig Wood PRODUZIONE: Marvel Studios DISTRIBUZIONE: Walt Disney Studios Motion Picture PAESE: USA DURATA: 136 min
É arrivata la prova del fuoco per James Gunn e per il suo strampalato gruppo di supereroi. Star-Lord, Gamora, Drax, Rocket e Groot devono ora affrontare un difficile test, Guardiani della Galassia Vol. 2, il secondo capitolo del filone cinematografico a loro dedicato all’interno dell’affascinante e articolato Marvel Cinematic Universe. Il film di debutto fu un incredibile quanto inaspettato successo di pubblico e critica: correva il 2014 e il gruppo di personaggi, nato nel 1969 tra le pagine degli albi Marvel, faceva la sua prima comparsa sul grande schermo, stupendo tutti con ironia e divertimento. Le aspettative sul sequel sono state inevitabilmente altissime: come mantenere lo spirito scanzonato, cercando di approfondire ulteriormente le psicologie dei personaggi, senza più contare sull’effetto sorpresa?
Gunn, con la sequenza di apertura, trova immediatamente la giusta strada per fare luce su nuovi aspetti del gruppo protagonista. Tema centrale di questa nuova avventura è, infatti, la famiglia e ciò che significa: gli sviluppi dei diversi personaggi, sempre strettamente connessi fra loro, esplorano proprio i loro legami interpersonali. La narrazione si concentra soprattutto su Peter Quill – Star Lord (Chris Pratt) che finalmente ha la possibilità di conoscere il suo vero padre, il misterioso Ego (Kurt Russell).
Tra importanti rivelazioni e ricerche, le peripezie del quintetto protagonista cercheranno di fare nuovamente colpo, per conquistare definitivamente il cuore del grande pubblico di appassionati del genere e non solo.
Ironia fuori dagli schemi, instancabile nostalgia e fantasia senza freni: sono questi i tre ingredienti alla base dei due film dei Guardiani della Galassia. Anche il sequel, infatti, gioca con questi aspetti, consolidando senza troppe sorprese una serie destinata a durare ancora molto, soprattutto per il suo stile ben riconoscibile e distinguibile da tutte le altre che animano l’MCU immaginato da Kevin Feige. Questa volta, però, in alcuni passaggi si esagera con le battute, trascurando i giusti tempi e causando ritmi altalenanti.
La grande numerosità dei personaggi, alcuni dei quali completamente nuovi, è invece un pregio di questo film, fortemente arricchito da figure molto diverse da quelle che solitamente popolano l’universo Marvel: un potenziale incredibile che ancora non è stato interamente sfruttato. Impossibile quindi negare che il materiale su cui lavorare in futuro non è poco.
“Guardiani della Galassia Vol. 2” rispetta le premesse, affidandosi ancora alle simpatiche personalità dei suoi eroi trovando, però, spazio anche per figure secondarie carismatiche. L’effetto nostalgia funziona ma non raggiunge i livelli del primo capitolo, dove la strabiliante colonna sonora Seventies – qui più trattenuta – giocava un ruolo cruciale nell’intrattenimento.
La confezione di film “alternativo”, diverso dai soliti cine-comic, questa volta lascia allo scoperto una struttura piuttosto tradizionale, forse richiesta anche dagli imminenti sviluppi che porteranno al colossale “Infinity War”. Nasce quindi un dubbio: la tanto lodata e ricercata interconnessione tra i diversi prodotti Marvel in alcuni casi tarpa le ali? In conclusione, il film strappa molti sorrisi e fa l’occhiolino soprattutto ai grandi fan del genere che, nella parte conclusiva tra easter eggs e scene post-credits, possono individuare non pochi riferimenti al mondo dei fumetti. Immagini tratte da: Immagine 1: Locandina – www.hollywoodreporter.com Immagine 2: Peter e Ego – www.nerdist.com Immagine 3: Baby Groot – www.marvel.com Immagine 4: Il gruppo di supereroi – www.screenrant.com 4/6/2017 IlTermopolio incontra Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo, alla scoperta del vero volto di Varichina - intervista ridottaRead Now
Qui il link per l'intervista integrale
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con i due registi della pellicola Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis, presentata al cinema Arsenale di Pisa.
Lorenzo rappresentava la trasgressione, la macchia composta da colori vivissimi nella grigia città di Bari degli anni ’70. Strillava di fronte agli innocenti “agguati” dei ragazzini del luogo che lo spaventavano con i loro odiati granchi, lanciava occhiolini ammiccanti a tutti i bei ragazzi che incontrava ma era anche capace di conquistarsi la fiducia delle donne del quartiere, donne da cui traeva spunto per arricchire la sua femminilità. Chi si celava realmente dietro alla maschera del personaggio di Varichina? Lo abbiamo domandato proprio a Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo, registi della pellicola: Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis. Ospiti al cinema Arsenale di Pisa, i due registi ci hanno raccontato un pezzo di storia della loro Bari. Una città che non ha dimenticato le bizzarrie di quest’alieno che ha portato una ventata di follia e di diversità, che sì è coraggiosamente scontrato contro la gretta mentalità e l’ipocrisia degli abitanti che oggi ammirano le sue gesta e non possono fare a meno di sorridere di fronte alle sue mitiche imprese. Con questa pellicola i due autori vogliono rendere omaggio al primo omosessuale che ha celebrato la sua diversità quotidianamente, sconfiggendo a caro prezzo la paura e la fobia. Lorenzo non si è mai arreso, neanche quando lo scherno si tramutava in rabbia per poi sfociare nella violenza più becera. Ha continuato a “combattere” contro i bacchettoni dell’epoca che lo guardavano basiti ma allo stesso tempo quasi ipnotizzati da tutta quella straordinaria e sana follia. La coppia Palumbo e Barbanente mescola nel loro racconto realtà e finzione e attraverso i racconti e le testimonianze dei baresi ci narrano le vicende di una maschera che ha fatto la storia di Bari e, grazie alla grande prova dell’attore Totò Onnis, provano a indagare sulla vita di un personaggio assai complesso. Chi c’era dietro la maschera di Varichina? Una macchietta che non si era resa conto di essere diventata un baluardo. Un “fimminiello”, una femmina mancata, un’imperfezione che rende la vita meravigliosa che, nonostante vivesse come un emarginato, profondamente solo e dimenticato dalla famiglia, riuscì a non farsi risucchiare dal limbo in cui vivevano gli altri “difettati” come lui, a fare breccia nei cuori della gente con la sua teatralità. Nello struggente finale Varichina dice che quello di far divertire gli altri è sempre stato il suo destino, quel celebrare la vita come fosse un continuo “si va in scena”. Quest’opera dal sapore agrodolce, saprà emozionarvi e coinvolgervi. Non potete assolutamente perdere le strepitose camicie del protagonista, fantastico specchio della sua grande personalità, che ci ha insegnato a vivere seguendo il nostro istinto e le nostre passioni. Nel lasciarvi all’intervista con i due autori cogliamo l’occasione per ringraziarli, non solo per averci concesso un po’ del loro tempo ma per averci regalato un’opera vera, fatta di volti, sorrisi e lacrime che difficilmente dimenticheremo.
È un piacere potervi conoscere, parlateci di Lorenzo de Santis, chi era il protagonista della vostra storia?
Antonio Palumbo: Lorenzo de Santis è un personaggio molto conosciuto a Bari soprattutto da coloro che hanno più di 35 anni perchè per 30 anni ha solcato le vie del centro barese sculettando e urlando in maniera molto pittoresca. Era un omosessuale molto dichiarato e aveva fatto del suo essere pittoresco e colorito una ragione d’essere. Tutti quanti conoscono Varichina perchè all’epoca Bari era una città di provincia molto buia e grigia e Varichina, vestendo le sue camicie colorate annodate sopra una pancia molto prominente, gli zoccoli ai piedi anche d’inverno, rivolgendo inviti poco velatamente sessuali a chiunque si trovasse di fronte, soprattutto gli uomini, era diventato un po’ il “matto del villaggio”. Non potevi non conoscere e non sapere all’epoca chi fosse Varichina. Noi ci siamo interessati a questo personaggio perchè in tempi non sospetti ha provato a fare, a modo suo, un coming out sulla sua diversità sessuale. Sicuramente in quegli anni era molto diverso rispetto a oggi, è stato infatti quotidianamente vittima di pestaggi e insulti, ma nonostante tutto, anche in maniera incoscente continuava a essere quello che era e ha portato avanti il suo essere sciantosa ed estremista che in lungo e in largo gridava la sua voglia di essere donna. Essendo nati e cresciuti a Bari, quanto di voi o meglio dei vostri ricordi è presente all’interno del vostro film? Antonio: io conoscevo Lorenzo perchè frequentavo l’università e quella era la zona di maggiore interesse per Varichina. Lui faceva il parcheggiatore nelle vicinanze dell’ateneo, precisamente in un parcheggio di fronte al cinema cittadino, il Cinema Galleria, proprio di fronte all’ingresso dell’università. Abitando nel quartiere Libertà, zona limitrofa al quartiere Murat che sarebbe il quartiere borghese centrale, era molto facile vederlo scorrazzare per quelle vie che sono una schacchiera, quindi mi è rimasto il ricordo di questo personaggio sopra le righe. Poi mi trasferì a Roma e in maniera quasi inconscia mi son sempre portato dentro la mia città e anche questi personaggi. Mia sorella nel 2014 mi girò l’articolo di un giornalista della gazzetta del mezzogiorno, che aveva celebrato in maniera goliardica e gioviale il mito di questo personaggio, promuovendo un busto all’interno della piazza centrale, quello davanti all’ex sede delle poste centrali, dove lui era solito intrattenere il pubblico con i suoi spettacoli e fare, secondo alcune voci, anche le marchette. Ho chiamato Mariangela che è una sceneggiatrice, oltre che una documentarista, perchè m’interessava tantissimo coinvolgere lei come professionista e come donna per avere un punto di vista diverso. Mariangela non conosceva il personaggio ma è apparsa subito entusiasta. Quindi abbiamo cominciato a scrivere con l’aiuto di Alberto Selvaggi, il giornalista in questione, che già aveva condotto una piccola ricerca su chi lo conosceva, sulla sua vita privata e su che fine avesse fatto questo personaggio rimasto nel mito per molti baresi, che però, a un certo punto, non aveva dato più notizie di sè. Molti pensavano fosse morto di AIDS, altri pensavano fosse andato via da Bari, in realtà con le testimonianze siamo riusciti a ricostruire gran parte della sua vita, fino al tramonto dei suoi giorni. Immagini tratte da: foto a cura di Martina Criscione 4/6/2017 IlTermopolio incontra Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo, alla scoperta del vero volto di Varichina.Read Now
Abbiamo fatto quattro chiacchiere con i due registi della pellicola Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis, presentata al cinema Arsenale di Pisa.
Lorenzo rappresentava la trasgressione, la macchia composta da colori vivissimi nella grigia città di Bari degli anni ’70. Strillava di fronte agli innocenti “agguati” dei ragazzini del luogo che lo spaventavano con i loro odiati granchi, lanciava occhiolini ammiccanti a tutti i bei ragazzi che incontrava ma era anche capace di conquistarsi la fiducia delle donne del quartiere, donne da cui traeva spunto per arricchire la sua femminilità. Chi si celava realmente dietro alla maschera del personaggio di Varichina? Lo abbiamo domandato proprio a Mariangela Barbanente e Antonio Palumbo, registi della pellicola: Varichina – La vera storia della finta vita di Lorenzo De Santis. Ospiti al cinema Arsenale di Pisa, i due registi ci hanno raccontato un pezzo di storia della loro Bari. Una città che non ha dimenticato le bizzarrie di quest’alieno che ha portato una ventata di follia e di diversità, che sì è coraggiosamente scontrato contro la gretta mentalità e l’ipocrisia degli abitanti che oggi ammirano le sue gesta e non possono fare a meno di sorridere di fronte alle sue mitiche imprese. Con questa pellicola i due autori vogliono rendere omaggio al primo omosessuale che ha celebrato la sua diversità quotidianamente, sconfiggendo a caro prezzo la paura e la fobia. Lorenzo non si è mai arreso, neanche quando lo scherno si tramutava in rabbia per poi sfociare nella violenza più becera. Ha continuato a “combattere” contro i bacchettoni dell’epoca che lo guardavano basiti ma allo stesso tempo quasi ipnotizzati da tutta quella straordinaria e sana follia. La coppia Palumbo e Barbanente mescola nel loro racconto realtà e finzione e attraverso i racconti e le testimonianze dei baresi ci narrano le vicende di una maschera che ha fatto la storia di Bari e, grazie alla grande prova dell’attore Totò Onnis, provano a indagare sulla vita di un personaggio assai complesso. Chi c’era dietro la maschera di Varichina? Una macchietta che non si era resa conto di essere diventata un baluardo. Un “fimminiello”, una femmina mancata, un’imperfezione che rende la vita meravigliosa che, nonostante vivesse come un emarginato, profondamente solo e dimenticato dalla famiglia, riuscì a non farsi risucchiare dal limbo in cui vivevano gli altri “difettati” come lui, a fare breccia nei cuori della gente con la sua teatralità. Nello struggente finale Varichina dice che quello di far divertire gli altri è sempre stato il suo destino, quel celebrare la vita come fosse un continuo “si va in scena”. Quest’opera dal sapore agrodolce, saprà emozionarvi e coinvolgervi. Non potete assolutamente perdere le strepitose camicie del protagonista, fantastico specchio della sua grande personalità, che ci ha insegnato a vivere seguendo il nostro istinto e le nostre passioni. Nel lasciarvi all’intervista con i due autori cogliamo l’occasione per ringraziarli, non solo per averci concesso un po’ del loro tempo ma per averci regalato un’opera vera, fatta di volti, sorrisi e lacrime che difficilmente dimenticheremo.
È un piacere potervi conoscere, parlateci di Lorenzo de Santis, chi era il protagonista della vostra storia?
Antonio Palumbo: Lorenzo de Santis è un personaggio molto conosciuto a Bari soprattutto da coloro che hanno più di 35 anni perchè per 30 anni ha solcato le vie del centro barese sculettando e urlando in maniera molto pittoresca. Era un omosessuale molto dichiarato e aveva fatto del suo essere pittoresco e colorito una ragione d’essere. Tutti quanti conoscono Varichina perchè all’epoca Bari era una città di provincia molto buia e grigia e Varichina, vestendo le sue camicie colorate annodate sopra una pancia molto prominente, gli zoccoli ai piedi anche d’inverno, rivolgendo inviti poco velatamente sessuali a chiunque si trovasse di fronte, soprattutto gli uomini, era diventato un po’ il “matto del villaggio”. Non potevi non conoscere e non sapere all’epoca chi fosse Varichina. Noi ci siamo interessati a questo personaggio perchè in tempi non sospetti ha provato a fare, a modo suo, un coming out sulla sua diversità sessuale. Sicuramente in quegli anni era molto diverso rispetto a oggi, è stato infatti quotidianamente vittima di pestaggi e insulti, ma nonostante tutto, anche in maniera incoscente continuava a essere quello che era e ha portato avanti il suo essere sciantosa ed estremista che in lungo e in largo gridava la sua voglia di essere donna. Essendo nati e cresciuti a Bari, quanto di voi o meglio dei vostri ricordi è presente all’interno del vostro film? Antonio: io conoscevo Lorenzo perchè frequentavo l’università e quella era la zona di maggiore interesse per Varichina. Lui faceva il parcheggiatore nelle vicinanze dell’ateneo, precisamente in un parcheggio di fronte al cinema cittadino, il Cinema Galleria, proprio di fronte all’ingresso dell’università. Abitando nel quartiere Libertà, zona limitrofa al quartiere Murat che sarebbe il quartiere borghese centrale, era molto facile vederlo scorrazzare per quelle vie che sono una schacchiera, quindi mi è rimasto il ricordo di questo personaggio sopra le righe. Poi mi trasferì a Roma e in maniera quasi inconscia mi son sempre portato dentro la mia città e anche questi personaggi. Mia sorella nel 2014 mi girò l’articolo di un giornalista della gazzetta del mezzogiorno, che aveva celebrato in maniera goliardica e gioviale il mito di questo personaggio, promuovendo un busto all’interno della piazza centrale, quello davanti all’ex sede delle poste centrali, dove lui era solito intrattenere il pubblico con i suoi spettacoli e fare, secondo alcune voci, anche le marchette. Ho chiamato Mariangela che è una sceneggiatrice, oltre che una documentarista, perchè m’interessava tantissimo coinvolgere lei come professionista e come donna per avere un punto di vista diverso. Mariangela non conosceva il personaggio ma è apparsa subito entusiasta. Quindi abbiamo cominciato a scrivere con l’aiuto di Alberto Selvaggi, il giornalista in questione, che già aveva condotto una piccola ricerca su chi lo conosceva, sulla sua vita privata e su che fine avesse fatto questo personaggio rimasto nel mito per molti baresi, che però, a un certo punto, non aveva dato più notizie di sè. Molti pensavano fosse morto di AIDS, altri pensavano fosse andato via da Bari, in realtà con le testimonianze siamo riusciti a ricostruire gran parte della sua vita, fino al tramonto dei suoi giorni. Mariangela Barbanente: io non ho conosciuto personalmente Varichina o perlomeno non possiedo un ricordo forte su di lui, per cui in questo momento non so dirti se l’immagine che ho nella memoria è qualcosa che è nata dalle chiacchiere con Antonio o con Alberto o se è veramente nella mia memoria. Io non vivo più a Bari dall’89 però c’è comunque molto di me in questo racconto sulla Bari degli anni ’80. Ricordo che nel mio paese, abitavo in un paese limitrofo alla città, l’omosessualità era veramente un taboo, un mistero, esisteva solo un gruppo di omosessuali che bazzicava attorno a una pizzeria, erano veramente dei “femminielli” e questa cosa che l’omosessualità era associata allo scimmiottare le donne, è sempre rimasta molto forte nella mia memoria e nel racconto di Varichina c’è molto di questo ricordo. Una delle cose che mi ha affascinato di più della proposta di Antonio è stata provare a raccontare chi c’era dietro il personaggio pubblico, chi c’era dietro la maschera, anche il titolo parla di Varichina e di Lorenzo de Santis, perché uno era la maschera e l’altra era la persona dietro la maschera.
Avete lavorato fianco a fianco in questo progetto o avete curato certi aspetti separatamente? Possiamo definire il vostro film una docu-fiction?
Mariangela Barbanente: abbiamo lavorato insieme, unendo tutte le nostre competenze. Tecnicamente la docu-fiction è documentario e finzione, qualcuno la definisce pure docu-drama, più erroneamente anche docu-film, ma in fondo cosa vuol dire docu-film? film è un termine generale che comprende l’animazione, il documentario, il film di finzione: il nostro è a tutti gli effetti a metà strada tra il documentario e il drama, quindi sì, ci riconosciamo in questa definizione. Antonio Palumbo: non siamo sicuramente dei pionieri, ma abbiamo voluto sperimentare. Tante pellicole di docu-fiction in realtà tendono a separare nettamente la fiction dalla parte testimonale, invece noi abbiamo provato a mischiarle; i personaggi della fiction s’intrecciano con i testimoni e i personaggi reali all’interno delle stesse sequenze. Tutto questo ha creato più continuità e soprattutto è riuscito a spiegare la nostra idea. Lorenzo de Santis è un personaggio simile a un fantasma che continua ad aleggiare e a vivere nelle coscienze delle città e dei suoi cittadini. Devo dire che, anche dai feedback esterni, perchè ormai è un anno che il nostro film è in circolazione, siamo riusciti a trasmettere la nostra idea al pubblico: un film dove gli attori, i personaggi di finzione diventano testimoni e i testimoni diventano attori.
Dopo aver girato il film vi sarete confrontati con altri omosessuali, avete avuto modo di trovare un altro Varichina o semplicemente di conoscere nuove storie?
Mariangela Barbanente: no, non abbiamo trovato un altro Varichina, ma dopo sono venuta a conoscenza di una storia assai interessante che mi ha confidato un amico coetaneo sempre nativo di Bari. Egli, quando era adolescente già sapeva di essere omosessuale ma non ne aveva parlato con nessuno; aveva come unico modello Varichina ma diceva “io non sono come lui” perchè l’omosessualità all’epoca era talmente repressa che un ragazzino che cominciava a crearsi un’identità sessuale non sapeva a quale modello ispirarsi. L’idea che l’unico omosessuale che lui conosceva era Lorenzo lo metteva a disagio perchè diceva “io non sono così e allora chi sono? sono veramente così alieno?”. Per fortuna, andando anche a studiare fuori, il suo mondo si è allargato e ha trovato la forza per seguire la sua strada. Ecco questa è una delle considerazioni che mi ha colpita di più. Antonio Palumbo: diceva bene Mariangela! il concetto di omosessuale in provincia negli anni ‘70 e ‘80 era quello di una femmina mancata, era quello il concetto base di omosessuale, per noi adolescenti ma anche per una sacca sottoculturale della città. L’omosessuale era quasi pericoloso perché era una vista come una donna mancata, repressa, che viveva per adescare gli uomini, ecco perché c’era questo rifiuto, questo rigetto. Ovvio che in alcuni casi il rifiuto si trasformava in offese verbali più o meno pesanti, in altri, laddove i soggetti implicati in queste attenzioni di Varichina appartenevano a una classe particolarmente ignorante, potevano tramutarsi in violenze, ma nella sua incoscienza, nella sua ignoranza e nella sua naiveté Lorenzo de Santis non poteva essere differente. Quindi le mazzate e gli insulti lo fortificavano, forse lui si sentiva vivo perchè riconosciuto e oggetto di attenzioni, in realtà lui era un esibizionista e aveva bisogno di gente che lo riconoscesse come un diverso. Sembra un po’ un controsenso però ci siamo resi conto nel tempo che questo era Lorenzo. Inoltre ci siamo accorti che a livello simbolico era diverso rispetto a oggi, con i tempi che sono cambiati, con una coscienza diversa e anche con i diritti agli omosessuali che giustamente sono stati riconosciuti. Questo film ha acquistito un simbolo di rivalsa politica, quando lui in vita sicuramente non aveva la struttura culturale per voler essere un rivoluzionario.
Oggi com’è vista l’omosessualità a Bari? La mentalità della città è cambiata?
Mariangela Barbanente: assolutamente sì! Rispetto agli anni ’80 non c’è paragone. Certo chi appartiene ad altre generazioni ha ancora delle strutture mentali arcaiche, però non è più un problema per nessuno. Basti pensare che la Puglia è stata la prima regione ad avere un governatore dichiaratamente omosessuale e nessuno ha battuto ciglio e questa secondo me è una grande lezione di civiltà. Progetti futuri? Avete ancora voglia di lavorare fianco a fianco? Visti gli ottimi risultati sarebbe un peccato non potervi vedere ancora insieme... Antonio: proprio oggi siamo tornati da Berlino per la tournée di Varichina. A livello professionale noi abbiamo messo le basi per un progetto futuro che stiamo sviluppando in questi giorni, siamo proprio nella fase primordiale però parliamo non di una docu-fiction, ma di un possibile format per il broadcasting. Al momento il progetto è ancora embrionale questo dovrebbe farti capire che ci piace molto lavorare insieme. Mariangela: perlomeno questa co-regia non ha messo a repentaglio la nostra amicizia e questo è un grande risultato. Antonio Palumbo: lavorare con Mariangela è un piacere, siamo sempre stati molto chiari e lucidi l’uno con l’altra e certo qualche diverbio c’è stato ma fa parte del gioco e sempre fuori dal set. Mariangela: Penso che il diverbio più grande sia stato durante il montaggio, quando ti bacchettavo perchè non volevi vedere e rivedere il girato del film (Ride N.d.R). Antonio: la cosa che ci rende unici è che abbiamo una formazione e una prospettiva totalmente diversa. Io scrivo anche, ma lei è una sceneggiatrice con esperienza ed è una strutturalista, io non lo sono ma ho una predisposizione naturale per la fiction ed è per questo che ci sposiamo bene. Mariangela: sulla direzione degli attori è stato fondamentale il contributo di Antonio, diciamo che la cosa positiva della nostra collaborazione è che siamo stati capaci, senza nemmeno dircerlo, senza darci delle regole, di fare un passo indietro o un passo avanti quando le competenze dell’uno erano maggiori delle competenze dell’altro e viceversa. Antonio: il lavoro del regista è straordinario, devi essere illuminato e illuminante e devi essere pronto a recepire, se ti aiuta a portare avanti il progetto e, quando hai una persona che è partita con te nello sviluppo di questo progetto, che ha anche delle competenze perchè è stata dietro la macchina da presa, anche se con dei linguagi differenti, la devi vedere come una grande opportunità piuttosto che come un intralcio o un limite alla tua creatività. In questo siamo stati maturi e intelligenti, ma soprattutto umani. Immagini tratte da: foto a cura di Martina Criscione
In questi giorni si è parlato molto dell’impatto che aziende come Netflix e Amazon hanno avuto sull’industria cinematografica. Le recenti affermazioni di Pedro Almodovar a Cannes hanno semplicemente alimentato una discussione che già da qualche mese anima esperti del settore e non. Dopotutto, la presenza dei due colossi dell’intrattenimento ai più prestigiosi festival non è più un’eccezione: prodotto dopo prodotto, entrambi hanno saputo conquistare ruoli di prestigio insieme a un’ampia fetta di pubblico. Il successo è probabilmente da attribuire alla capacità di mantenere sempre una buona qualità sapendo soddisfare spettatori dai gusti molto diversi fra loro. Netflix, in particolare, ama giocare con i generi canonici sia con le serie tv che con i film. L’attesissimo War Machine è figlio della suddetta filosofia che, in questo caso, cerca di reinventare il war movie classico contaminandolo con satira, senza dimenticare importanti messaggi.
Tratta dal libro The Operators: The Wild and Terrifying Inside Story of America’s War in Afghanistan del giornalista Michael Hastings, l’ultima fatica registica di David Michod porta sul piccolo schermo la storia del generale statunitense Glen McMahon (Brad Pitt), uomo dalle peculiari abitudini, stimato dai suoi subalterni e scelto per porre fine al conflitto in Afghanistan. Su di lui si concentrano tutte le maggiori aspettative del paese.
La figura del protagonista è dichiaratamente ispirata a quella del generale Stanley McChrystal, travolto dalle polemiche sulle sue stesse dichiarazioni contro il governo Obama nel 2010 e rimosso dall’incarico affidatogli in Afghanistan. Brad Pitt, nei panni del controverso protagonista, catalizza l’attenzione del pubblico. Il suo ingresso in scena è paragonabile a quello di una rockstar acclamata da migliaia di fan: è un uomo fiero del suo operato e dei suoi successi, un uomo che non accetta fallimenti. L’attore statunitense costruisce il personaggio attraverso tic, movenze esilaranti e abitudini assurde, mostrando il lato più ottuso di questa figura al comando a cui sono state affidate importanti responsabilità. Le relazioni interpersonali e la visione del mondo in bianco e nero rendono volutamente McMahon un personaggio distante dalla realtà, un paradosso vivente che incarna errate convinzioni e aspirazioni di una nazione e di una intera classe dirigente incapace di comprendere la realtà dei fatti.
Al fianco di un valido Brad Pitt, figura una sempre convincente Tilda Swinton che, nei panni di una giornalista tedesca preoccupata dal carattere del generale, per prima entra in contrasto con McMahon intorno a cui si riunisce un nutrito gruppo di militari disposti a eseguire ogni suo ordine. Durante la visione si incontrano, inoltre, diversi funzionari governativi, tutti rappresentati nella loro incoerenza e incapacità di affrontare problemi concreti. Tra tutti è rappresentativo il presidente afghano che, interpretato mediocremente da Ben Kingsley, risulta essere un semplice fantoccio.
La poco accurata alternanza di toni e gli eccessi della parte finale, nonostante tutto, non compromettono completamente una visione che, supportata da una buona colonna sonora curata da Nick Cave e Warren Ellis, si rivela godibile e soprattutto curiosa per la sua volontà di trattare temi pacifisti attraverso personaggi nati e cresciuti per l’arte militare. Immagini tratte da: Immagine 1: Locandina – www.heyuguys.com Immagine 2: Brad Pitt – www.businessinsider.com Immagine 3 Tilda Swinton – www.sorrisi.com |
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Maggio 2023
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