di Federica Gaspari
I film di Danny Ocean sono fortunate commedie brillanti e intriganti con un pizzico di thriller ma senza donne completamente al centro della scena. Le star Julia Roberts e Catherine Zeta Jones hanno illuminato a tratti questo franchise ma l’azione principale è sempre stata affidata al gigioneggiante Clooney o all’ammaliante Pitt. A 60 anni dall’inizio dei giochi, però, la strategia è cambiata. Ocean’s 8 stravolge ogni regola e cambia le carte in tavola rivoluzionando con entusiasmo e divertimento allo stato puro un intero genere: un compito da non affrontare con troppa leggerezza ma da preparare e curare in ogni suo più piccolo dettaglio come una rapina perfetta. Nell’era del Time’s Up e del fenomeno cinematografico del gender-swap, l’ultima fatica del regista Gary Ross riunisce otto delle più apprezzate e promettenti interpreti del panorama internazionale per rielaborare con uno sguardo al femminile il genere dell’heist movie, spesso considerato terreno di trionfi al box-office a base di testosterone. Con un trailer incoraggiante e un cast di altissima qualità, la pellicola, in un limbo tra azzardo e formula collaudata, è approdata nei cinema di tutto il mondo pronta a dare un po’ di ritmo a questa oziosa estate. Dalla luminosa Las Vegas si vola all’incalzante ritmo dei brani di Daniel Pemberton nella grande Mela, nella città che non dorme mai e in cui i sogni, soprattutto quelli di spiazzanti rapine, possono realizzarsi. Si sono resi necessari 5 anni, 8 mesi e 12 giorni per architettare alla perfezione il furto del più prestigioso collier di Cartier, tanto tempo quanto quello trascorso in prigione per truffa da Debbie Ocean (Sandra Bullock), sorella del protagonista della trilogia del 2000. Al termine della sua condanna, l’ex(?)-truffatrice ingaggerà la squadra giusta per raggiungere il suo obiettivo in occasione dell’elegante evento annuale del Met Gala. Tutto sembra calcolato alla perfezione ma attenzione: non è sempre oro tutto ciò che luccica! Nella stagione meno propensa al trionfo di pubblico e botteghino, questa commedia-thriller corale è una ventata di leggerezza e brio. In un ambiente popolato da lussuose griffe e volontà di riscatto, interpreti come Sandra Bullock e un’irresistibile Anne Hathaway irraggiano carisma e talento in ogni sequenza che le vede in azione. L’alto tasso di attrici di grande livello avrebbe potuto creare non pochi problemi ma Ross, alla regia e alla sceneggiatura come il suo predecessore Soderbergh, orchestra alla perfezione ogni mossa, supportando la narrazione con un’appassionante montaggio veloce. La banda capitanata da Debbie può contare su location eleganti e sofisticate nonché su abiti haute couture ma non sarebbe stata la stessa senza la grande abilità nel creare l’alchimia giusta tra tutte le sue componenti, ognuna misurata e studiata accuratamente. La buona riuscita del film non solo può essere attribuita alla vastità del materiale di partenza da elaborare ma anche alla volontà di dimostrare come ogni donna possa dare vita ai propri sogni con un pizzico di sana follia e determinazione. Eh sì, è proprio il momento di cambiare motto: ragazze, siete voi che ora dovete fare il vostro gioco! Immagini tratte da: www.collider.com www.cinema.everyeye.it www.digitalspy.com www.vo-plus.com
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Toni Collette regala una performance terrificante e ipnotica nei panni di una madre tormentata che affronta il male della famiglia nel debutto horror di Ari Aster presentato al Sundance Film Festival.
di Salvatore Amoroso
Hereditary ha la capacità di triplicare il battito cardiaco, ha il potere di paralizzarti, tenerti con il fiato sospeso e praticamente terrorizzarti. Era la prima volta che sentivo qualcuno in sala gridare o balzare in piedi dalla poltrona imprecando. Il debutto horror dello statunitense Ari Aster è stato descritto come Un Esorcista che punta alla nuova generazione, il che non è affatto giusto. Ari Aster, regista e sceneggiatore per la prima volta, ha attinto da altre ispirazioni: Do not Look Now e Rosemary's Baby, nei loro presentimenti e cospirazioni di orrore e di terrore. La regia, le riprese e la colonna sonora sono tutte brillanti, ma sarebbe stato tutto vano senza la straordinaria performance di Toni Collette, il suo volto è una maschera di paura e rabbia, una spaventosa Medea moderna che vive una situazione estrema. Sicuramente questa magnifica attrice otterrà la nomination in vista di febbraio.
Toni Collette interpreta Annie Graham, una donna profondamente turbata che ha una certa fama come artista contemporanea. Durante la preparazione del suo nuovo spettacolo, ovvero la creazione di una casa delle bambole in miniatura, all’artista sembra accadere qualcosa di strano. Quelle stanze minuscole illuminate con figure umane lillipuziane, gli infissi e gli arredi realizzati con dettagli e cura fanatici, provocano in Annie un forte disturbo emotivo. La brama di controllo di Annie libera la sua vena artistica frenetica, scatenando una serie di eventi violenti. Forse la sua grande disfunzione è stata ereditata dall’anziana madre, una donna violenta la cui influenza maligna ha avvelenato le vite della protagonista, del suo tranquillo marito Steve (Gabriel Byrne) e i loro figli adolescenti Peter (Alex Wolff) e Charlie (Milly Shapiro). La nonna ha insistito per prendere Charlie sotto la sua ala e ora che è morta, il suo fantasma sta perseguitando la piccola per cercare di farle rilasciare il male che è codificato nel DNA della famiglia.
La colonna sonora di Colin Stetson crea un impeto di paura, accentuando il fastidioso ma innovativo stratagemma del film che consiste nel passare dal giorno alla notte in esterni con un singolo battito percussivo, come accendere o spegnere la luce del giorno con un interruttore. Il design delle scenografie di Grace Yun e la fotografia di Pawel Pogorzelski creano una luce solare da sogno per le scene all'aperto, e al chiuso, le inquadrature serrate ma minuziose rendono le stanze incredibilmente simili alle repliche della casa delle bambole e per tutta la durata del film lo spettatore ha la sgradevole sensazione che gli esseri umani che stiamo guardando siano in realtà dei piccoli manichini animati in un'installazione satanica.
Come ogni film horror anche in questo caso riusciamo a cogliere una spiccata vena satirica. In Hereditary riguarda in parte una paura segreta e il disprezzo per gli anziani che fioriscono nella mezza età: la paura di diventare vecchi, la paura del messaggio genetico di debolezza che ci hanno lasciato, su cui non possiamo fare nulla, il successo sembra l’unica via per fuggire dai fantasmi del passato. Ma Hereditary è fondamentalmente una macchina geniale creata sapientemente per spaventarci e la performance operistica e ipnotica di Toni Collette è senza dubbio l’elemento centrale che porta la pellicola ad alti livelli. Da segnalare anche l’ottima performance di Alex Wolff, molto bravo come adolescente cool che regredisce in un ragazzino spaventato. Se state cercando un horror non convenzionale Hereditary fa decisamente al caso vostro.
Immagini tratte da: Cineblog.it Rogerebert.com SlashFilm.com ComingSoon
Due ragazzi investono e uccidono per sbaglio un boss della mala. Entreranno in un vortice che li risucchierà in qualcosa molto più grande di loro. Il film ha ottenuto 3 candidature e vinto un premio ai Nastri d'Argento. In Italia al Box Office La terra dell'abbastanza ha incassato 107 mila euro.
di Salvatore Amoroso
L’educazione criminale di due coatti, ovvero Mirko e Manolo, due studenti all’ultimo anno dell’istituto alberghiero, con tanta vitalità e sogni abbastanza umili nel cassetto. Una notte, casualmente, con la macchina investono e uccidono un passante. Che fare? Intanto scappare e poi chiedere aiuto al padre di Manolo, un personaggio alla deriva che vive in un garage. Questi li tranquillizza invitandoli a starsene zitti e quieti; poi, quando scopre che l’investito è un “infame”, cioé un malavitoso cui il clan dei Pantano sta dando da tempo la caccia: “amo svortato!” dice e spinge il figlio ad andare dal clan e autodenunciarsi come killer volontario e unico.
Dopo incomprensioni e litigi che potrebbero incrinare il loro rapporto, entrambi con incoscienza e arroganza si trasformano in “apprendisti criminali” per il clan. Gestiscono prostitute, coprono pedofili, al bisogno uccidono. E mentre si esaltano negli agi che la vita criminale gli concede, per la preoccupazione, che si trasforma in seguito in ostilità, della mamma di Mirko, scivolano progressivamente in situazioni sempre più trucide e pericolose. A cui reagiranno in maniera imprevedibilmente diversa. Significativa la frase: “Ci pensi mai a quella sera?” “A volte. Strano eh…da zero a mille così…buh”.
Un debutto folgorante. Non ancora trentenni, gli esordienti Fabio e Damiano D’Innocenzo trovano modi narrativi ed espressivi assai efficaci per una storia semplice e diretta, magari già affrontata da altri, la periferia romana è ormai un sottogenere a parte del cinedramma criminale nostrano. Stupisce ad esempio la maturità con cui scelgono di non fare della violenza un elemento spettacolare e per questo anche ambiguo. A volte la mostrano nella sua crudezza e velocità, a volte si distanziano grazie all’uso di una ripresa fotografica molto consapevole, a volte la tengono fuori campo, senza compiacimenti ma sottolineando piuttosto gli effetti che questa produce nelle menti dei due ragazzi, una immoralità che pare indifferente e che genera conseguenze irrimediabili.
E lo confermano gli autori: “Volevamo raccontare come è maledettamente facile assuefarsi al male! Vedere fin dove si può fingere di non sentire nulla”. Inoltre, questo uso sobrio di cosa e come raccontare sposta il peso della tensione tutto sugli attori che rispondono ammirevolmente, sia i protagonisti inesperti ma non acerbi, anzi tutt’altro. Immaginate che Andrea Carpenzano vanta solo due film e un po’ di tv con Immaturi la serie e Matteo Olivetti è praticamente un esordiente. I volti noti di contorno sono semplicemente sorprendenti, come Max Tortora padre rovinato che rovina, Milena Mancini, madre ringhiosa, anima di periferia che non ha perso dignità e umanità e Luca Zingaretti, lucido boss di borgata dalla cattiveria luciferina. Presentato con lusinghieri consensi a Berlino, ha faticato a trovare una distribuzione. Fortunatamente ora arriva sugli schermi. Prodotto dalla Pepito e grazie alla Adler Entertainment. Fortunatamente, perché è uno dei più bei film italiani della stagione, di certo il più inatteso.
Immagini tratte da: coming soon sentieri selvaggi.it repubblica.it radiocolonna.it Io Donna
di Vanessa Varini
Scordatevi il diavolo dalle sembianze minacciose, tutto rosso e con le corna. Ora Lucifero ha sembianze umane, tranne quando si arrabbia, sia chiaro! Lucifer ha deciso di prendersi una vacanza sulla terra e aprire un nightclub, il Lux, nella città della perdizione, Los Angeles, assieme alla sua custode, Maze. Sulla Terra si diverte un mondo e il suo unico problema è suo fratello, l’angelo Amenadiel che vuole riportarlo all'inferno, ma Lucifer rifiuta, ormai é stanco di quella vita.
Amanadiel comunque cerca di portare a termine la propria missione per non fare infuriare il Padre mentre la vita di Lucifer cambierà per sempre quando incontrerà Chloe, poliziotta divorziata e con una figlia piccola che indaga sull’omicidio di un’amica di Lucifer. Così il Diavolo inizierà a collaborare con lei, appassionandosi alla vita degli umani.
Basata sul fumetto Lucifer della Vertigo, scritto da Mike Carey, "Lucifer" è una serie unica nel suo genere perché non è un horror come il titolo può far presagire, ma una serie poliziesca dalle tinte soprannaturali, caratterizzata da un linguaggio esplicito e senza peli sulla lingua e con accenni alla storia biblica, che ci propone la figura del diavolo in maniera inedita. Infatti Lucifer, ha dei poteri, è in grado di costringere chiunque a rivelargli i suoi più oscuri desideri; punisce i malvagi ma non è responsabile per gli atti da essi compiuti, è narcisista (in fondo in origine, prima di precipitare negli inferi, era l’angelo più bello del paradiso), seduttore nato ma c'è una donna che resiste al suo fascino ed è proprio la poliziotta Chloe (l'unica persona a cui non riesce rivelare i desideri), presuntuoso, ribelle (ha rifiutato il ruolo del diavolo punitore che Dio, cioè suo padre, ha scelto per lui) e ha sempre la battuta pronta.
Tra indagini, problemi familiari e rapporti turbolenti tra padre e figlio, i tredici episodi della prima stagione scorrono tutti d'un fiato grazie al mix di umorismo, romanticismo e scene d'azione. Una nota di menzione anche al cast, composto da attori di serie televisive molto famose: Chloe Decker ha recitato in “Chicago Fire”; Kevin Alejandro è comparso in “True Blood” e B.D. Wood era in “24” e in “Buffy”. Da non dimenticare l'adorabile e simpatica Trixie (Scarlett Estevez) la figlia di Chloe che nutre un certo affetto per il Diavolo. “Lucifer” è attualmente disponibile su Netflix e se amate le serie non convenzionali, Lucifer Morningstar vi conquisterà!
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di Fabrizio Matarese
La serie di film La notte del giudizio (dal titolo originale The Purge) è una delle avventure cinematografiche più interessanti degli ultimi anni. Il tutto parte da un’idea molto semplice: nel 2022 gli Stati uniti d’America sono una nazione “risorta”. I Nuovi padri fondatori, che governano il paese, hanno istituito lo sfogo, un periodo annuale di dodici ore in cui ogni crimine, compreso l’omicidio, diventa legale. Questo provvedimento ha rilanciato l’economia, diminuito i tassi di criminalità e la disoccupazione. Questo lasso di tempo fuori dalla civiltà, una sorta di carnevale notturno sanguinario con tanto di maschere e armi di ogni tipo, è stato promosso dal governo come rito catartico di purificazione per tutti i cittadini americani.
Questo terzo capitolo della saga è incentrato sulla lotta alle elezioni presidenziali. In varie città d’America si stanno creando frange di oppositori allo sfogo, fomentate dalle notizie che confermano l’utilizzo di quest’ultimo da parte dei Nuovi pardi fondatori per far fuori le classi sociali più deboli e discriminate e favorire i propri interessi economici e politici. Una senatrice, Charlie Roan, sta raccogliendo consensi e il clima politico impaurisce il suo avversario, il ministro Edwidge Owens, proposto dai Nuovi padri fondatori. Così, questi ultimi, decidono di utilizzare la notte dello sfogo per far fuori la senatrice Roan che rappresenta una minaccia all'ordine da loro costituito.
Da questo scenario prende il via il film, snodandosi come un’ansiogena fuga da un posto all’altro della città in fiamme da parte della senatrice e della sua guardia del corpo, Leo Barnes, braccati dalle milizie assoldate dai suoi avversari politici. Sono molte le scene di azione con un utilizzo scenografico degli atti di violenza veramente efficaci: James DeMonaco, regista e creatore della serie, mette in scena un “teatro della crudeltà” all’aperto che sciocca lo spettatore. La città scossa dall’ondata di violenza e perversione (con tanto di “turisti dell’omicidio” pervenuti da altre nazioni per l’occasione) si trasforma per una notte in un Grand Guignol dove tutto è ammesso, ogni nefandezza possibile e ogni abbietta pulsione incentivata: assistiamo a una serie di omicidi, ferimenti, esecuzioni, torture e violenze eseguite tramite le modalità più disparate. Questo è uno degli elementi di maggior incisività del film che alza ancor di più l’asticella della spettacolarizzazione della violenza.
La storia, sebbene non manchino tradimenti e alleanze impreviste, non regala in realtà nulla di nuovo e il contesto socio-politico pone dei problemi che affliggono la società ultra competitiva occidentale, ma la dinamica di scontro fra “buoni” e “cattivi” è un po' troppo schematica per risultare veramente critica.
La fotografia oscura illuminata soltanto dalle insegne al neon, dai fari delle macchine e dal fuoco degli spari è essenziale ed efficace per costruire l’atmosfera di paura e paranoia che domina sullo schermo; il ritmo è elevato e tiene alta la tensione per tutta la durata del film. Ma il successo della saga (proprio pochi giorni fa, il 4 luglio 2018 in concomitanza con l'Independence Day americano, è uscito il quarto capitolo, un prequel: La prima notte del giudizio) dimostra che la visione distopica di DeMonaco ha colto nel segno e ha catalizzato pulsioni e paure che si annidano nell’anima buia dell’America, una grande nazione che ha sempre avuto un conto in sospeso con la violenza, la libertà e l’accettazione del diverso. di Federica Gaspari
Tra gli appuntamenti più importanti della stagione 2018 delle serie tv figura la seconda stagione di uno show ispirato a un romanzo distopico degli anni ’80. Sono passati più di trent’anni dalla pubblicazione originale ma le inquietudini e le paure più radicate sembrano essere le stesse immaginate da Margaret Atwood nel suo libro Il racconto dell’ancella. La prima stagione di The Handmaid’s Tale poteva contare su un importante materiale di partenza e su significative riflessioni sulla realtà. I 13 nuovi episodi, distribuiti da Hulu negli Stati Uniti e da TimVision in Italia, avevano il compito di esplorare l’universo di Gilead, superando le affidabili parole dell’autrice e tracciando un percorso interamente nuovo, sempre capace di intrecciare distopia con la più assurda e paradossalmente concreta realtà. Il finale della prima stagione preannunciava l’inizio di un’attesa ribellione che poteva porre finalmente fine all’oppressivo regime instauratosi con la caduta degli Stati Uniti. Questa effimera luce di speranza, tuttavia, con i nuovi episodi non sembra essere riuscita a infuocare gli animi dei personaggi che, ancora una volta, si ritrovano intrappolati in un rigido sistema di oppressori e oppressi, una contrapposizione che si concretizza con il rapporto tra le due assolute protagoniste di questa seconda stagione, June/Difred (Elisabeth Moss) e l’altera signora Waterford (Yvonne Strahovsky), moglie del comandante a cui è stata assegnata l’ancella. L’attesa della nascita del primogenito dei Waterford darà vita a un gioco di tensione e, talvolta, anche di vendette. Dopo una prima stagione che ha introdotto il pubblico al mondo di contraddizioni e regole alla base di Gilead, la serie sceglie un ritmo più pacato per indugiare maggiormente su quella che è la vera ricchezza di questo prodotto di MGM Television: l’insieme dei personaggi. In un modo molto simile a quello scelto dagli sceneggiatori di Westworld, The Handmaid’s Tale si insinua tra le pieghe più scomode dei profili psicologici dei suoi protagonisti, sfumandone i tratti e confondendo il netto confine tra bene e male con motivazioni e speranze profondamente umane. Si assiste così alla straordinaria crescita del personaggio magistralmente interpretato da Yvonne Strahovky, una figura perennemente in bilico tra aguzzina e vittima per cui si provano reazioni contrastanti. Il suo granitico desiderio di maternità si scontra con una cieca fedeltà nei principi che lei in passato ha aiutato a teorizzare. “They should never have given us uniforms if they didn’t want us to be an army” Un’estrema cura per i dettagli delle scenografie, dei costumi e della fotografia è la costante in un prodotto preciso, studiato sotto ogni aspetto e sempre di altissimo livello nonostante la trama, lungo i 13 episodi, soffra in alcuni punti di cali di tensione. Anche per questa seconda stagione, però, bisogna riconoscere il grande merito di affrontare temi delicati che, nonostante siano stati recentemente riconsiderati grazie al movimento Time’s Up, non vengono trattati con superficialità né con posizioni di rito e banali bensì vengono analizzati gradualmente e minuziosamente concentrandosi sull’aspetto cardine della questione. La soluzione, la speranza, infatti, arriva proprio dalla solidarietà femminile, dalla capacità di unire le forze per sconfiggere un sistema che non può essere affrontato in solitaria. Nonostante la mancanza dell’effetto novità, The Handmaid’s Tale conferma il suo ruolo prestigioso nell’universo delle serie tv e, con 20 nomination agli Emmy del 2018, sfida tutti i suoi agguerriti rivali del piccolo schermo. Immagini tratte da: www.pinterest.com www.moviefone.com www.hollywoodreporter.com www.digitaltrends.com Potrebbe interessarti anche:
Il 26 luglio uscirà nei cinema Ocean's 8, il nuovo spin-off di Ocean's Eleven, ideato dal produttore Steven Soderbergh, con un cast tutto al femminile, tra le quali Sandra Bullock nei panni della sorella di Danny Ocean.
di Vanessa Varini
La trama ruota intorno, ovviamente, a una rapina. Debbie (Sandra Bullock) tenta di portare a termine il colpo del secolo all'annuale Met Gala di New York. La sua prima missione è quella di riunire la squadra perfetta, composta da Lou (Cate Blanchett), la stilista Rose (Helena Bonham Carter), l'attrice Daphne Kluger (Anne Hathaway), l'hacker Palla Nove (Rihanna), Tammy (Sarah Paulson), l'esperta di gioielli Amita(Mindy Kaling) e la ladra Constance (Awkwafina).
Anche questo nuovo film si caratterizza per l'ambientazione criminale ma, se nella trilogia prevale il testosterone con un cast prevalentemente maschile, qui prevale il Girl Power, una squadra tutta al femminile, con un plotone di comparse che provengono dallo star System, dal mondo della moda (come Anna Wintour, Alexander Wang, Kim Kardashian, Adriana Lima), da quello dello sport (Marija Šarapova e Serena Williams) e da quello del cinema (Katie Holmes, Dakota Fanning, Olivia Munn).
La saga di Ocean's Eleven ha inizio con il film omonimo remake della pellicola Colpo Grosso (1960), con protagonista Danny Ocean (George Clooney), un ladro che esce di galera in libertà vigilata e che progetta di derubare i tre casinò di Terry Benedict (Andy García), spietato affarista di Las Vegas, nonché nuovo fidanzato di Tess (Julia Roberts), ex moglie di Danny. Lo aiutano nel colpo Rusty (Brad Pitt) e altri professionisti della truffa (tra cui Casey Affleck, Scott Caan, Matt Damon).
Questo primo capitolo ha avuto un successo straordinario grazie al cast stellare e alla sceneggiatura complessa e ben costruita, alleggerita dalla vena comica dei protagonisti, ben definiti e di spessore.
Nel secondo film Ocean’s Twelve gli undici membri della banda vivono separatamente le loro vite sperperando la fortuna rubata al casinò, ma Terry Benedict li rintraccia ed è deciso a riavere indietro i suoi soldi con gli interessi.
Questo secondo capitolo non ha eguagliato il successo del primo film nonostante l'aggiunta di nuovi attori (Catherine Zeta Jones, Bruce Willis, Vincent Cassell) forse perchè basato principalmente sulla preparazione del colpo che porterà a restituire i soldi a Bennett.
Chiude la trilogia Ocean’s Thirteen con protagonista il perfido Willie Bank (Al Pacino), pronto ad aprire il più lussuoso casinò della città ma che in passato ha truffato Reuben Tishkoff amico di Danny Ocean. La banda decide di riunirsi per vendicare il torto subito. Con questa pellicola si ritorna agli albori della saga con un perfetto film d'evasione. E ora non ci resta che attendere l'uscita di Ocean's Eight: il potere delle donne sbancherà il botteghino? Immagini tratte da: https://i1.wp.com/www.badtaste.it/ https://mr.comingsoon.it/ https://www.ivid.it/ https://d1jo0zet24jmxt.cloudfront.net/ di Federica Gaspari
Bastano due semplici nomi per catturare l’attenzione di un pubblico di stampo cinefilo ma sempre curioso di scoprire nuovi prodotti di qualità sul piccolo schermo: Jonathan Nolan e J.J. Abrams. Il primo ha costruito una carriera da sceneggiatore di ottimo livello grazie alle numerose collaborazioni con il fratello Christopher (da Memento a Interstellar). Il secondo, invece, ha saputo ridare vita al genere fantascientifico su piccolo e grande schermo coniugando la vena più classica e tradizionale con le sfumature thriller più riuscite. Questo promettente duo nel 2016 ha dato vita a Westworld – Dove tutto è concesso, show targato HBO che con dieci esplosive puntate ha catturato l’attenzione di milioni di spettatori con la sua trama ingegnosa ricca di enigmi. Di ispirazione Crichtoniana – la serie sviluppa l’idea alla base de Il mondo dei robot del 1973 - Westworld è stato in grado di coniugare grandi temi esistenziali con una narrazione avvincente, ponendo quesiti non banali che hanno portato al rinnovo per una seconda stagione. Dopo una lunga attesa carica di dubbi e aspettative, altri dieci criptici episodi hanno nuovamente tormentato le sinapsi di milioni di appassionati. A due anni di distanza dal grandioso episodio conclusivo della prima stagione, l’epica sigla curata da Ramin Djawadi introduce ancora una volta le avventure dell’avveniristico parco divertimento di proprietà della machiavellica compagnia Delos. Tutto è radicalmente cambiato: gli host, i tecnologici androidi che popolavano Westworld, hanno avviato una sanguinosa ribellione, una rivoluzione nata e animata con la progressiva acquisizione di consapevolezza della propria natura. Personaggi agguerriti e spietati, armati di convinzioni e illusioni, tuttavia, attraversano gli infiniti universi alla ricerca di risposte e soluzioni agli interminabili rompicapi disseminati da Robert Ford (Anthony Hopkins), ideatore dell’intero progetto morto al termine della prima stagione. L’esordio di Westworld con i suoi mille intrecci, i molteplici livelli narrativi e le intriganti riflessioni e implicazioni filosofiche ha proposto un modello di intrattenimento stimolante e coinvolgente grazie alla sua ammirevole capacità di stravolgere ruoli e certezze. L’unico grande dubbio lasciato dai primi dieci episodi riguardava i personaggi: moltissimi e curiosi ma mai realmente approfonditi. La seconda stagione, al contrario, scommette proprio sul background di ogni pedina in gioco, esplorandone timori e soprattutto ossessioni, motori delle loro azioni e chiavi di lettura della loro intera esistenza. Attraverso questa chiara scelta, lo show esplora ancora più a fondo le problematiche legate alla coscienza degli androidi stessi e al significato di umanità regalando ulteriori labirinti frattali in cui lo spettatore avvezzo a sfide ama perdersi. Difficile attualmente individuare nel panorama televisivo internazionale una serie che può vantare una sceneggiatura di qualità pari a quella di Westworld. Alcuni episodi, sotto questo aspetto, hanno molto da insegnare a grandi produzioni cinematografiche. Anche nella seconda stagione si esplorano ulteriori diramazioni del complicato rapporto inventore e invenzione attraverso non pochi riferimenti biblici e si possono ritrovare molte similitudini con Lost tra indecifrabilità della realtà e sovrapponibilità di bene e male. Tra citazioni shakespeariane e reinterpretazioni di iconici brani dei Radiohead, tuttavia, la vera carta vincente dell’intera stagione oltre a strepitosi interpreti è la struttura che non si limita a semplici flashback e balzi tra linee temporali bensì incarna l’esperienza narrativa stessa dei personaggi, in particolare di Bernard, interpretato da un incredibile Jeffrey Wright. Un concetto che Nolan aveva già affrontato in Memento ma che trova una realizzazione ancor più avvincente su più puntate lasciando letteralmente lo spettatore a bocca aperta. Con la seconda stagione Westworld si conferma uno degli esperimenti narrativi più interessanti degli ultimi anni, proponendo ulteriori spunti di riflessione su temi etici e morali attraverso una storia intelligente densa di significati e prospettive. Immagini tratte da: Immagine 1: www.movieplayer.it Immagine 2: www.rollingstones.it Immagine 3: www. geektyrant.com Immagine 4: www.tg24.sky.it
di Fabrizio Matarese
Se gli eventi più noti del giugno pisano sono indubbiamente la Luminara di San Ranieri e il Gioco del Ponte, la città offre in queste settimane molte altre iniziative culturali, incontri e spettacoli. Tra questi c’è la rassegna di film Il cinema della normale , che la Scuola Normale organizza in collaborazione con il Cinema Arsenale.
In Piazza dei Cavalieri è stato montato un grande schermo e per cinque sere consecutive vengono proiettati i film, con una piccola introduzione a cura dei professori della Normale. L’iniziativa è a ingresso libero e aperta a tutti. Giovedì 28 giugno è stato il turno di Avatar e, sebbene lo avessi già visto, mi sono recato nella suggestiva cornice della piazza per assistere allo spettacolo interplanetario offerto da James Cameron.
Cosa ha da dire Avatar a quasi dieci anni dalla sua uscita? Ha conservato qualcosa di fresco il film che ha incassato di più nella storia del cinema? Oltre al tripudio tecnologico degli effetti speciali e della computer grafica rimane qualcosa di questo straordinario kolossal?
La trama la conosciamo tutti ed è, tutto sommato, abbastanza scontata. In un futuro lontano gli umani hanno colonizzato un lontano pianeta abitato da una razza aliena, i Na’vi. Su questo pianeta c’è un materiale preziosissimo ed è il motivo della presenza degli uomini su Pandora. Il problema è che il giacimento principale di questa pietra si trova sotto la casa principale dei Na’vi, un enorme albero che svetta sulle foreste circostanti.
Il protagonista è Jake Sully, ex marine invalido che, rimpiazzando il gemello scienziato, si trova a prendere parte al progetto che lo porterà al contatto con i nativi: tramite una speciale capsula tecnologica la sua coscienza viene trasferita nel corpo di un avatar, un corpo creato in laboratorio combinando DNA umano e alieno.
Entusiasta di poter usare nuovamente le gambe, Sully si butta a capofitto in questa avventura ma durante un’esplorazione nella foresta perde il resto della equipe scientifica ed entra in contatto col popolo dei Na’vi. Da qui in poi conosceremo meglio la cultura degli alieni e il ricchissimo, variopinto e sorprendente ecosistema di Pandora, che tramite connessioni biochimiche interagisce direttamente coi suoi abitanti. Jake Sully, mano a mano che prosegue negli esperimenti, inizia a sentirsi in uno strano limbo, non sa più chi è, si trova in una situazione precaria di ambivalenza: da un lato la sua missione è convincere i Na’vi a lasciare l’albero-casa per permettere ai terrestri di estrarre il prezioso materiale, dall’altro lato inizia a conoscere la cultura dei nativi e finisce per innamorarsi della principessa Neytiri che gli insegna un nuovo modo di convivere con le creature e con la natura.
Il film prosegue con una serie spettacolare di inseguimenti (magnifiche le scene di volo, in sella agli Ikran, variopinte creature alate), scene d’azione e battaglie che culminano nello scontro finale tra umani, militaristi e spietati, e alieni, “buoni” e rispettosi di ogni forma di vita.
Se la parabola delineata dal protagonista è interessante (cambia punto di vista, gruppo di appartenenza e anche corpo nel corso del film), il finale è abbastanza prevedibile. Ma concentriamoci sugli aspetti salienti di questo film mastodontico per produzione, durata e impatto estetico sullo spettatore. La prima cosa che colpisce è ancora l’impianto scenico e visuale. Anche senza il 3d Pandora, il mondo immaginato da Cameron, appare vivo, vegeto e pulsante sullo schermo. Un ecosistema complesso e misterioso, con la sua vegetazione radiosa e luminescente, i suoi animali che sfidano le leggi della gravità e questi straordinari alberi che permettono al popolo dei Na’vi una connessione col pianeta e coi loro antenati. Questa concezione naturalistica e, oserei dire, ecologista è resa convincente e profonda proprio dal livello dell’immagine e della computer grafica.
C’è in questo film il recupero del mito del buon selvaggio, ovvero l’idea che in origine l’uomo fosse un animale pacifico e buono ma che, col progredire della civilizzazione, perdesse queste virtù per diventare malvagio. Ecco che questo tipo di mito, che trova in Rousseau un suo grande promulgatore, arriva intatto fino a noi e, sotto spoglie diverse, conserva intatta la sua forza di fascinazione. È inevitabile il sospetto che nel corso della civilizzazione qualcosa sia andato storto e Avatar riutilizza questa idea in un contesto fantascientifico per mostrarci i problemi reali del nostro pianeta.
Pochi film riescono a mostrarci i nostri limiti nel rapporto con la natura e col pianeta Terra, la nostra grande casa che ci è indispensabile per vivere. Eppure siamo ancora fermi (come gli umani di Avatar) su posizioni di dominio e sfruttamento delle risorse naturali, danneggiando l’ecosistema e l’ambiente in cui viviamo senza il minimo scrupolo. Ecco, forse di questo grande film, osservandolo un decennio più tardi, viene da pensare che ciò che rimane, oltre agli effetti speciali, è questa meravigliosa visione utopica di un rapporto più equo, profondo e spirituale degli esseri umani, con gli animali, le piante, la natura e il cosmo. |
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Giugno 2023
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