TITOLO DEL FILM: Shadowhunters – Città di ossa
ANNO: 2013
Regia: Harald Zwart Tratto dal romanzo: Shadowhunters – Città di ossa di Cassandra Clare Cast: Lily Collins: Clary Fray Jamie Campbell Bower: Jace Wayland Robert Sheehan: Simon Lewis Jemima West: Isabelle Lightwood Kevin Zegers: Alec Lightwood Kevin Durand: Emil Pangborn Robert Maillet: Samuel Blackwell Lena Headey: Jocelyn Fray Jonathan Rhys-Meyers: Valentine Morgenstern Genere: fantasy, horror, young teen adult, gotico.
Dopo la saga vampiresca "Twilight" creata da Stephenie Meyer che ha venduto milioni di copie di libri in tutto il mondo e altrettanti biglietti al cinema grazie ai film con Robert Pattinson e Kristen Stewart, il 28 agosto 2013 è uscito al cinema "Shadowhunters", film tratto dalla saga fantasy creata da Cassandra Clare, considerato il nuovo "Twilight". Al botteghino non ha ottenuto il successo sperato e il sequel ("Città di Cenere") è stato cancellato, ma la storia ha
conquistato tanti spettatori, tra cui me. Ecco la recensione di "Shadowhunters" e perchè è meglio di "Twilight". Clary Fray (Lily Collins) è un'adolescente newyorkese che, in un locale, assiste ad un omicidio che solo lei sembra in grado di poter vedere. Più tardi, scopre che la madre è stata rapita da un misterioso uomo chiamato Valentine (Jonathan Rhys Meyers, ormai abbonato ai ruoli da cattivone, vedi la serie tv "Dracula") che è alla ricerca della cosiddetta Coppa Mortale. Catapultata quindi in un mondo di cui ignorava l'esistenza, in cui demoni, stregoni, vampiri, licantropi, fate e altre creature leggendarie sono reali, si affida agli Shadowhunters, cacciatori di demoni vestiti di pelle nera, tra cui Jace (Jamie Campbell Bower), Alec, Isabelle e i Nephilim che le persone normali non possono vedere. Inizia così un viaggio alla ricerca della madre e alla scoperta di quell'universo di cui anche lei sembra far parte, accompagnata dall'amico nerd Simon. Solo così potrà sconfiggere il male e salvare la madre. Le assonanze tra questo film e "Twilight" sono molte, ma la più rilevante è il triangolo amoroso. Se Bella era divisa tra Jacob (il licantropo) ed Edward (il vampiro), qui Clary è contesa da un umano, Simon, innamorato da sempre di lei e da il cacciatore misterioso, abbastanza inquietante e platinato di nome Jace. Però Lily Collins (figlia di Phil Collins, già principessa delle fiabe e ragazza semplice ma combattiva in "Biancaneve", con le sopracciglia folte da far concorrenza a Cara Delevingne), è perfetta per la parte della ragazza ingenua che si ritrova catapultata suo malgrado in un mondo popolato da creature sovrannaturali, anche meglio di Kristen Stewart. E Jamie Campbell Bower, il volturo Caius di "Twilight" (che coincidenza) e Gellert Grindelwald di "Harry Potter" (è comparso in tutte le saghe fantasy questo ragazzo) nei panni del tenebroso Jace, è decisamente più convincente di Pattinson.
Poi "Shadowhunters" è più spaventoso di "Twilight", non è un vero e proprio horror, è un fantasy-horror, una fiaba gotica zeppa di creature fantastiche, vampiri, stregoni, creature leggendarie, demoni, cacciatori di demoni, angeli, con tante scene d'azione anche violente e reali ed effetti speciali, grazie al regista norvegese Harald Zwarth. E ciliegina sulla torta la protagonista Clary è un'eroina moderna, che da ragazzina buffa ed ingenua, si trasforma in una donna combattiva, cambiando anche look, insegnando alle ragazze a credere in se stesse e a prendere in mano le redini del proprio destino, senza l'aiuto di nessuno. "Shadowhunters" è un perfetto mix di avventura, romanticismo, azione, soprannaturale, umorismo (le battute di Jace sono esilaranti), horror (i demoni spaventano davvero!) da non perdere.
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Che direzione sta prendendo il cinema di oggi? Un approfondimento per capire quali sono i pochi pro e gli svariati contro dell'industria cinematografica odierna.
Nel 1980 Bruce Woolley suonava “Video killed the radio star”, oggi qualcuno dovrebbe necessariamente scrivere una nuova ballata di denuncia su come il dio denaro stia velocemente affossando il cinema odierno. I dati a nostra disposizione sono allarmanti: non solo il pubblico pagante in sala è diminuito rispetto agli anni '80 e '90, ma le grosse case produttrici ci fanno anche notare come i “cinema di quartiere” (massimo due sale) stanno scomparendo da piccole e grandi città, lasciando un vuoto culturale incolmabile e favorendo lo sviluppo sempre più invadente dei multisala, che spuntano come funghi velenosi in zone periferiche.
Mi permetto di utilizzare il termine velenoso perché scientificamente il fungo nocivo appare grazioso, colorato e innocente, nascondendo però la propria nocività sapientemente, come appunto queste enormi strutture. I multisala danno allo spettatore la possibilità di vedere dalle quattro alle otto pellicole e contengono al loro interno non solo enormi schermi e moderne sale, ma anche negozi e snack bar. Tutto l'hype che circondava all'inizio i multisala sembrava ai più benefico e il progetto si presentava ricco di potenzialità e fascino. Purtroppo col passare del tempo si è rivelato un altro becero modo per fare soldi e per permettere a già facoltose aziende di arricchirsi maggiormente, a discapito della distribuzione cinematografica che si presenta sempre più confusa e raffazzonata. Inoltre l'effetto domino di degrado qualitativo si estende a macchia d'olio sino ad arrivare alla scelta dei film da inserire nelle varie sale. Un tempo i distributori si confrontavano con i vari produttori cinematografici, proponendo un cinema di qualità e riuscendo a coniugare guadagni e opere ben strutturate dal punto di vista artistico. Oggi la situazione si è negativamente capovolta favorendo la produzione massiccia di blockbuster spesso indirizzati verso un pubblico di teenager o fan (estremi) del genere. Le otto sale vengono utilizzate per favorire la pellicola ad alto budget e il piccolo film d'autore, dal grande contenuto qualitativo, viene rilegato ai margini della distribuzione. Regole di mercato feroci ma bisogna fare i conti con un problema sempre più grosso e crescente, quello dello scarso interesse del pubblico nei riguardi del cinema non solo d'autore ma di qualità.
Purtroppo lo spettatore medio si rifugia sempre più spesso nella mitica frase: “vado al cinema per rilassarmi” o “per evadere dagli affanni del quotidiano”, oppure si lascia abbindolare da trailer sfavillanti, confezionati a regola d'arte per attrarre e vendere il loro prodotto. Un esempio lampante è il film che dal 13 agosto possiamo vedere nelle nostre sale, il tanto discusso e atteso “Suicide squad”. Solito comic-movie accolto dai fan e dai piccini con enorme entusiasmo ma che mostra tutti i difetti e i limiti del cinema moderno. Non può bastare una produzione imponente, non bastano i quattro attori dal calibro pesante e nemmeno una colonna sonora molto commerciale per potere entrare nella nostra fantasia. Il film è senz'anima, confuso e il montaggio sembra essere stato effettuato da un neofita. Sfido chiunque a rivedere l'orripilante circo messo in piedi dalla Fox. Purtroppo la cosa grave e dolorosa è che questo tipo di prodotto non è il primo e per nostra sfortuna non sarà l'ultimo. La tendenza del cinema odierno è quella a cui stiamo assistendo inermi e sconcertati, ovvero: faccio un film, lo riempio di scintillanti robacce inutili e ridondanti e infine lo pubblicizzo senza pietà, ai limiti dello sfinimento mediatico. Risultato? Cerco di ricavarci il più possibile vendendo gadget e tutto il merchandising a disposizione.
Tutto questo va a discapito dell'arte, della cura dei dettagli e della ricerca certosina nel tentativo di dare un'anima, una vita propria all'opera. Ovviamente non tutte le pellicole uscite in questo ultimo anno fanno parte di questo filone negativo. Il cinema europeo ad esempio grazie ad un'accurata selezione e ricercato studio, fornitogli anche dal supporto dei festival, sta vivendo una nuova giovinezza. La nostra Italia quest'anno sembra aver trovato l'antico smalto e festival sapientemente gestiti come quello di Torino, stanno aiutando la nostra macchina del cinema a ripartire in maniera affascinante, creativa ed intelligente.
In America sembrano averlo capito in pochi, è inutile continuare a riempirci di remake, prequel o improbabili seguiti. I grandi maestri di un tempo ci hanno insegnato che chi cerca di ottenere il consenso degli altri scade nella banalità. L'originalità, il coraggio di rischiare e di urlare con vigore le proprie idee è la via da seguire e per fortuna giovani e intraprendenti registi puntano alla riscossa e con molto piacere possiamo notare che la stragrande maggioranza è tutta made in Italy.
Per oggi cari lettori ci fermiamo qui con l'augurio che questo approfondimento possa essere uno spunto su cui riflettere e un argomento di conversazione fra amici e appassionati, non solo cinefili e addetti ai lavori. Il cinema è arte, un bene prezioso da condividere insieme. Torneremo la prossima settimana con nuovi spunti e nuovi temi da trattare. A presto e buona lettura da tutta la redazione de IlTermopolio.
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<<Né con te né senza di te>>, questa l’epigrafe che la dolce signora Odile (Veronique Silver) ha pensato per l’ipotetica tomba di due amanti, trovati morti uno vicino all’altro.
La signora della porta accanto (1981) è un film di F. Truffaut (ispirato alla storia d’amore del regista con Catherine Denevue), in cui sono presenti e indagati con sensibilità e spessore i tratti della fenomenologia amorosa e del suo dispiegarsi verso il patologico: dal risveglio del sentimento, al ritorno della passione, fino alla follia e alla morte. Un amour fou, totale che preferisce annientarsi piuttosto che patire un nuovo e insopportabile distacco. Odile osserva le vicende che si svolgono in sei mesi attorno al circolo di tennis che gestisce, con la vivacità e l’acutezza di una donna che porta sul suo corpo i segni di un amore disperato, per il quale aveva tentato il suicidio venti anni prima. Il destino fa del suo meglio per riavvicinare Bernard (G. Depardieu) e Mathilde (F. Ardant). I due si sono amati vicendevolmente, si sono fatti del male e adesso vivono entrambi una nuova vita, apparentemente felice e soddisfacente. Bernard, 32 anni, è sposato e padre di un bambino. Mathilde si è da poco sposata con un uomo più grande. La tranquillità delle rispettive esistenze si interrompe bruscamente con l’arrivo di Mathilde, la femme d’à côté, una donna <<tenebrosa, di quelle donne che cercano sempre il pelo nell’uovo>, lei, che otto anni prima aveva deciso di troncare un rapporto insano, che stava facendo male ad entrambi. Un inizio coinvolgente con la narrazione in apertura di Odille che guarda direttamente in camera da presa, per un film che si sviluppa attraverso un lungo flashback. La tensione dell’inizio- l’urgente e ossessiva necessità di Mathilde di incontrare Bernard- si stempera una volta che la passione divampa tra i due per poi ripresentarsi avvicinandosi al tragico finale, pervaso da un’atmosfera inquietante, quasi hitchcockiana
Il film vede un capovolgimento del modo di mostrarsi e di interagire dei due amanti: nella prima parte Mathilde è in balia di emozioni incontrollabili, le basta sfiorare le labbra di Bernard per perdere i sensi e svenire. Nella seconda parte, la situazione è gestita con apparente migliore controllo e distacco dalla donna, mentre l’uomo è completamente offuscato dall’amore, tanto da diventare folle, una volta scoperto che Mathilde partirà per il viaggio di nozze col marito.
L’epilogo drammatico della pellicola ha un oscuro e velato presagio: un disegno che Mathilde realizza per un volume di fumetti per bambini, in cui un bimbo è disteso per terra in una pozza di sangue. La donna, esausta di fingere un controllo e una razionalità che non ha, lascia cadere la maschera. Si scopre depressa, malata di un amore a sua volta malato, che la consuma, perché fuori tempo. E quale soluzione se non l’annullamento di se stessi, dei propri ricordi, rimpianti e sensi di colpa in una fusione definitiva con l’oggetto del proprio desiderio ed amore?
All’interno di un milieu tipicamente borghese, un amore malato ed estremo che acceca, consuma, che annulla. Truffaut con maestria e senza scadere nel feuilleton indaga a fondo la psicologia di due amanti, mettendo a fuoco sentimenti ed emozioni, a cui non sempre decide di abbinare le parole, che trovano senso ed espressione nel non-detto, tramite i volti e i gesti dell’inquieta F. Ardant e del turbato G. Depardieu. Il regista riesce a dare una grande potenza drammatica ad una storia già sentita, impreziosita dal lungo flashback e dalla narrazione diretta al pubblico in sala, a cui Odille, malinconica, rivolge sul finire le ultime amare considerazioni.
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Uno schermo completamente nero. Poi delle luci che iniziano a muoversi, allungandosi. E’ la volta celeste illuminata dalle stelle, il cui movimento, nell’insieme rotatorio, è ripreso dalla circolarità del vinile che vi si sovrappone visivamente, producendo musica orientaleggiante.
Adam (Tom Hiddleston) ed Eve (Tilda Swinton) sono due amanti e sono anche due vampiri. Si sono amati e si amano ancora, attraverso l’eternità. Entrambi hanno deciso di non uccidere umani per nutrirsi, ma di corrompere medici ed avere, in cambio di grosse somme di denaro, del sangue non infetto.
Girato tra la orientale Tangeri e i quartieri periferici e decadenti di Detroit, Solo gli amanti sopravvivono (2013) è un film horror e drammatico, che racconta due modi diversi di vivere oltre la morte attraverso la storia dell’insolita coppia. Adam è un musicista underground, collezionista di chitarre e vinili, solitario e perennemente depresso: ha poca fiducia nell’umanità, composta -a suo dire- da zombie incapaci di apprezzare l’arte e la scienza, prova ne è che i più grandi scienziati della storia siano stati per le loro idee rivoluzionarie ostacolati, uccisi o incarcerati. Eve vive a Tangeri. E’ una bibliofila, colleziona libri di qualunque lingua e vive circondata da oggetti eleganti e stoffe preziose. Esce di notte per incontrare, tra le viuzze della città, il poeta Marlowe che la rifornisce di sangue.
<<...questa tua ossessione è uno spreco di vita che potresti dedicare a tutto ciò che rimane, contemplare la natura, coltivare la gentilezza e le amicizie, e danzare>>, così Eve parla al marito, una volta raggiuntolo a Detroit. Si accorge infatti che è depresso e che ha addirittura acquistato un proiettile di legno per suicidarsi. Restandogli vicino, parlandogli, danzando -in breve- amandolo, lo distoglie dall’intento.
La situazione rimane invariata fino all’arrivo di un’ospite sgradita: l’incontenibile Ava (Mia Wasikowska), sorella di Eve, che causerà non pochi guai ai coniugi, compreso l’uccisione di Ian (Anton Yelchin), unico amico umano di Adam. Dopo alterne vicende, i due decidono di stabilirsi insieme a Tangeri. Una volta giunti nella città marocchina, saranno impossibilitati a nutrirsi e dovranno, per sopravvivere, ricominciare ad uccidere, come facevano un tempo. Inizieranno da una coppia di amanti.
Al di là dei riferimenti alla trama che contiene stilemi classicamente riferibili al genere horror (trance e apparizione dei canini una volta deglutito il sangue, pallore mortifero, proiettile di legno per uccidersi, impossibilità di vedere la luce del sole), il film appare tecnicamente e stilisticamente molto raffinato. Un’accattivante fotografia indugia, staticamente e puntualmente, su dettagli di interni che sottolineano la ricercatezza della personalità dei due affascinanti vampiri: giradischi, stoffe, libri, tappeti. Tutto contribuisce a mettere in evidenza -oggetti, mobilio, musiche e colori- la sensibilità dell’elitaria Eve, una sorta di esteta, una dandy al femminile, attaccata all’eternità e alla bellezza della vita, anche di quella vissuta all’ombra degli onnipresenti occhiali da sole. Le atmosfere nere, cupe e underground sono riferibili invece al marito, un fascinoso artista, con l’aria da maledetto, intrappolato dentro le mura del suo appartamento/sala di registrazione di Detroit.
Tanti sono gli intellettuali che i due hanno frequentato nel corso dei secoli: Shelley, la moglie Mary Woolstonecraft, Lord Byron, Shubert (a cui Adam aveva perfino regalato alcune melodie che poi il compositore aveva spacciato per sue). Appare anche il motivo dell’inautenticità dei sonetti di Shakespeare, avallata da Eve che ritiene appartengano all’amico Marlowe. Film indipendente per la regia di Jim Jarmusch, candidato a Cannes nel 2013, rievoca tematiche relative alla diversità e all’isolamento dell’intellettuale che sdegnosamente si chiude nella torre d’avorio della propria cultura. La pellicola non pecca di banalità – semmai a tratti di lentezza- essendo stato il tema declinato attraverso il registro horror, senza però scadere nelle esagerazioni del genere. Il dettaglio della vita oltre la morte regala atmosfere a tratti lugubri ma piacevolmente insolite per un film sentimentale. Pur se colti, belli e affascinanti si è fragili e si finisce per accartocciarsi su se stessi e sulla propria presunta superiorità intellettuale. E allora, come i debilitati Adam ed Eve per le strade di Tangeri, bisogna farsi forza in due. Per sopravvivere, amandosi. Immagini tratte da: - Immagine 1 da film-cinema.it - Immagine 2 da gretaconsiglia.it - Immagine 3 da notoriusmartagabrieli.blogspot.com - Immagine 4 da arscinema.blogspot.com - Immagine 5 da filmtv.it - Immagine 6 da xl.repubblica.it
Louisa Clark detta Lou (Emilia Clarke) ha 26 anni, vive in una cittadina della campagna inglese e fa la cameriera, ma un giorno viene licenziata dopo anni di lavoro dal padrone del locale. A casa la sua famiglia non naviga nell'oro e il suo contributo è essenziale. Nonostante ciò niente intacca il suo ottimismo, Lou vede sempre il bicchiere mezzo pieno, ma questa gioia verrà messa a dura prova quando si ritrova ad affrontare una nuova sfida lavorativa. Trova infatti lavoro come assistente di Will Traynor (S. Claflin), un giovane e ricco banchiere, quadriplegico, finito sulla sedia a rotelle dopo essere stato investito da una moto, la cui vita è cambiata radicalmente in un attimo. Lui vive nel dolore e la presenza della ragazza, tanto goffa quando sensibile e testarda, lo infastidisce ma lei gli farà breccia nel suo cuore. Qualcosa complica però la situazione. "Io prima di te" film diretto da Thea Sharrock e tratto dal celebre romanzo di Jojo Moyes, che ha scritto anche la sceneggiatura e fatto piangere come una fontana milioni di lettori, si presenta come la versione romantica di "Quasi amici", con qualche stereotipo fiabesco: lei buffa, goffa ma molto dolce, con un look alquanto sopra le righe, lui bello ricco, ma arrogante che vive in un castello, un principe azzurro in carrozzina quasi, sportivo, cosmopolita, due persone completamente diverse, ma che hanno bisogno l'uno dell'altra. Lui ne è inconsapevole finché non rivela un segreto a Lou e la giovane tenterà in tutti i modi di smuoverlo dal suo torpore e di convincerlo che la vita vale ancora la pena di essere
vissuta, scoprendo posti nuovi, accompagnandolo a degli eventi.
Così lei arricchisce le sue giornate e non solo quelle di Will e lui le insegna qualcosa di nuovo, la musica classica, i film con i sottotitoli... aprendole nuovi orizzonti e movimentandole la vita! Purtroppo non basterà e la fine sarà commovente. Nonostante ciò il film è pieno di punti di forza per alleggerire il tono di una storia dai risvolti drammatici, come i siparietti comici di Lou che tenta di superare le difese del cinico protagonista, i commenti acidi di Will sul look di Lou, che va pazza per delle scarpe da gnomo o per dei collant a righe neri e gialli come l'ape Maya, il fidanzato di Lou fissato con lo sport e con il culto di se stesso. Completano il tutto le bellissime musiche di Ed Sheeran ( "Photograph" e "Thinking Out Loud") e gli ottimi protagonisti, Emilia Clarke, con il suo colore naturale di capelli che qui sfodera la vena comica, allontanandosi dalla platinata Khaleesi di "Game of Thrones", San Claflin, il Finnick di Hunger Games perfetto nella parte e Charles Dance padre di Will, famoso per aver interpretato Tywin Lannister, sempre di "Il trono di spade". È un grande film, affronta anche temi riflessivi come la libertà di scelta ed è uno dei pochi film dove a volte si ride e si piange insieme, impossibile non immedesimarsi nelle condizioni di Will e di tutte le persone che come lui sono disabili o che sono costrette ad affrontare una vita che non vogliono accettare.
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ANNO: 2012
DURATA: 97 minuti GENERE: drammatico, sentimentale REGIA: Brian Klugman, Lee Sternthal CAST: Bradley Cooper: Rory Jansen Zoe Saldana: Dora Jansen Olivia Wilde: Daniella Jeremy Irons: il vecchio Dennis Quaid: Clay Hammond Ben Barnes: uomo giovane Nora Arnezeder: Celia
Clay Hammond (un Dennis Quaid, molto invecchiato ma la sua bravura è rimasta intatta) è un celebre scrittore. Quando legge in pubblico i primi tre capitoli del suo libro durante una conferenza, viene notato da una bellissima studentessa (Olivia Wilde). Il protagonista del suo romanzo è Rory Jansen (Bradley Cooper) che sogna di diventare uno scrittore e sogna il libro della vita, ma riceve solo rifiuti dalle casi editrici. Durante la luna di miele a Parigi, sua moglie Dora (Zoe Sandana) gli regala una vecchia ventiquattrore senza sapere che dentro è nascosto un manoscritto.
Rory rimane affascinato dalla storia e decide di riscriverla identica a computer e di pubblicarla. Così raggiunge il tanto atteso successo ma un vecchio signore (Jeremy Irons) rivendica la paternità del libro, che narra la sua bellissima ma drammatica storia ambientata a Parigi durante gli anni della Guerra.
Scoperto il plagio, Rory proverà a convivere con la menzogna ma ci riuscirà? "The Words", film d'esordio degli sceneggiatori Brian Klugman e Lee Sternthal, è un dramma che tiene inchiodato alla poltrona, grazie alle musiche coinvolgenti e alle storie, tante storie che si uniscono fra loro, ingarbugliandosi in un vero e proprio rompicapo. Clay lo scrittore all'inizio del film che narra un libro alquanto misterioso, Rory che vuole diventare uno scrittore famoso e lo diventa a spese
altrui, il vecchio che ha perduto il libro della vita insieme alla propria vita. Tutti sono uniti dal bisogno compulsivo di scrivere, dalla passione vorace per la scrittura, vogliono esplorarsi all'interno imprimendo su carta le loro impressioni e sentimenti, ma l'unico che ci riesce veramente, è il giovane Ben Barnes (divenuto poi l'anziano Jeremy Irons). Rory lo sa mentre trascrive parola per parola, al computer, senza cambiare nemmeno le virgole del libro. Non diventerà mai e poi mai bravo come lo scrittore di quel capolavoro. E qui entra in gioco la domanda fatidica, soprattutto per "noi" scrittori: se trovaste un romanzo vecchio ed arrugginito di un autore anonimo, ma è un capolavoro, ne diventereste voi stessi autori appropriandovi della paternità, rubando la storia di un altro, assumendovi tutte le responsabilità del caso o rifiutereste? Sono proprio le scelte dei protagonisti il fulcro centrale della storia, ognuno dovrebbe ponderare gli aspetti negativi e positivi perchè poi non si torna indietro. E non dimentichiamoci la storia a tre livelli, altro punto di forza del film, Clay Hammond racconta Rory Jansen che copia un vecchio libro di un uomo che narra un amore e la storia della propria vita smarrita come le pagine del proprio libro, ma in fondo (Dennis Quaid, Bradley Cooper e Jeremy Irons) potrebbero essere la stessa persona. La realtà si fonde con la finzione grazie al grande cast di attori molto bravi, come Dennis Quaid, un grande Jeremy Irons, Bradley Cooper convincente e e con l'occhio ceruleo che non guasta mai. "The words" è un film emozionante, intenso, originale, perfetto soprattutto per chi vuole diventare uno scrittore. Ed è anche un film per romantici, una storia d'amore come l'amore per le parole che supera quello che si prova per la persona amata. Scrittura ed amore un connubio perfetto per un grande film!
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L'11 agosto del 2014 il mondo del cinema e milioni di fan sono stati costretti a dire addio a Robin Williams. Un attore dal talento comico unico ma capace anche di emozionare il pubblico con interpretazioni drammatiche. I suoi film hanno cresciuto intere generazioni di bambini, pensiamo a Mrs. Doubtfire e Jumanji, ma il pubblico ha amato Robin anche quando ha vestito i panni del professor John Keating ne L'attimo fuggente o quelli del disc jockey Adrian Cronauer in Good Morning, Vietnam. Williams ha reso memorabili tutti i suoi personaggi ma a volte il tempo non gli ha reso giustizia facendo dimenticare alcune sue interpretazioni che meriterebbero invece maggiore considerazione. Ci piace ricordarlo nella pellicola POPEYE - BRACCIO DI FERRO di Robert Altman (1980), l'eroe dei fumetti tutto muscoli e spinaci ha preso vita sul grande schermo grazie all'attore nato a Chicago, abilissimo con la mimica facciale e la sua energia a trasmetterci tutta la forza di un personaggio che appartiene all'immaginario collettivo.
Un altro ruolo passato in sordina è quello del cortigiano Osric nella pellicola HAMLET di Kenneth Branagh (1996). Il regista volle fortemente Robin ritenendolo unico e d'indiscutibile talento, la leggenda narra che in mezzo a un cast di assolute stelle come Charlton Heston, Jack Lemmon e Judi Dench, Branagh si fosse pubblicamente innamorato del nostro compianto idolo, attirando su di lui l'ira dei vari attori, invidiosi di così tante attenzioni. Resta il fatto che il regista ci aveva visto giusto, tutt'oggi la prova di Williams è rimasta nella memoria di molti appassionati.
Nella sua lunga e straordinaria carriera Robin ha vestito pure i panni insoliti del cattivo, come non ricordarlo in One Hour Photo di Mark Romanek (2002). Nella pellicola, premiata grazie alla magistrale prova dell'attore, Williams è Seymour Parrish, uomo timido e solitario che lavora in un grande magazzino nella sezione sviluppo fotografie. L'uomo manifesta una vera e propria ossessione per una famiglia di affezionati clienti, fino al punto di perseguitarli. I critici non smisero di lodare l'attore, per la profonda interpretazione drammatica ma soprattutto per l'accurato ritratto di un indimenticabile assassino.
Per il pubblico più attento e di nicchia, nel 2014, Robin dopo anni bui e tumultuosi, sorprende per l'ennesima volta tutti con la sua ultima pellicola Indie Boulevard di Dino Montiel (2014). L'attore è Nolan, un banchiere sessantenne, stanco della monotonia della sua esistenza.“Una delle migliori performance della sua carriera” com’è stata definita al Tribeca film Festival, dove il film aveva debuttato in prima mondiale nel 2014, guadagnando peraltro ampi consensi: Indie Boulevard esplora il tema dell’omosessualità, con cui il protagonista si confronta, grazie all’incontro con un ragazzo che lo aprirà ad un nuovo mondo.
Chiudiamo il nostro omaggio ricordandolo nel film MOSCA A NEW YORK di Paul Mazursky (1984). Quanti attori sarebbero disposti a imparare il russo e prendere lezioni di sassofono per girare un film? Forse pochi ma Robin accettò la sfida pur di interpretare il musicista Vladimir Ivanoff, catapultato nella Grande Mela dopo aver abbandonato la Russia. La storia celebra l'incontro tra culture e il valore della musica, capace di superare ogni barriera e per il pubblico è l'occasione perfetta per vedere Williams mentre esprime tutto il suo talento eclettico.
La sezione Cinema del IlTermopolio ci teneva tantissimo a raccontare la storica carriera di un attore leggendario. Robin magari non se ne sarà reso conto, ma viaggiare insieme a lui è stato come un interminabile giornata sulle montagne russe, ci ha fatto ridere, emozionare ed infine piangere e per questo tutto il mondo teatrale e cinematografico gliene sarà per sempre grato. Ovunque esso sia lo conserveremo per sempre nei nostri sogni e nella nostra memoria. Grazie come sempre per continuare a seguirci così numerosi, nell'augurarvi una buona lettura vi lasciamo alcuni video delle sue più toccanti interpretazioni, a presto e buona continuazione con IlTermopolio.
Interpretazioni
Immagini tratte da: Copertina – www.Blog.Ctnews.com Immagine 1 – www.storypick.com Immagine 2 – www.culturalist.com Immagine 3 – www.SonofMarketing.it Immagine 4 – www.Ansa.it Immagine 5 – www.Alfemminile.com
Azzurra, limpida e sconfinata, un’immensa distesa d’acqua bagna l’isola di Lampedusa. E’ un’acqua che consola, che libera da ciò che non piace, che fluisce ininterrotta senza incontrare resistenze, che dà consolazione sostenendo il corpo e, con esso, l’anima.
Respiro (2002) di E. Crialese (Grand Prix a Cannes) è la storia di una giovane donna, Grazia (Valeria Golino, Nastro d’argento 2002), un po’ svagata e fuori di testa, che forse soffre di una qualche forma di depressione. E’ madre di tre figli e vive a Lampedusa. Con i suoi gesti strampalati destabilizza l’equilibrio familiare, attirando su di sé la diffidenza dei benpensanti paesani, pieni di pregiudizi, che vogliono sia spedita in un istituto per malati di mente a Milano. Dal bagno in mare completamente nuda, al tentativo di gita a bordo di una barca a vela con degli sconosciuti, passando per la liberazione dell’intero canile (e la conseguente mattanza di cani da parte dei paesani), la situazione in breve tempo precipita. Grazia, minaccia il suicidio perché vuole rimanere a Lampedusa e, con la complicità del figlio, decide di nascondersi all’interno di una grotta, dove passerà indisturbata diversi giorni.
Un rapporto a tratti ambiguo quello che lega Grazia ai figli: affetto misto ad una forma embrionale di sensualità, in particolare verso il più grande, Pasquale (Francesco Casisa), che nei confronti della madre riveste un ruolo quasi genitoriale. C’è una grande complicità tra i due e un capovolgimento della normale relazione genitore-figlio, forse un po’ forzata tenendo conto che si tratta solo di un bambino, che risulta però congeniale alla trama.
Le atmosfere che rivivono sono quelle di un piccolo paese siciliano degli anni ‘60: giochi liberi tra bambini in strada, momenti di condivisione e socialità infantile, rituali, sacro che si intreccia col profano e naturalmente l’idioma isolano frammisto all’italiano che conferisce identità ai personaggi.
Grazia è una donna altrove, che vive in una dimensione tutta sua: sognante ascolta Patty Pravo che canta La bambola e sorride malinconica. Le voci di paese dicono che la donna <<fa uscire pazzi>> perché <<quando è contenta è troppo contenta, quando è triste è troppo triste>>. Grazia è poco gestibile, le sue reazioni fuori dagli schemi sono inaspettate, non meditate, sono vere pur nella loro stranezza. Il marito Pietro (Vincenzo Amato) tenta come può di contenerla e di farla ragionare, poi - una volta scomparsa - inizia le ricerche, sperando di trovarla all’interno dell’isola. Suggestivo è il posizionamento della statua della Madonna sott’acqua da parte di Pietro, che cinge e prega, in un rapporto personalissimo con la divinità marmorea. La festa di S. Bartolomeo chiude il film. Falò di legna vecchie illuminano l’acqua che diventa dorata, quasi magica. Sulle note delle musiche di John Surman - che suggeriscono, tramite l’intreccio di sassofono e sintetizzatore, rumori abissali e profondità in cui ogni rumore è ovattato dall’acqua - avviene una doppia ricomposizione: la famiglia si ricongiunge in seno la piccola comunità e questo avviene nelle acque del mare.
Il mare è, assieme ai personaggi, un protagonista della pellicola. E’ un mare che avvolge, perdona, che accetta, è luogo di incontro e libertà. Libertà di essere come si è, anche per l’incomprensibile piccola donna che riappare agli occhi del marito attraverso l’acqua, che fluida, elimina ogni reciproca resistenza.
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Ben Whittaker (Robert DeNiro) pensionato settantenne e vedovo, non sa come passare il tempo, le ha provate tutte: lo yoga, i viaggi... ma si annoia e non riesce a rimanere senza amore né un lavoro. Decide così di ripartire da zero trovando un nuovo lavoro, approfittando di un strano programma di stagisti senior promosso dalla start-up About The Fit, un e-commerce di abbigliamento. A Ben viene assegnato il ruolo di assistente della fondatrice dell'azienda, Jules (Anne Hathaway), di trent'anni. Jules è perfettina, dinamica, vuole tenere tutto sotto controllo, ma la vita privata ne risente, passa più tempo in ufficio e sul computer che con la sua famiglia. Intanto la sua iniziale diffidenza verso Ben si trasforma in stima e lui l'aiuterà a rallentare, a coltivare i rapporti diretti con le persone e a ritrovare il senso della vita, che non è solo il lavoro.
Ecco "Il Diavolo veste Prada" con ruoli opposti e in versione social. Infatti è impossibile guardando il film, non trovare degli accostamenti con il celebre film del 2006. La terribile Miranda Priestley (Meryl Streep) qui è impersonata, in versione più accomodante, dalla giovane Jules, ragazza che si è fatta da sola, lavorando sodo. Da l'invenzione di un sito e-commerce è riuscita a fondare un'azienda, un po' come le famose fashion blogger di oggi che a colpi di post pubblicizzati e sponsorizzazioni sono diventate delle vere trendsetter e donne in carriera. E nel film del 2006 il ruolo di Andy (interpretata da Anne Hathaway, guarda il destino) la giovane novellina fuorimoda che vuole diventare giornalista e si ritrova in un mondo, quello dell'alta moda, totalmente estraneo, qui è impersonato magistralmente da Robert DeNiro (ormai votato alla commedia, ma sfodera sempre la sua bravura). Un uomo con esperienza di direttore in una editrice di elenchi telefonici cartacei, che si ritrova stagista senior a 70 anni dopo aver girato, con non poche difficoltà, un video Youtube, per candidarsi in un'azienda e s'imbatte in un mondo invaso dalla tecnologia, da Instagram a Facebook, dalle nuove generazioni di lavoratori digitali. È proprio l'incontro fra Ben e Jules questi due personaggi così diversi, a creare il fulcro centrale del film. L'intesa tra i due è indiscutibile, è naturale e gli spettatori non si possono che immedesimare in loro.
Punto di forza anche la regia di Nancy Meyers, la regina delle commedie romantiche di Hollywood. Qui la parte comica è più sottotono, ma le scene cult non mancano, come il recupero disperato della mail inviata per sbaglio da Jules a sua madre, una delle scene più movimentate del film. A prevalere è la parte romantica: la storia di Ben durata cinquanta anni e il suo nuovo incontro con la massaggiatrice dell'azienda, Fiona (Rene Russo) e quella opposta della Hathaway che risente della sua mancanza, Jules trascura il marito che fa da madre ai bambini e si occupa della casa e li porta a scuola. Nonostante la durata di 120 minuti (tanto per un film di genere commedia), il film scorre in modo naturale e ti fa passare due ore in allegria e tranquillità, grazie alla storia efficace e alla bravura dei due grandi comprimari.
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In fuga verso la felicità
<<Felice non si dice perché è una parola che immalinconisce>> dice la giovane ma già saggia Betta (Alba Rohrwacher) al fratello Edo (Flavio Parenti). E di felicità in effetti nel film non si parla, anche se essa, o qualcosa di simile ad essa, sfiora in punta di piedi le vite di alcuni degli esponenti della famiglia Recchi, tanto che gli stessi devono stare all’erta, correre dei rischi perché non si defili. Ma non tutti ne sono capaci.
Sotto il cielo di una Milano plumbea e innevata, all’interno della lussuosa residenza della facoltosa famiglia di industriali Recchi, si compie un passaggio di testimone: l’anziano Recchi lascia le redini dell’azienda ai più giovani Tancredi (Pippo Delbono) ed Edoardo ( F.Parenti), rispettivamente il figlio ed il nipote. Cambiamento questo che determina squilibri all’interno della famiglia. Tancredi è fuori per molto tempo per occuparsi degli affari aziendali e la moglie, l’algida Emma (T. Swinton), finisce per incontrare Antonio (E. Gabriellini), un giovane cuoco, amico del figlio Edo. Di qui, il tradimento e l’inizio di una relazione clandestina.
Io sono l’amore (2010), film drammatico per la regia di L. Guadagnino, ritrarrebbe una storia trita e ritrita se ci fermassimo a questo punto. L ‘elemento insolito che lega la fascinosa Emma al giovane cuoco toscano è la cucina. I piatti, ( tutti realizzati dallo chef C. Cracco) che vengono gustati con voluttà dalla raffinata signora, ne esaltano i sensi anestetizzati dal grigiore del tran tran quotidiano, conducendola verso una dimensione quasi epifanica. Il regista è bravissimo a mostrarcelo, illuminando la donna con un fascio di luce che la isola dalle altre due commensali, durante una cena. Emma riconosce di avere una sintonia perfetta che la lega al cuoco: entrambi amano la cucina e con essa, la vita. Lei, russa che <<aveva dovuto imparare a essere italiana>>, aveva trovato nei piatti della tradizione della propria terra la consolazione alla nostalgia. Il cibo può -a chi glielo permette ed ha la giusta sensibilità- toccare le corde più nascoste dell’anima perché legato a ricordi, luoghi, persone. E così accade ad Emma che lentamente si riappropria del suo se più vero.
Agli ambienti ingrigiti, snob e alle affettate cene di famiglia della Milano alto-borghese si sostituiscono, alla metà del film, i luoghi della campagna sanremese che fanno da sfondo bucolico alla passione che divampa tra Emma e Antonio. Molto suggestivi i primi piani alla vegetazione, ai fiori e agli insetti, mentre si compie un intenso amplesso tra i due.
Il ritmo del film generalmente lento, riceve qualche scossone in occasione dell’avvistamento dell’intrigante Antonio per le vie di Sanremo da parte di Emma e a tratti la musica si fa martellante durante una sorta di inseguimento che la donna, irresistibilmente attratta, pur se con qualche attimo di esitazione, conduce all’insaputa dell’uomo.
Se la parte centrale del film privilegia i colori chiari e le atmosfere agresti, verso la fine abbiamo un brusco nonché ciclico ritorno alle atmosfere cupe dell’inizio: un grave lutto colpisce la famiglia e mette alla prova la capacità di rischiare di Emma, che della morte è in buona parte responsabile morale. I dialoghi sono misurati, Guadagnino ha privilegiano la capacità espressiva dei personaggi, soprattutto della protagonista T. Swinton (che ha peraltro ricevuto il Nastro d’Argento 2010) e di Flavio Parenti.
Io sono l’amore è un film che parla di fuga, evasione, risveglio e comprensione umanissima tra figure fuori dagli schemi (Emma e i figli Edo e Betta) che osano infrangere quella patina perfetta ma ingrigita che li intrappola, rendendoli infelici.
Quanto la ricca moglie di un industriale possa essere felice conducendo una vita necessariamente ridimensionata accanto ad un cuoco, questo non lo sappiamo ma nemmeno ci importa. Si tratta sempre di un film sentimentale e come tale vi è un’esemplificazione di alcuni risvolti reali e più materiali. Quello che colpisce la nostra attenzione è invece il tocco raffinato di Guadagnino che fa emergere la forza irriverente del coraggio di una donna che infrange le regole, lasciandosi alle spalle il torpore di una ingessata borghesia tutta apparenze. La fuga finale restituisce per un attimo tensione, ritmo e vitalità anche nella fredda e immobile dimora dei Recchi.
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Giugno 2023
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