di Salvatore Amoroso
La recensione di Toy Story 4, l'emozionante film Disney Pixar del 2019 diretto da Josh Cooley, subentrato a John Lasseter che resta tra gli autori del soggetto. ![]()
Paese: USA
Genere: animazione Anno: 2019 Regia: Josh Cooley Sceneggiatura: Stephany Folsom, Andrew Stanton Musiche: Randy Newman Distribuzione: Walt Disney Pictures, Pixar Animation Studios Attori: Tom Hanks: Sceriffo Woody, Tim Allen: Buzz Lightyear, Annie Potts: Bo Peep, Tony Hale: Forky, Keegan-Michael Key: Ducky, Jordan Peele: Bunny, Joan Cusack: Jessie, Blake Clark: Slinky Don Rickles: Mr. Potato, Estelle Harris: Mrs. Potato, John Ratzenberger: Hamm, Wallace Shawn: Rex.
Ci vuole un impero mediatico e culturale come quello di Disney e associate, ormai sempre più cardine della cultura pop statunitense contemporanea per arrivare alla decisione di disturbare la trilogia cinematografica più riuscita degli ultimi vent'anni e più al cinema: quella di Toy Story. Realizzare un quarto, nuovo capitolo delle avventure di Woody e Buzz significa tornare sulla scena di un delitto perfetto, capace film dopo film di evolversi continuamente, di non guardarsi troppo indietro e di crescere fino a dire importanti, inevitabili, potentissimi addii. Non è nemmeno una questione di possibilità narrative, di valutazione della storia che si ha per le mani, soppesando se possa essere all'altezza della sfida. L'approccio del team d'eccellenza di Pixar è quello di chi non ha riverenza verso il recente passato perché è convinto di poter fare altrettanto bene nel presente, di poter girare un nuovo classico, commovente e divertente. L'idea geniale alla base di Toy Story quella dei giocattoli senzienti con una vita segreta alle spalle dei loro bambini, che affrontano come un vero e proprio lavoro il loro ruolo di intrattenitori è di quelle declinabili in infinite varianti, senza mai perdere di freschezza.
In Toy Story 4 diventa chiaro che chiudere la storia di Andy storico bambino possessore di Woody non era abbastanza. Sarebbe significato chiudere il mondo dei giocattoli in una decade, nel modo di vedere il mondo e il cinema di una generazione. Una realtà che non a caso ha raggiunto la sua naturale conclusione quando quel mondo racchiuso nell'infanzia di Andy ha smesso di esistere, dentro e fuori lo schermo. Il rilancio di Toy Story 4 mozza il fiato perché punta ambiziosamente a rivedere le basi stesse di questa storia, molto più profondamente di un semplice cambio di bambino. I giocattoli di Andy sono passati alla piccola Bonnie, sì, ma a influenzare il film è soprattutto il cambiamento culturale e sociale che è avvenuto fuori e dentro i cinema. Il Woody che ritroviamo in Toy Story 4 è quasi un Don Chisciotte, un eroe romantico dall'etica assoluta, impossibilmente datata. La sua lealtà verso Bonnie e il suo tentativo di salvare Forky nascondono una crisi interiore di chi si ritrova in una realtà diversa da quella conosciuta, cambiata, in cui fatica a trovare posto. Toy Story 4 parla più che mai agli ex Andy, anzi, è un film che ha nel mirino soprattutto il pubblico degli accompagnatori dei piccoli in sala.
Woody e il suo sentimento di non appartenenza traghettano lo spettatore in una visione nuova del mondo dei giocattoli, figlia di tantissimi cambiamenti avvenuti nella nostra società. A venir meno nella costruzione filosofica del suo mondo sembra essere proprio il concetto capitalista del possesso e dell'esclusività, in favore di una visione egalitaria, di condivisione e comunanza, con Forky che è perfetta sintesi sia della neonata voglia di sostenibilità sia delle nostre perenni nevrosi. Il vero simbolo di questa nuova era è però Boe Peep, tornata nelle vesti di un samurai ronin senza padrone e orgogliosa di un'indipendenza maturata in anni di solitudine su uno scaffale. Non sono mancate nell'ultimo anno eroine Disney e Marvel vogliose di riparare a un po' di torti del passato, ma Boe Peep è tra le poche a non sembrare goffa ed eccessiva nell'essere insistita e costruita come donna forte.
Toy Story è un film realizzato con raro rispetto, che mai farebbe lo sgarbo a un giocattolo buono o cattivo che sia di avere trama e motivazioni più che solide. Forse non è un caso che Toy Story 4 approdi nei cinema appena qualche settimana dopo ad Avengers: Endgame. Anche qui c'è aria di commiato e cambiamento, anche se la plastica e l'animazione rendono potenzialmente immortale ogni personaggio. La vera forza di questo franchise è invece l'estremo rispetto, il profondo affetto e la lealtà che Pixar dimostra verso il suo primo capolavoro, non osando mai piegarlo a logiche di mercato, di sequel o a idee meno che potenti e importanti. Toy Story 4 quindi supera brillantemente la prova, perché riesce a staccarsi dalla trilogia originale, rompendo l'incantesimo di un mondo dei giocattoli sospeso in un momento storico preciso. Stavolta Disney pone il suo Woody e il suo pubblico di fronte alla necessità di cambiamento, di passaggio del testimone, d'evoluzione. In questo Woody c'è un po' di Tony Stark, un po' della vecchia generazione che lascia il passo alla nuova e un po' di quella società che, per quanto spaventata dal cambiamento, finisce per fare la scelta giusta.
Immagini tratte da:
Locandina: ANSA.it Immagine1: Ciak Magazine Immagine2: CiakClub.it Immagine3: Entertainment weekly Immagine4: badtaste.it
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di Matelda Giachi
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Data di uscita: 27 giugno 2019
Genere: Drammatico Anno: 2018 Durata: 123 min. Regia: Xavier Dolan Cast: Kit Harington, Natalie Portman, Jacob Tremblay, Ben Schnetzer, Kathy Bates, Sarah Gadon, Thandie Newton, Susan Sarandon, Emily Hampshire, Michael Gambon, Chris Zylka, Amara Karan, Ari Millen Sceneggiatura: Xavier Dolan, Jacob Tierney Fotografia: André Yared Montaggio: Mathieu Denis, Xavier Dolan Colonna sonora: Gabriel Yared Produzione: Lyla Films, Pipeline Entertainment, Sons of Manual, Warp Films Distribuzione: Lucky Red Paese: Canada
Anno 2009, Xavier Dolan, appena ventenne, presentava a Cannes il suo primo lungometraggio, J'ai tué ma mère. Tornato su la croisette varie volte, il suo nome comincia a girare anche per le strade del Lido di Venezia. Era il 2013, l’anno di Gravity con George Clooney e Sandra Bullock, e Xavier Dolan era sbarcato alla Biennale col suo Tom a la ferme. Poco dopo, con Mommy, la consacrazione. Scorrendo i titoli di testa vedrete il suo nome apparire non solo alla regia e alla sceneggiatura, ma anche al montaggio, alla produzione, ai costumi… Attore e doppiatore, per il suo paese è stato la voce di Rupert Grint in Harry Potter. Un talento eccezionale e giovanissimo, cose che, in questo mondo, hanno il loro prezzo.
Demolito brutalmente dalla critica anglosassone, La mia Vita con J. F. Donovan ha avuto poi molti problemi di distribuzione, nonostante sia il primo film in lingua inglese del regista e vanti di un cast stellare, da Natalie Portman a Susan Sarandon, passando per Kathy Bates. Arriva finalmente in Italia, grazie a Lucky Red, dopo che già è stata presentata la sua opera successiva.
La storia di un bambino, Rupert (Jacob Tremblay, Room) che vuole diventare attore e quella di un giovane trentenne (Kit Harington, Il Trono di Spade) che attore è già e che ha appena raggiunto un successo planetario, si incrociano quando il primo decide di scrivere al secondo una lettera e riceve risposta. Entrambi in un momento di vita critico, trovano conforto nella sincerità di quella che sarà un’amicizia epistolare di cinque anni.
Da sempre Dolan attinge al proprio vissuto per la sua filmografia e in La mia Vita con J. F Donovan ritroviamo tutti i suoi temi caratteristici, dal bullismo subito, al controverso rapporto con la madre, all’accettazione della propria omosessualità fino al suo profondo amore per il cinema. Ogni aspetto però qui si sdoppia ed è vissuto in parallelo dai due protagonisti, in cui Dolan sembra mettere parte di sé, del suo io passato e del suo io attuale. Anche l’espediente che dà origine all’intreccio richiama la lettera che lo stesso Dolan scrisse a Leonardo di Caprio dopo aver visto Titanic ed esserne rimasto entusiasta. Ma il fulcro di tutta l’opera è la contrapposizione tra verità e finzione, tra sincerità e menzogna o come avrebbe detto Luigi Pirandello, tra volto e maschera. Dolan denuncia quello che è il cancro non solo di tutta la baracca hollywoodiana ma del nostro tempo in generale, in cui la soppressione dell’io in favore della visione costruita da altri sembra essere l’unica salvezza dalla pubblica gogna. Questa sedicente salvezza è però la via più diretta anche per ogni altra forma autodistruzione e si rischia di rimanerne schiacciati, come Donovan. I primi piani indagatori e a volte quasi soffocanti rimangono l’arma di ricerca di Xavier Dolan e la sua firma nella più intima e introspettiva delle sue opere.
Ma perché tanto odio da parte della critica? Sicuramente vi sono difetti tecnici: la voce narrante è quella di Rupert che dieci anni dopo i fatti e diventato davvero attore (Ben Schnetzer, La Verità sul Caso Harry Quebert), ripercorre quel suo periodo di vita in un’intervista con una giornalista del New York Times (Thandie Newton, La Bella e la Bestia). Di fatto, vediamo momenti privati della vita di Donovan di cui lui non avrebbe mai potuto essere a conoscenza.
Tutta colpa della recitazione di Kit Harington? Ne Il Trono di Spade potremmo aver apprezzato il personaggio, la fisicità del suo interprete ma non certo le doti interpretative. Eppure, nonostante anche il fatto che sia circondato da colleghi di altissimo livello, con cui è difficile reggere il confronto, Kit Harington non eccelle ma comunque ci sta. Forse la critica è rimasta delusa dalla mancanza di impeto delle opere precedenti, viviamo tempi in cui il Tribunale dell’Inquisizione ha assunto nuove e più subdole forme e se non urliamo allo scandalo con tutto il fiato che abbiamo in corpo non siamo contenti. Forse avrebbe voluto strapparsi tutti i capelli; il premio Oscar a Moonlight ci insegna che più tiriamo martellate su… le ginocchia, più siamo profondi. Ma Dolan non è rabbioso o disperato, è amareggiato, malinconico, disilluso. Perfino speranzoso e quasi positivo, abbastanza da chiudere l’ultima inquadratura su un sorriso. La Mia Vita con J. F. Donovan forse non apparirà mai nella lista dei 100 film migliori di sempre, ma è lontano dall’essere l’orrore che ci ha venduto una sezione della critica forse incattivita e frustrata. Voto: 7,5 Titolo: I Durrell - La mia famiglia e altri animali Paese: Regno Unito Anno: 2016 – in produzione Genere: commedia drammatica, biografica Episodi prima stagione: 6 Durata: 46 min (episodio) Soggetto: i romanzi di Gerald Durrell Interpreti e personaggi: Keeley Hawes (Louisa Durrell); Milo Parker (Gerry Durrell); Josh O'Connor (Larry Durrell); Daisy Waterstone (Margo Durrell); Callum Woodhouse (Leslie Durrell); Yorgos Karamihos (Theo Stephanides); Alexis Georgoulis (Spiros Hakaiopoulos); Leslie Caron (Contessa Mavrodaki); Ulric von der Esch (Sven Lundblad); Anna Savva (Lugaretzia) 1935 Bournemouth (Inghilterra). Louisa Durrell (Keeley Hawes) è vedova (suo marito è morto alcuni anni prima) e ha dei problemi finanziari, così quando il figlio maggiore, Larry (Josh O’Connor), propone di trasferirsi a Corfù, lei accetta immediatamente. Però per lei e i suoi quattro figli adattarsi alla vita sull'isola greca non sarà semplice, tra mancanza di soldi e di energia elettrica e tanti animali. I Durrell - La mia famiglia e altri animali é una serie televisiva britannica, attualmente in onda la domenica pomeriggio su Rai2 dalle 14:30, tratta dalla trilogia di romanzi "La mia famiglia e altri animali"," Storie di animali e di altre persone di famiglia" e I"l giardino degli dei" di Gerald Durrell, che racconta in un mix di autobiografia, zoologia ed ironia le esperienze personali della sua famiglia nei quattro anni passati sull'isola di Corfù (1935-1939). Gerald nella serie è il piccolo animalista Gerry, che da adulto diventerà il fondatore della Durrell Wildlife Conservation Trust, un'organizzazione il cui scopo è salvare le specie in via di estinzione e dello Jersey Zoo. Ma torniamo alla serie. Ciò che colpisce immediatamente è la bizzarria dei protagonisti: Larry, il fratello maggiore, che da adulto diventerà uno degli scrittori inglesi più famosi del nostro secolo, passa il suo tempo a scrivere in soffitta, è super acculturato e tenta spesso di affibbiare dei pretendenti (come un vecchio ubriacone barbuto) a sua madre, Leslie è appassionato di caccia e si porta sempre appresso il suo fucile, frequenta persone poco raccomandabili e finisce più volte in prigione, Margo è una adolescente in cerca di marito anche se ha solo 16 anni, è svogliata ma riesce a farsi assumere come dama di compagnia di una contessa, infine c'è Gerry. Il minore dei Durrell è appassionato di animali, cattura tutti quelli che incontra sull'isola (cani, una tartaruga, un albatros, un pellicano, addirittura dei pipistrelli) per osservarli e addomesticarli, un metodo che oggi non sarebbe approvato dalla protezione animali, ma che negli anni 30 era lecito. E poi c'è la loro mamma, Louisa, donna molto moderna per l'epoca, ma troppo permissiva. Anche Corfù è popolata da alcuni strambi personaggi, come la domestica Lugaretzia che aiuterà i Durrell, lo scienziato Theo con cui farà amicizia Gerry e il tassista Spiros. "I Durrell" è una serie tv d'altri tempi, leggera ma profonda, che fa ridere ma anche commuovere, è impossibile non affezionarsi a questa "buffa" famiglia inglese e non innamorarsi della splendida isola incontaminata di Corfù. SU RAIPLAY POTETE RECUPERARE I PRIMI EPISODI DELLA SERIE: ➡ https://www.raiplay.it/programmi/idurrelllamiafamigliaealtrianimali/ Immagini tratte da: FOTO 1 E 2: https://mr.comingsoon.it/ FOTO 3: https://th.tvblog.it/ Di Federica Gaspari
Il 2019 doveva essere l’anno di Game of Thrones. Tutti gli occhi erano puntati sul prodotto HBO più fortunato e seguito della storia del piccolo schermo. Le aspettative, tuttavia, hanno giocato a sfavore, lasciando milioni di appassionati privi del loro punto di riferimento ormai irriconoscibile. Contro ogni pronostico, allora, l’attenzione si è spostata su una creatura televisiva completamente diversa da quella di Benioff e Weiss. Chi avrebbe mai immaginato che una mini-serie storica avrebbe saputo suscitare tale interesse? HBO ha scommesso su Chernobyl portando sul piccolo schermo uno dei disastri nucleari ma, soprattutto, politici e sociali peggiori di sempre. La miniserie, trasmessa in Italia da Sky Atlantic, si apre con l’episodio 1:23:45 e subito chiarisce la volontà di non proporre un semplice resoconto dettagliato di quanto accaduto la notte del 26 aprile 1986 nella centrale nucleare di Chernobyl. La sequenza di apertura, infatti, è dedicata a un uomo che, a due anni dall’evento, decide di imprimere su un nastro registratore la verità impregnata di tutta la peggiore disperazione. Il suo nome è Valerij Legasov, esperto di energia atomica chiamato sul luogo del disastro come consulente per la gestione dell’emergenza. Attraverso gli occhi di uno strepitoso Jared Harris – che conferma il suo talento anche ad anni di distanza da Mad Men – lo spettatore osserva il vortice distruttivo di avvenimenti che hanno seguito l’esplosione del reattore, una catena di responsabilità e mancanze che hanno rappresentato un momento storico cruciale del secolo scorso. Questo primo episodio, tuttavia, sceglie di concentrarsi sul concetto di inconsapevolezza, sia per volontà che per ingenuità. In un racconto corale emergono allora i contrasti tra gli ingegneri della sala di controllo, tecnici inerti e sopraffatti da un’emergenza, e gli abitanti del luogo, quasi affascinati da quelle luci cerulee, quasi surreali, seguite da una pioggia di radiazioni. La sequenza dei bambini danzanti sotto la polvere radioattiva rimane così impressa con tutta la sua potenza. Se l’episodio di apertura sceglieva di mostrare il lato umano del disastro, la puntata Please Remain Calm si concentra maggiormente sugli aspetti più tecnici delle conseguenze. Per questo motivo viene introdotta la figura della fisica Ulana Khomyuk interpretata brillantemente da Emily Watson. Questo personaggio sposta lo sguardo su quanto è accaduto fuori dai confini di Chernobyl. Fa la sua comparsa una società incapace di riconoscere le conseguenze di quanto accaduto e, quindi, di affrontarle con la giusta preparazione. Se, tuttavia, l’impreparazione può essere in qualche modo tollerata, l’aspetto più inquietante riguarda la volontà, sempre più opprimente, di nascondere e negare quanto accaduto. E’ l’indizio cruciale per comprendere la fine di un’intera nazione, anzi di un sistema fondato su segreti di stato e silenzi. Il clima di muta inquietudine viene reso alla perfezione con l’aiuto anche dei reparti tecnici della fotografia e delle scenografie. Nessun dettaglio viene lasciato al caso. Terrore davanti all’ignoto e paura di scoprire i dettagli più agghiaccianti si mescolano portando a riflettere su un’epoca in cui il progresso tecnologico si piegava al potere e alla supremazia senza considerare ogni possibile implicazione umana. I primi due episodi di questa spettacolare e complessa miniserie sono tra le produzioni più riuscite di questa stagione televisiva. Chernobyl, con maestria e grande consapevolezza, si avventura tra le pieghe di un evento noto ma mai davvero conosciuto da vicino. Da non perdere!
Immagini tratte da: www.imdb.com www.hbo.com www.hollywoodreporter.com www.indiewire.com
di Matelda Giachi
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Genere: Drammatico
Anno: 2018 Durata: 112 min Regia: Felix van Groeningen Cast: Steve Carell, Timothée Chalamet, Amy Ryan, Maura Tierney, Kaitlyn Dever, Timothy Hutton, Stefanie Scott, Jack Dylan Grazer, Christian Convery, Oakley Bull Sceneggiatura: Luke Davies, Felix Van Groeningen Fotografia: Ruben Impens Produzione: Plan B Entertainment Distribuzione: 01 Distribution Paese: Stati Uniti
“Beautiful boy”. Era un ragazzo così bello, dolce, sorridente… Che fine ha fatto quel ragazzo? La domanda di ogni madre, di ogni padre, ogni persona che ama qualcuno e lo vede inghiottito come da un buco nero.
Già, perché è così bella l’innocenza. È luminosa. La droga invece ti storpia, ti divora.
Una storia semplice, quella di Nic, un sereno e dolcissimo ragazzo a cui una prima sbronza apre le porte dell’inferno, facendolo entrare in un vortice di droghe sempre più pesanti, e di David, un padre divorato dal senso di impotenza, mentre cerca con ogni mezzo e invano di riportare indietro il suo “Beautiful boy” e di renderlo di nuovo padrone della propria vita. Una storia di tanti ragazzi e di tanti padri e madri. Una storia vera: la sceneggiatura trae origine proprio dai libri scritti dai due stessi protagonisti e il regista Felix Van Groeningen l’ha sviluppata in un susseguirsi di salti temporali che mettono continuamente a raffronto il prima e il dopo.
La forza del film sono due protagonisti straordinari. Timothée Chamelet, con quell’aria a poeta dall’inferno che non sai se ti ispira più amore o una raffica di schiaffi, già di per se è perfetto per la parte. Consacrato da Luca Guadagnino con Chiamami con il tuo Nome, riesce nell’arduo compito di portare in scena la dipendenza in tutte le sue sfumature più tragiche e brutte. Steve Carrel, dal canto suo, già da un po’ ha deciso di dimostrare a Hollywood che non è solo “quello simpatico” e ora più che mai sfodera un invidiabile talento drammatico. I due attori non sono mai sopra le righe o sopra l’interpretazione dell’altro. Sono due uomini che si cercano senza riuscire a ritrovarsi, ciascuno immerso in un dramma collegato ma parallelo.
Realistico, diretto, Beautiful Boy non si lascia mai andare alla retorica spicciola ma, ogni tanto, nel continuo avanti e indietro nel tempo, si perde. Si perde perché le continue ricadute di Nic sembrano dare inizio ad una specie di loop che si ripete identico all’infinito. Se da una parte questo rende l’idea sulla difficoltà di uscire dal tunnel della dipendenza, da un certo punto in poi l’attenzione verso qualcosa di sempre identico non regge e il conseguente distacco empatico è un peccato, dato il lavoro magistrale dei suoi interpreti.
Voto: 6/7 Di Federica Gaspari ![]() Genere: thriller, commedia Anno: 2019 Regia: Bong Joon-ho Attori: Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Cho Yeo-jeong, Park So-dam Sceneggiatura: Bong Joon-ho Fotografia: Hong Kyung-pyo Montaggio: Yang Jin-mo Produzione: Barunsun E&A Paese: Corea del Sud Durata: 132 min Solamente due anni fa l’atipico Okja veniva presentato in esclusiva nella cornice di Cannes ricevendo un’accoglienza surreale tra fischi nei primi minuti e una standing ovation alla conclusione. Il settimo lungometraggio di Bong Joon-ho era stato travolto dal ciclone delle polemiche in quanto primo film prodotto da Netflix a partecipare al prestigioso Festival di Cannes. La pellicola, distribuita sulla piattaforma streaming dopo pochi giorni, suscitò curiosità senza conquistare, tuttavia, il cuore del grande pubblico. A causa di questo strano precedente, il ritorno del regista coreano a La Croisette era attesissimo. La Palma d’Oro 2019 assegnata al suo Parasite ha rappresentato un momento di svolta. Oltre ad essere una premiazione insolita – si tratta di un thriller con venature di dark comedy -, questo riconoscimento segna il primo ingresso di un film coreano nel prestigioso albo di Cannes. Una famiglia di genitori disoccupati con due figli in età universitaria vive in uno squallido seminterrato cercando di sbarcare il lunario preparando le scatole di cartone per la pizza d’asporto. Le loro giornate vengono solo sporadicamente scosse dall’improvvisa mancanza di segnale wi-fi o dal cambiamento di password di una rete a cui sono collegati di nascosto. L’occasione per cambiare radicalmente il proprio destino arriva grazie ad un amico del figlio che propone al ragazzo di sostituirlo come professore di inglese per la figlia di una ricca famiglia della città. L’ingresso del ragazzo in quella dimora darà inizio ad un lungo piano che segnerà per sempre la sua intera famiglia. La meraviglia del cinema di Bong Joon-ho consiste nella totale incapacità di comprendere quale possa essere l’artificio a cui si andrà ad assistere. Potrebbe sembrare scontato ma l’intera filmografia del cineasta coreano è segnata dalla costante proposta di titoli mai banali, a volte assurdi ma mai votati all’indifferenza. In occasione della presentazione alla 72esima edizione del Festival de Cannes, il regista ha definito il suo ultimo lavoro come una tragicommedia familiare. Questo vestito, tuttavia, è troppo stretto per un film in grado di indossare più abiti, sempre estremamente eleganti, per tutta la sua durata. Avvalendosi di un cast strepitoso estremamente focalizzato sull’obiettivo, questa storia ritrae una società all’apparenza lineare e facile da comprendere. Sembra altrettanto semplice comprendere le dinamiche in modo da poterle piegare con la propria astuzia per raggiungere i propri scopi cambiando il proprio ruolo. La famiglia povera protagonista, tra furbizia e ironia, nella prima parte del film dimostra proprio questo: è possibile cambiare, è possibile giocare le proprie carte. La svolta improvvisa, il dettaglio inaspettato, tuttavia, è dietro l’angolo pronto a svelare l’insormontabile complessità di un sistema granitico. La cinepresa con consapevole maestria si destreggia in un complesso ma irresistibile labirinto di personaggi e spazi curati in ogni loro più semplice dettaglio. La caratteristica ironia delle situazioni e della narrazioni di Bong Joon-ho si insinua tra le pieghe della società e ne svela amaramente le dinamiche conducendo ad un crescendo finale che non lascia scampo. Si sorride, si ride e, all’improvviso, si rimane atterriti davanti all’inevitabile. Non si tratta di un fortuito colpo di scena ma di una svolta attentamente costruita. Il molteplici livelli narrativi si intrecciano e giocano con una riuscita satira degli equilibri sociali. Vincitori e perdenti: è la storia più antica di sempre ma è reale. L’originalità e la voce di chi racconta, tuttavia, sanno fare una grande differenza. Immagini tratte da: www.imdb.com www.parismatch.com www.hollywoodreporter.com www.koreaherald.com
Paese: Stati Uniti d'America
Anno: 2018 – in produzione Genere: commedia drammatica, poliziesco Stagioni: 1 Episodi: 20 Durata: 43 min (episodio) Ideatore: Alexi Hawley Interpreti: Nathan Fillion (John Nolan); Afton Williamson (Talia Bishop); Eric Winter (Tim Bradford); Melissa O'Neil (Lucy Chen); Richard T. Jones (Wade Grey); Titus Makin (Jackson West); Alyssa Diaz (Angela Lopez); Mercedes Mason (Zoe Andersen) John Nolan, un quarantenne divorziato con un figlio al collage, un giorno si ritrova a sventare una rapina in banca. Decide, così, di lasciare la tranquilla cittadina dove abita per volare a Los Angeles e inseguire il suo sogno: diventare agente di polizia. Ma lui è la recluta più anziana del dipartimento di polizia di Los Angeles e non sarà affatto semplice dimostrare di essere all'altezza dei suo colleghi! Sentite la nostalgia di Rick Castle, il celebre scrittore di romanzi gialli in cerca di ispirazione che collaborava con la detective Kate Beckett per aiutare le forze dell'ordine a risolvere casi complessi? Ora l'attore Nathan Fillion è ritornato in Tv con la serie poliziesca a tinte commedy "The Rookie", della rete ABC e creata da Alexi Hawley (già produttore di "Castle", "Body of Proof" e "The Following") e con un ruolo su misura per lui: quello di un quarantenne che decide di dare una svolta alla sua vita per intraprendere la carriera che aveva sempre sognato, quella di poliziotto. Peccato che sia circondato da reclute molto più giovani di lui come Jackson West (Titus Makin Jr) e Lucy Chen (Melissa O’Neil),
mentre quelli della sua età sono poliziotti già esperti, come i tre sergenti istruttori, Tim Bradford (Eric Winter), Alyssa Lopez (Angela Diaz), Talia Bishop (Afton Williams) e il Sergente Grey (Richard T. Jones) non apprezza una recluta dell’età di Nolan. Il compito delle reclute affiancate dai loro istruttori è pattugliare le pericolose e trafficate strade dell'assolata città di Los Angeles, così veniamo a conoscenza che il loro lavoro non è affatto semplice, tra inseguimenti, ferimenti e il rispetto delle regole.
La storia è basata su fatti realmente accaduti, ma i primi episodi possono risultare troppo leggeri e improntati sulle delle situazioni assurde (come una sposina in fuga), poi piano piano vengono anche affrontati casi seri e drammatici (come un attentato terroristico) e soprattutto veniamo a conoscenza delle storie dei protagonisti: Lucy Chen ha una relazione segreta con John Nolan, Jackson West è figlio di un pezzo grosso delle forze dell'ordine ed è in competizione con suo padre e Tim Bradford ha un'ex moglie caduta nel tunnel della droga.
Se amate le serie crime che uniscono casi polizieschi, ironia e azione, non perdete "The Rookie": la prima serie è formata da 20 episodi che si possono recuperare su RaiPlay, mentre in America é già stata rinnovata una seconda stagione.
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FOTO 1 E 2 https://mr.comingsoon.it/ FOTO 3 https://www.ciakgeneration.it/ Di Federica Gaspari Genere: horror, fantasy Anno: 2019 Regia: Robert Eggers Attori: Robert Pattinson, Willem Dafoe Sceneggiatura: Fotografia: Julien Poupard Montaggio: Flora Volpeliere Produzione: SRAB Films, Rectangle Productions, Lyly Films Paese: Francia Durata: 103 min All’alba della kermesse cinematografica di Cannes, alcuni film nutrivano già lo stato di cult o di titolo imperdibile delle prossime stagioni cinematografiche. Registi di grande prestigio, tecniche eleganti oppure storie fuori dal comune: le aspettative per queste privilegiate pellicole erano alle stelle. Il passo da top a flop, tuttavia, è brevissimo e, nel tempo di una semplice proiezione, il destino di un film poteva subire dolorosi cambiamenti sotto il sole de La Croisette. Nella prima settimana del programma, nemmeno la pioggia, tuttavia, ha intimorito critici e cinematografici davanti alla coda di sei ore per uno dei titoli più attesi della manifestazione. Il dark fantasy-horror con nere venature di humour The Lighthouse è stata la creatura più oscura e rara ad aver popolato il lido di Cannes. L’ultima fatica del regista già di culto Robert Eggers prometteva, sin dalle prime immagini di presentazione del trailer, un viaggio allucinante e surreale in un mondo sospeso al fianco di due protagonisti in balia degli eventi. IlTermopolio nei tre giorni a Cannes ha potuto dare uno sguardo in esclusiva a questo sorprendente film vincitore della sezione della Quinzaine des Réalisateurs. Al tramonto del diciannovesimo secolo, un ruvido e anziano custode (William Defoe) istruisce sul suo ruolo un giovane apprendista (Robert Pattinson) che intravede in questo nuovo lavoro un’ottima opportunità di guadagno. La lunga permanenza sull’isola del faro, lontana chilometri da ogni spiraglio di civiltà e lucidità, tuttavia, inizia a creare ad entrambi i protagonisti. Fantasia, leggende e realtà si confonderanno fino a diventare completamente indistinguibili. E’ l’inizio di una folle avventura a cui credere ciecamente. Aspect ratio 1.19:1 e straniante bianco e nero: facile perdersi piacevolmente tra le pieghe dei nitidi contrasti di questa pellicola che sin dalle sue prime sequenze non nasconde di essere un omaggio ad un cinema specifico. I silenzi, i suoni naturali e le lunghe riprese fisse del pionieristico cinema sonoro di fine anni Venti spesso segnato da inquietanti personaggi soprannaturali. Le creature cantate da consumati marinai nelle notti più tenebrose si risvegliano e incontrano i personaggi che popolano le storie di Herman Melville e Robert Louis Stevenson. L’ultimo gioiellino di tensione e dark comedy di Robert Eggers, tuttavia, non si basa su una semplice messa in scena d’effetto che gioca con l’accecante luce del faro e con i contrasti delle silhouette dei due protagonisti. Degli strepitosi Defoe e Pattinson – probabilmente alla migliore interpretazione della sua carriera – si destreggiano splendidamente in affascinanti dialoghi surreali popolati da termini antichi e sofisticati. Grazie alle loro performance fuori dai canonici schemi è possibile vivere in prima persona al loro fianco un’avventura semplicemente folle ma senza dubbio irresistibile nella sua estrema cura che, fortunatamente, non scade in una fredda sostanza, anzi: difficile rimanere impassibili davanti alle ironiche e inquietanti sventure del povero apprendista sempre più sul cupo orlo del baratro… Tra tempeste, agguerriti gabbiani e ammalianti sirene, The Lighthouse rivela essere non solo il migliori titolo tra le proposte della Quinzaine ma uno dei titoli di punta dell’intero Festival de Cannes 72. Immagini tratte da: www.lesinrocks.com www.apnews.com Di Federica Gaspari
Pochi strumenti riescono ad addentrarsi nelle pieghe contraddittorie della società con la stessa maestria del cinema. Incongruenze, contrasti e ipocrisie trovano tutta la loro forza attraverso le immagini e i suoni della settima arte. Non sempre, tuttavia, il risultato riesce ad essere davvero efficace. Film all’apparenza coraggiosi, quindi, bruciano tutto il loro esplosivo potenziale nella loro semplice intenzione acerba. Solo le pellicole in grado di andare a fondo, di dividere facendo discutere e di prendere una posizione con energia e volontà sanno andare in profondità oltre dei semplici graffi in superficie. Les Miserables di Ladj Ly è il perfetto esempio di questo tipo di cinema. E’ il film giusto presentato al momento giusto in Francia e, in particolare, a Cannes, all’apparenza così distante dalla banlieu parigina con il suo glamour elitario. Presentato nella competizione ufficiale dell’ultima edizione del Festival de Cannes, il lungometraggio del francese Ladj Ly è ispirato dall’omonimo corto pluripremiato realizzato dallo stesso autore nel 2016. IlTermopolio, nell’ambito dell’iniziativa 3 Days in Cannes ha potuto assistere in esclusiva alla proiezione di Les Misérables nella cornice dell’iconico cinema Les Arcades. La camera di Ly danza tra svolazzanti bandiere francesi in festa: la nazionale di calcio ha riconquistato dopo quasi tre decenni l’agognato trofeo del campionato mondiale. Tra le strade della capitale Parigi, i cuori di una pulsante folla multiculturale battono all’unisono al ritmo dell’inno francese e dei cori dell’eroe dell’impresa sportiva, Kylian Mbappé. Le sequenze di festeggiamenti interrompono e lo sguardo si sposta sulla periferia, tra i disordinati palazzi popolari abbandonati al loro destino. Sarà questo il terreno di confronto tra un gruppo di poliziotti e dei ragazzi cresciuti in un clima negativo, in costante conflitto. “Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori.” Con questa frase di Victor Hugo si aprono i titoli di coda del film di Ladj Ly. La dura riflessione sui fatti narrati, così terribilmente vicini agli eventi di cronaca degli ultimi anni in Francia e non solo, è inevitabile. In poco meno di due ore, il cineasta francese, premiato giustamente a Cannes con il riconoscimento della giuria, sferra un colpo dritto nella coscienza dello spettatore ritraendo violenze e scontri da molteplici prospettive che, tuttavia, sembrano sempre supportare un’unica tesi. Attraverso un sapiente montaggio di immagini da camera a mano ma anche da droni indiscreti, Les Misérables cattura quelle piccole crepe di monotoni palazzi non più in grado di contenere rabbia e malcontento. Gli ampi sorrisi di festa e giubilo si induriscono in espressioni contrite, maschere di indomabile ira alimentata da politiche sociali e d’ordine dai tempi e modi sbagliati. La trasformazione si concretizza e diventa tagliente grazie alle incalzanti composizioni musicali di Pink Noise. La Francia, senza troppe ipocrisie, viene allora ritratta in tutti i contrasti di una società erroneamente fiera della sue politiche di integrazione iniziate da generazioni i cui figli faticano a riconoscersi in ideali e motivazioni. Enfants de la Patrie, il giorno di gloria non è arrivato. Immagini tratte da: www.allocine.fr www.bullesdeculture.com Foto scattate in occasione della 72esima edizione del Festival di Cannes |
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Marzo 2023
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