di Matilde Giachi
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Genere: Drammatico, Thriller
Anno: 2019 Durata: 92 min Regia: Patrick Vollrath Cast: Joseph Gordon-Levitt, Carlo Kitzlinger, Omid Memar, Aylin Tezel, Murathan Muslu, Denis Schmidt, Max Schimmelpfennig Sceneggiatura: Patrick Vollrath Fotografia: Sebastian Thaler Montaggio: Hansjörg Weissbrich Produzione: Augenschein Filmproduktion, Novotny & Novotny Filmproduktion GmbH, FilmNation Entertainment Distribuzione: Amazon Prime Video Paese: Germania, Australia, USA
7500 è il codice di allarme radio per atti illegali violenti a bordo di un aereo, come un dirottamento o una bomba. 7500 è il titolo della pellicola di esordio del regista tedesco Patrick Vollrath, presentata alla 72^ edizione del Locarno Film festival.
Degli esordi, il film di Vollrath ha pregi e difetti. Sceglie un tema, tra i maggiormente sfruttati e rivisitati di Hollywood, quello dei disastri aerei (o, più genericamente, dei drammi in volo), tra cui ricordiamo i più famosi e recenti Flight, valso una nomination agli Oscar a Denzel Washington, e Sully, di Clint Eastwood, con protagonista Tom Hanks. 7500 mostra coraggio nella messa in scena: l’intera vicenda si svolge nell’unico ambiente ristretto e buio della cabina di pilotaggio, un’impostazione teatrale che ricorda molto quella del bellissimo Locke, che vedeva Tom Hardy affrontare una delle sue interpretazioni più talentuose, da solo alla guida di un’auto e dell’intera pellicola. La scelta dell’ambientazione influenza il tempo di svolgimento, che è quindi quello reale, rendendo il film di una durata a cui quasi non siamo più abituati, soli 90 minuti, e carica di responsabilità gli interpreti.
Ed è sicuramente l’ormai assodata bravura di Joseph Gordon Levitt, la cui carriera è disseminata di scelte attoriali interessanti e che mostrano un amore e una propensione per il cinema d’autore, a salvare una pellicola che, nel dedicare troppa attenzione all’esecuzione di un esercizio di stile, si dimentica, ad un certo punto, della motivazione che muove le azioni umane, in particolar modo quelle dei terroristi. Accade così che, in quello che vorrebbe essere il momento di culmine della tensione, il thriller in realtà non decolli. La scelta comunque più curiosa riguarda la colonna sonora, fondamentalmente assente e sostituita dall’incessante battere di pugni sulla porta da parte dei terroristi che cercano di entrare nella cabina per prendere il comando della rotta.
Guardabile, anche grazie ad una durata che non presuppone di essere in ferie la mattina dopo la visione, ma non indimenticabile. Voto: 6,5
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di Salvatore Amoroso
El Presidente è la prima serie tv cilena targata Amazon. La voce narrante di Julio Grondona ci accompagna in 8 episodi dentro la corruzione nel mondo del calcio. ![]()
Genere: drammatico
Soggetto: Pablo Larrain, FIFA Gate di Armando Bo Registi: Armando Bo, Natalia Beristain, Gabriel Díaz, Javier Juliá Anno: 2020 Produttori esecutivi: Pablo Larrain, Juan de Dios Larrain Lingua: Spagnolo Numero di stagioni: 1 Numero di episodi: 8 Distributore:Amazon Attori: Andrés Parra, Karla Souza, Paulina Gaitán, Alberto Ajaka, Luis Margani, Luis Gnecco.
“Nel calcio la vera partita è quella che si gioca fuori dal campo: questa è la storia di tutti coloro che se ne approfittano per fare in modo che il pallone non smetta mai di girare e fare soldi”. È questo il manifesto di El Presidente, la prima e ambiziosa serie tv cilena targata Amazon, disponibile dal 5 giugno in più di 200 paesi sulla piattaforma Prime Video. È scritta e diretta dal regista premio Oscar Armando Bo (Birdman), anche produttore esecutivo, e racconta con una continua alternanza tra presente e passato gli intrighi del Fifa Gate. Un groviglio di corruzioni milionarie nel sistema calcistico mondiale, culminato il 27 maggio del 2015 con sette arresti eccellenti tra cui quello dell’allora vicepresidente della Fifa Jeffrey Webb. Un complotto da 150 milioni di dollari per manipolare i diritti televisivi e l’assegnazione delle sedi di due Coppe del mondo. Corruzione, frode, riciclaggio e associazione a delinquere: reati che si sono protratti per un ventennio.
“In Sud America presiedere un’associazione calcistica è come essere il presidente della Repubblica. A volte un po’ meglio” afferma dopo pochi minuti Julio Grondona, 35 anni a capo della Federcalcio argentina e 26 come vicepresidente della Fifa. Uno che ha vissuto sia l’era di Maradona che quella di Leo Messi. È lui la voce narrante delle otto puntate da un’ora circa. Il filone narrativo inizia il giorno del suo funerale, nel 2014, e ha come protagonista Sergio Jadue (Andrés Parra), «allievo» di Grondona e figura chiave dello scandalo. La parabola di Jadue è la lente attraverso la quale Armando Bo ci invita a osservare il marcio del football. La trasformazione del personaggio da un umile club di La Calera a signore della Federcalcio cilena e numero due della confederazione sudamericana, “è una parodia di ciò che succede a chi entra a far parte di questo giro d’affari” ha spiegato il regista. L’ascesa di Jadue è rapida quanto la sua caduta. Sempre stretto tra due donne: la moglie (Paulina Gaitán) alimenta la sua sete di potere mentre un’agente sotto copertura (Karla Souza) lo compromette fino a implicarlo come testimone di una rete di corruzione che sappiamo inghiottirà anche il vertice della Fifa Sepp Blatter.
È vero che El Presidente ha tratti in comune con Narcos (il Sud America, i giochi di potere) ma in questo caso c’è un elemento tragicomico che è intrinseco ai fatti e prende il sopravvento. Del resto, uno scandalo di dimensioni mondiali inizia a La Calera, città cilena di 50mila abitanti dove l’Union, la squadra di calcio locale, è appena approdata in Prima Divisione. E il suo presidente, Sergio Jadue, è il più giovane nella storia del massimo campionato e proprio per questo viene nominato a capo della federazione del paese. Un prestanome, un presidente fantasma escluso dai circoli che contano. O almeno così dovrebbe essere nei piani iniziali dei "potenti". "È una di quelle storie in cui i fatti superano la fantasia" ha fatto notare Armando Bo, che per raccontarla ha puntato sull’ironia.
Immagini tratte da:
Locandina: MyMovies Immagine1: Metro Jornal.es Immagine2: Metro Jornal.es Immagine3: MeuGamer.com
di Vanessa Varini
Il 15 giugno hanno aperto i cinema ma non ovunque, comunque non preoccupatevi perchè a luglio arriveranno molti film, di tutti i generi, direttamente in Home Video in versione DVD e COMBO (contenente il doppio formato DVD + Blu-ray) grazie a Eagle Pictures. ![]()
Il 1 luglio per tutti gli appassionati dei film legal thriller uscirà "Cattive acque", film ispirato ad una vicenda realmente accaduta portata alla ribalta internazionale da un articolo del New York Times e diretto da Todd Haynes. Il protagonista è l’attore Mark Ruffalo che, smessi i panni di Bruce Banner/Hulk, entra nei panni di Robert Bilott, avvocato ambientalista che per ben 19 anni, rappresentando 70 mila cittadini dell'Ohio e della Virginia, combatté una battaglia legale contro il colosso chimico DuPont, la cui acqua potabile era stata contaminata dallo sversamento incontrollato di PFOA (acido perfluoroottanoico). Nel cast anche Anne Hathaway.
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Se amate i film italiani l'8 luglio sarà la volta di "Un figlio di nome Erasmus" di Alberto Ferrari, che racconta la vicenda di quattro amici quarantenni che vengono chiamati a Lisbona per il funerale di Amalia, la donna che tutti e quattro hanno amato da ragazzi quando facevano l'Erasmus in Portogallo. Amalia ha lasciato un’inaspettata eredità: un figlio concepito con uno di loro. Ma chi è il padre? Aspettando i risultati del test del DNA, i quattro amici decidono di andare alla ricerca di questo misterioso figlio ventenne e intraprendono un rocambolesco ed emozionante viaggio attraverso il Portogallo insieme ad una ragazza che si offre di aiutarli.
Nel cast Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Daniele Liotti e Ricky Memphis. ![]()
Per i fan del thriller sempre l’8 luglio esce "Memorie di un assassino", ispirato alla storia vera del primo serial killer mai registrato dalle cronache coreane e diretto dal regista sudcoreano Bong Joon-ho, premio Oscar per "Parasite" e dell’acclamato "Snowpiercer".
In un piccolo villaggio viene trovata una giovane donna brutalmente assassinata. Lo spettro di un assassino seriale fa sprofondare l’intera regione nel terrore. Due poliziotti locali, tanto brutali quanto impreparati, e un terzo detective, in arrivo da Seul, pensano di poter risolvere il caso ma, fra errori e false piste, verranno trascinati negli abissi di un’indagine senza apparente risoluzione. Il film è un saggio di bravura registica in cui svetta il talento ruvido e prepotente di Song Kang-ho, l'attore che interpreta il padre della famiglia povera in "Parasite". ![]()
Se cercate, invece, un film basato su fatti realmente accaduti, il 15 luglio sarà disponibile "Bombshell - La voce dello scandalo", che racconta l’incredibile storia delle donne che hanno spodestato l’uomo che ha contribuito a creare il più potente e controverso impero dei media di tutti i tempi, Fox News.
Uno straordinario ritratto delle scelte coraggiose di tre donne (interpretate dalle star Charlize Theron, Nicole Kidman e Margot Robbie), molto differenti tra loro, che decidono di lottare contro un sistema di potere e di abusi, che vigeva indisturbato. Dramma serrato, coraggioso e ironico sul valore della donna nella società americana, "Bombshell" porta in scena le difficoltà che incontrano le donne nel dire di no ad un sistema che le chiama a scegliere tra futuro e decoro, minacciando di annientarle. ![]()
Infine il 22 luglio doppio appuntamento con le commedie grazie ai film "Il principe dimenticato", del premio Oscar Michel Hazanavicius, l'acclamato regista di "The Artist" che dirige il protagonista di "Quasi amici" Omar Sy.
Djibi (Omar Sy), papà single, ogni sera inventa una storia per far addormentare sua figlia di otto anni, Sofia. Una notte, la bimba sogna le storie che le racconta il padre e si vede nei panni di una principessa accompagnata proprio da Djibi, che le appare nelle vesti di un principe. Qualche anno più tardi, Sofia è ormai cresciuta e le fiabe della buona notte non le interessano più, anzi: i rapporti con suo padre si sono raffreddati e i due hanno perso la complicità di un tempo. Come farà Djibi a riuscire a ritagliarsi un ruolo da eroe anche nella "nuova" vita della figlia nonostante lei stia crescendo e stia diventando lei stessa la protagonista assoluta delle loro storie? ![]()
Sempre il 22 luglio arriva "La sfida delle mogli", diretto da Peter Cattaneo ("Full Monty – Squattrinati organizzati") che dirige Kristin Scott Thomas in una divertente commedia al femminile che racconta un’emozionante storia di vita vissuta.
La vita per la moglie di un militare al fronte può essere molto difficile, ma non per Kate (Kristin Scott Thomas), che affronta lo stress e la monotonia della sua condizione con grazia e perseveranza. Kate infatti trova la sua libertà espressiva nel canto, al punto da riuscire a convincere un gruppo di mogli nella sua stessa condizione a formare un coro: il Military Wives Choir che avrà un grande e inaspettato successo.
Articolo tratto dal comunicato dell'ufficio stampa Di Milla Macchiavelli.
Le locandine sono state gentilmente inviate sempre dall'ufficio stampa. Di Federica Gaspari ![]() Genere: commedia, drammatico, guerra Anno: 2020 Regia: Spike Lee Cast: Delroy Lindo, Jonathan Majors, Clarke Peters, Norm Lewis, Isiah Whitlock Jr., Melanie Thierry, Paul Walter Hauser, Jasper Paakkonen Sceneggiatura: Danny Bilson, Paul De Meo, Kevin Willmott, Spike Lee Musiche: Terence Blanchard Produzione: Lloyd Levin/Beatriz Levin Productions, 40 Acres & a Mule Filmworks, Rahway Road Productions Distribuzione: Netflix Paese: Stati Uniti d’America Durata: 154 min A due anni dal successo dirompente di Blackkklansman, Spike Lee torna in scena con una storia animata dalle problematiche e dagli argomenti a lui più cari. Da 5 Bloods – Come fratelli, tuttavia, non è una semplice variazione sul tema bensì una nuova sfumatura della ricca e fervente filmografia di un regista che, più di altri colleghi, ha saputo interpretare le voci di un’intera comunità – quella afroamericana – dandole voce sul grande schermo. La pellicola questa volta, però, si ridimensiona nel formato di Netflix, piattaforma streaming dove lo scorso 12 giugno ha debuttato sull’onda di un grande interesse acceso anche dai recenti avvenimenti che hanno segnato un nuovo importante capitolo del movimento Black Lives Matter. In modo analogo a quanto avvenuto quasi cinque anni fa con il suo Chi-Raq, primo film originale della scuderia Amazon, Da 5 Bloods porta senza dubbio una ventata di aria fresca in un catalogo video assetato di novità ma, soprattutto, riflessioni in grado di andare oltre la superficie. Spike Lee con infuocata determinazione si avventura nell’impervia giungla del Vietnam, popolata da ricordi di tragici conflitti militari ma anche da luoghi comuni e stereotipi di un certo genere di cinema. Lo sguardo dello spettatore si affianca a quello di quattro afroamericani veterani tornati nel sud-est asiatico a più di quattro decenni dalla drammatica guerra durante cui perse la vita il loro commilitone “Stormin Norm” (Chadwick Boseman). Il vero obiettivo del loro viaggio non è il semplice ritrovamento del corpo dell’amico ucciso nel vivo dello scontro con i vietcong bensì il recupero di una cassa piena di lingotti d’oro, un vero tesoro che ai tempi della guerra i cinque compagni d’armi avevano nascosto. Questo bottino, accuratamente sotterrato in un luogo difficilmente raggiungibile, avrebbe rappresentato il riscatto per la scarsa considerazione riservata ai soldati afroamericani dal governo a stelle e strisce. Spike Lee, con grande lucidità e onestà, si avventura nella profondità della giungla come in una moderna e irriverente versione di Cuore di tenebra. Non stupiscono, quindi, i molteplici ma sempre efficaci riferimenti ai titoli cinematografici più rappresentativi della guerra a cui si collega la vicenda di questo film: dall’eco di Apocalypse Now, quasi esclusivo retaggio di cultura bianca profondamente radicato nell’immaginario comune, fino alla glorificazione del conflitto e della figura del veterano operata da saghe come quella di Rambo, silenziosamente citata sempre con grande ironia. Con l’introduzione di discorsi di Muhammad Ali e di Martin Luther King – da sempre capisaldi della filosofia cinematografica del regista di Fa’ la cosa giusta – Lee mantiene fede alle sue promesse, raccontando il ruolo giocato dagli afroamericani nell’esercito statunitense alternando finzione e realtà. Il ritmo serrato di dialoghi e confronti nella prima parte è quindi dettato da flashback e video storici che definiscono i contorni della narrazione raccontando anche il background di ogni personaggio con uno sguardo sempre ben attento all’attualità. Non mancano, infatti, argute e punzecchianti battute rivolte all’attuale presidente statunitense. Una prima parte ben costruita e strutturata, tuttavia, incespica in un radicale cambio di toni e atmosfere nel secondo atto. I contorni storici quasi dramedy, infatti, svaniscono lasciando spazio a un’esplosione di rappresentazioni fin troppo sotto alle righe che accompagnano una svolta decisa verso i territori decisamente pericolosi del survival movie. La sceneggiatura a più mani inizia quindi a scricchiolare cadendo non raramente in banalità e in scelte tipiche della commedia demenziale. Questo cambio di registro, intenzionale o non, affatica la narrazione caricandola di inutili vezzi che potrebbero allontanare lo spettatore meno fedele al cinema e alle intenzioni del cineasta.
Nonostante una scrittura troppo audace nella seconda parte, Da 5 Bloods si dimostra comunque un ottimo prodotto di intrattenimento oltre che una valida occasione per riflettere, con l’aiuto del piglio eccentrico di Spike Lee, sulla storia recente ma soprattutto sull’attualità. Immagini tratte da: www.netflix.com
di Salvatore Amoroso
Pablo Larraín torna in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con Ema, racconto di una ragazza ai limiti della psicosi e del suo tentativo di costruire una famiglia, anche al di là non solo della società ma del pensiero comune. Frammentato e spezzettato ne viene fuori un racconto più programmatico che sincero, e meno in grado di scavare in profondità nell’umano. ![]()
Genere: drammatico
Anno: 2019 Regia: Pablo Larrain Attori: Mariana di Girolamo (Ema), Gael García Bernal (Gastón), Paola Giannini (Raquel) Santiago Cabrera (Aníbal), Cristián Suárez (Polo). Sceneggiatura: Guillermo Calderon, Pablo Larrain, Alejandro Moreno Fotografia: Sergio Armstrong Musiche: Nicolas Jaar Montaggio: Sebastian Sepulveda Distribuzione: Movies Inspired
Dopo Jackie l’ottimo Pablo Larraín torna in Cile, a Valparaiso, dove si svolgono le peripezie di Ema, presentato in Concorso alla Mostra di Venezia. Soprattutto, però, Larraín torna a raccontare un club di psicotici in una commedia stordente e frastornante. Le psicopatologie interessano da sempre il regista cileno, che le ha messe in scena per parlare della dittatura (Tony Manero, Post Mortem) e per raccontare le deformazioni psichiche implicate nel potere o negli effetti della sua violenza dogmatica (Il Club). Larraín ambienta invece il suo ultimo film nel Cile contemporaneo e in un contesto underground, un po’ punk e sfacciato, ma tutto sommato in una società libera e non più schiacciata dal terrore degli anni bui. È proprio in questa società, finalmente schizoide alla stregua di ogni altra democrazia, che il regista riesce a raccontare per la prima volta le dinamiche di potere nelle relazioni affettive e forse a prefigurare, ma sarà lo spettatore a decidere, la possibilità di nuovi legami, famiglie, connessioni amorose.
In Ema tutti i personaggi sono, infatti, più o meno consapevolmente bipolari dunque responsabili di dover trovare un equilibrio tra il desiderio e il dovere, tra la pulsione e la conservazione. Tutti tranne Ema, almeno così parrebbe. Ema (Mariana Di Girolamo) è, in ogni caso, una giovane donna che si affida poco al raziocinio preferendogli pulsioni e istinti. Fin troppo didascalico, ma furbescamente efficace per dare alle scene una certa “spettacolarità”, è il fatto che Ema sia una ballerina e la danza, come il sesso, sia espressione erotica di questa ragazza continuamente eccitata e soprattutto eccitante. Il film si apre però con i toni del dramma domestico: la fanciulla ha infatti restituito ai servizi sociali il bambino di 6 anni che aveva adottato assieme al marito, il coreografo sterile Gastòn (Gael García Bernal) che infatti non è un danzatore ma un “regista” di danzatori. Il piccolo aveva combinato un bel casino e, tra le altre cose, aveva dato fuoco ai capelli della sorella di Ema ustionandole la faccia. Senza porsi troppe domande, i due non se la sono sentita di proseguire nell’educazione del pargolo ma allo stesso tempo nei primi minuti del film non smettono di rinfacciarsi pesantemente colpe. E di dolersi per il fatto di non avere più un figlio, in dialoghi spezzettati, tutti in primi piani frontali e senza raccordi che fotografino uno spazio comune.
I due componenti, un marito e una moglie che Ema avvicinerà separatamente per realizzare il proprio disegno, sono i nuovi genitori adottivi del suo ex figlio. E sono incompiuti nel matrimonio, che ha significato conforto regolato ma pure sacrificio di parti significative di sé: anche loro sono bipolari e schizoidi, giunti a compromessi con le loro nature sessuali e desideranti. È su questo che farà leva Ema per gettare l’edificio famigliare nel caos. Ema è la visceralità sincera, autentica senza mediazioni che nessun altro ha il coraggio di vivere. Ma siamo sicuri che sia così? Chi è, infatti, questa donna? Nelle risposte a queste domande, che Larraín lascia parzialmente aperte, sta la scelta dello spettatore rispetto a come porsi nei confronti del personaggio, della “morale” del film e anche, perché no, della propria soglia di compromesso tra pulsione animale e regola sociale. Il dialogo centrale di Ema è quello tra Gastòn ed Ema: Bernal/Gastòn dice alle donne che è un ballo che le umilia (riferendosi al raggaeton), facendole dimenare per eccitare gli uomini, e le riporta indietro di decenni rispetto alla dignità femminile. Le donne ribattono che quella danza è sessuale, è orgasmo, e che l’orgasmo è vita. Che lui stesso è nato da un orgasmo: senza il godimento non c’è nulla e loro sono portatrici di godimento. Larraín ci sbatte in faccia questa contrapposizione senza dirimere la questione ma ponendo una serie di domande certamente non banali. Tra cui, per esempio, quella dello sfruttamento consapevole del corpo femminile per acquisire potere e “fottere” il maschile.
Ema è, senza alcun dubbio, un film che obbliga a prendere posizione laddove fornisce più di una lettura possibile. I problemi però ci sono e di vario ordine: contenutistici e formali. Larraín non ci fa mai conoscere intimamente la sua protagonista, un personaggio puramente reattivo o meramente attivatore di azioni altrui. Non potendo empatizzare con un essere che è solamente una pila erogena si può valutare Ema o come una povera idiota oppure come una manipolatrice psicopatica che usa il sesso per dominare tutti e far andare le cose come vuole. Essendo arrivata a un punto morto della propria vita, e con ciò non avendo niente da perdere, è poi la sola ad avere il coraggio di bruciare tutto per seminare da capo alla propria maniera. Il fuoco è infatti l’elemento con cui si apre un film in cui gli incendi diventeranno ricorrenti e forse inarrestabili, perché è attraverso il fuoco (altro simbolo ricorrente) che Ema devasta l’esistente e costruisce l’avvenire. Benché Larraín non fornisca risposte univoche e definitive, è evidente che Ema, anche solo per istinto animale e scarso calcolo, usi i desideri inappagati di chi la circonda per raggiungere i propri scopi. Ovvero replichi le dinamiche di potere, semplicemente, per il proprio soddisfacimento e per vedere riconosciuta la propria personale visione delle cose. Non si sfugge dal potere, va bene, ma non c’è niente di straordinario in questa Ema, come invece talvolta una certa aura epica potrebbe far intendere. Ema è inoltre una persona cui non abbiamo accesso perché il film non ci concede un filo di introspezione, di empatia, di umanità: se Larraín era riuscito a farci sentire il dolore e l’umanità addirittura di un prete pedofilo, non riesce questa volta a farci sentire alcuna motivazione interiore, emotiva, in questa donna che fa gola a tutti.
Dal punto di vista formale il film acquisisce un’ulteriore serie di punti deboli che vanno da una scrittura farraginosa, con dialoghi eccessivamente sbandierati nel dover significare tanto, troppo e in continuazione, fino a un virtuosismo registico che, in un film già tanto debordante, fa da inutile o addirittura dannoso raddoppio di senso. Ema vuole con tutte le proprie forze essere sorprendente e vitale, con un inizio su di un semaforo che brucia e le prime scene drammatiche che sfociano in un montaggio alternato con momenti di danza selvaggia. Che proseguono sempre più, col reggaeton in luoghi fatiscenti, incendi appiccati, tute fluorescenti in bar squallidi, inquadrature di specchietti retrovisori da cui si vedono accoppiamenti, fino al montaggione dei coiti e a un vago senso di esagerazione architettata. Ema vuole essere frammentato, spezzettato, rapido, cool, insomma rifugge alla linearità e sceglie la via del cool per sorprenderci e soggiogarci.
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Locandina: MioCinema Immagine1: wikipedia Immagine2: cinefilos.it Immagine3: RepubblicaTv di Vanessa Varini Titolo: "New Amsterdam 2" Paese: Stati Uniti d'America Anno: 2019 Genere: drammatico, medico Stagione: 2 Episodi: 18 Durata: 43 min (episodio) Ideatore: David Schulner Fotografia: Stuart Dryburgh, Andrew Voegeli Musiche: Craig Wedren Interpreti e personaggi: Ryan Eggold (Dr. Max Goodwin); Janet Montgomery (Dr. Laura Bloom); Freema Agyeman (Dr. Helen Sharpe); Jocko Sims (Dr. Floyd Reynolds); Tyler Labine (Dr. Iggy Frome); Anupam Kher (Dr. Vijay Kapoor) Giovedì 4 giugno su Canale 5 alle 21:40 sono iniziate le nuove puntate della seconda parte della 2 stagione del medical drama "New Amsterdam" che si era interrotto a fine gennaio con il nono episodio (in totale sono diciotto episodi, con l'ultimo che doveva essere interamente incentrato su una pandemia, ma dopo "l'esplosione" del Coronavirus, l'episodio è stato giustamente sostituito). Vi ricordate dove eravamo rimasti? Il dottore Max Goodwin deve fare degli esami sulle detenute del carcere di Rikers Island e durante una rissa vengono ferite quattro carcerate. Le donne vengono trasportate al pronto soccorso ma nel nuovo episodio, il numero dieci intitolato "Codice Argento", riescono a fuggire. Una di loro raggiunge addirittura la sala operatoria dove il chirurgo Reynolds sta svolgendo un intervento sulla carcerata Fran e tenta di uccidere la detenuta perché ha deciso di collaborare con la giustizia. Prontamente Reynolds interviene ma purtroppo viene ferito, mentre Max e Sharpe vengono presi in ostaggio da Jackie, un'altra carcerata che vuole uccidere sempre la povera Fran. Un inizio con il botto e con la tensione alle stelle e anche gli altri medici del Bellevue Hospital, reclusi per l'emergenza, non se la passano meglio: lo psicologo Iggy si ritrova chiuso nel suo ufficio con il marito Martin con cui è in crisi (Iggy continua ad adottare bambini all'insaputa di Martin, come se un figlio in più non facesse la differenza) e sarà psicanalizzato da una giovane dottoressa. Il medico Kapoor si ritrova, invece, in uno stanzino delle medicazioni con Ella, che aspetta un bambino proprio dal figlio di Kapoor di cui si sono perse le tracce, mentre la dottoressa Bloom deve sopportare il suo dolore alla gamba per operare una paziente affetta da appendicite. Non vi anticipo nulla sul finale dell'episodio a parte che in questa serie i personaggi fortunatamente non muoiono come mosche come in "Grey's Anatomy"! Nell'undicesimo episodio, che s'intitola "Nascosto dietro il mio sorriso", Max impedisce l'uso dei cellulari, dei computer e dei tablet ai medici durante le visite, in modo da creare un rapporto più empatico con i pazienti ma questa novità non verrà apprezzata. Inoltre Max incontrerà una giovane donna di nome Alice, anche lei vedova e con una figlia di pochi mesi, con cui inizierà una frequentazione. Praticamente questo nuovo personaggio farà "sfumare" la ship tra Max e la dottoressa Sharpe che tutti i telespettatori si erano immaginati, comunque mai perdere la speranza, infatti mancano ancora sette episodi! Se non avete ancora visto questa puntata della seconda stagione di "New Amsterdam" la potete recuperare gratuitamente su Mediaset Play. IL DECIMO EPISODIO SI PUÒ RECUPERARE QUI ⬇ https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/newamsterdam2/episodio-10-codice-argento_F310092401001004 E L'UNDICESIMO QUI ⬇ https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/newamsterdam2/episodio-11-nascosto-dietro-il-mio-sorriso_F310092401001104 Immagini tratte da: https://www.movietele.it/ https://mr.comingsoon.it/ https://www.iodonna.it/
di Salvatore Amoroso
La recensione di In viaggio verso un sogno, con Shia LaBeouf e Dakota Johnson: un racconto di formazione on the road attraverso l'America rurale della East Coast. ![]()
Genere: avventura, dramma
Anno: 2019 Regia: Tyler Nilson, Michael Schwartz Attori: Shia LaBeouf (Tyler), Dakota Johnson (Eleanor), John Hawkes (Duncan), Zack Gottsagen (Zak), Thomas Haden Church (Clint), Bruce Dern (Carl), Jon Bernthal (Mark). Sceneggiatura: Tyler Nilson, Michael Schwartz Fotografia: Nigel Bluck Musiche: Zachary Dawes, Noam Pikelny, Jonathan Sadoff, Gabe Witcher Montaggio: Nat Fuller, Kevin Tent Distribuzione: Officine UBU
Dietro la macchina da presa una coppia di registi con una limitata esperienza nell’ambito dei cortometraggi, a far la differenza è un cast di tutto livello. Il cammino di Zak e Tyler, iniziato un po’ per caso un po’ per destino, ricorda, con semplicità e candore, che non è tutto qui. Che oltre il fiume c’è davvero quella terra promessa. Bramata notte dopo notte, in un letto trasformato in un ring, dove si è fatto a pugni con l’illusione, aspettando l’attimo giusto per fuggire lontano senza mai voltarsi. Perché, più dell’apparente diversità, i registi e sceneggiatori Tyler Nilson e Michael Schwartz, nel loro The Peanut Butter Falcon, finalmente in Italia con il titolo In Viaggio Verso un Sogno (lo trovate in digital su CHILI), hanno voluto raccontare quanto sia importante l’amore spassionato per muovere le cose: sogni, amicizia, speranza.
E il film di Nilson & Schwartz aveva cominciato a far parlare di sé già dalla presentazione al South by Southwest di Austin: budget limitato, un grande cast e un esordio alla regia davvero niente male. Poi, certo, c’è la storia: quella di Zak (Zack Gottsagen), ragazzo con la sindrome down che scappa dall’istituto che lo ospita per inseguire il sogno di diventare un wrestler professionista. E c’è la storia di Tyler (Shia LaBeouf), anch’esso in fuga dopo aver involontariamente dato alle fiamme il molo da pesca dove lavora. Il loro incontro, rocambolesco e inaspettato, da una svolta al loro percorso. Si uniranno, sotto il sole tiepido della North Carolina, aiutandosi a vicenda.
Il film segue la formula dei più classici road movie, anche se questa volta non c’è una strada ma campi coltivati e corsi d’acqua da navigare. Non è un viaggio casuale e come avviene in molti altri film similari a questo c’è una meta ben definita da raggiungere. Si riproduce un binomio cinematografico di successo ma sicuramente non originale: una coppia di amici formata da un “forte” ed un “debole”. Un film che risulta essere scorrevole e leggero per lo spettatore seppur non presentando nessun elemento originale che spicchi nel corso della visione. Il duo di registi ci spiega in poche battute proprio il significato dietro due parole fin troppo abusate: casa e famiglia. Infatti, Zak e Tyler, ci mostrano come le prospettive possono cambiare, come la famiglia sia un concetto soggettivo e quanto il significato di casa si presti a metafore infinite, molto spesso fuori dall’ordinario.
Da tenere d’occhio il talento del giovane attore Zack Gottsagen, sa farci ridere e piangere e i suoi sguardi in alcuni tratti della pellicola dicono più di mille parole. “Non posso essere eroe: ho la sindrome di Down”, il sogno di andare oltre ciò che gli è concesso è più forte. Alle soglie dell'autofiction, Gottsagen è toccante nel veicolare il proprio desiderio di diventare attore nel personaggio aspirante wrestler, battezzato con un nome simile, interpretando così una variante di sé. Siamo completamente dentro l’orizzonte del più consolidato immaginario americano, sulle spalle della coppia formata da Gottsagen e LaBeouf (commovente l’abbraccio sulla zattera), In viaggio verso un sogno promette ciò che mantiene. Un caloroso e sincero racconto di formazione che unisce la tradizione del grande romanzo americano, la scaltrezza del feel good movie, le marche tipiche del cinema indie. In fondo siamo sempre lì: oltre l’emancipazione c’è il desiderio di riconoscersi in un gruppo, che accidentalmente chiamiamo famiglia. Ottimo successo negli States: miglior incasso indie del 2019.
Immagini tratte da:
Locandina: NerdFace.it Immagine1: EcodelCinema Immagine2: LaRepubblica.it Immagine3: SkyTg24 |
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Giugno 2023
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