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30/8/2020

TENET - La Recensione

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di Matelda Giachi
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Genere: Azione, Fantascienza, Thriller 
Anno: 2020
Durata: 149 min
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Christopher Nolan
Cast: John David Washington, Robert Pattinson, Elizabeth Debicki, Aaron Taylor-Johnson, Clémence Poésy, Michael Caine, Kenneth Branagh, Dimple Kapadia, Himesh Patel, Fiona Dourif, Andrew Howard, Martin DonovanSceneggiatura: Manele Labidi
Fotografia: Hoyte van Hoytema
Montaggio: Jennifer Lame
Musica: Ludwig Goransson
Produzione: Warner Bros. Pictures, Syncopy
Distribuzione: Warner Bros. Pictures
Paese: Gran Bretagna, USA

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​“Posso darti solo una parola: Tenet. Aprirà le porte giuste, e anche alcune sbagliate. Usala con cautela.” Armato di questa sola parola, il Protagonista (John David Washington), un agente di spionaggio internazionale, intraprende una missione che ha come scopo quello di fermare un’imminente terza guerra mondiale e la totale distruzione del pianeta. A rendere le cose complicate, il fatto che la minaccia affonda le sue radici non nel passato… ma nel futuro.
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Una parola d’ordine, una missione. E’ il titolo all’ultimo titanico lavoro di Christopher Nolan e ne riassume l’intera struttura. Un palindromo, quale è Tenet, lo si può leggere in entrambi i versi: avanti e indietro. Questo concetto Nolan lo applica al tempo nella sua pellicola più ambiziosa, in cui passato e presente si srotolano contemporaneamente nel presente dello spettatore. Del resto, Christopher Nolan ha da sempre un’ossessione per il tempo, che in Tenet diventa protagonista e antagonista ancora più di Washington, Pattinson o Branagh.
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​Il regista di Inception e Dunkirk fa quello che gli riesce meglio: prendere un genere affermato di cinema e rileggerlo secondo la propria visione. Ed è così che rivoluziona la spy story più classica, quella in stile Bond, ed i viaggi nel tempo. Più precisamente, in Tenet non si viaggia nel tempo, se ne altera il flusso in un processo che prende il nome di inversione e che, se applicato agli oggetti, è in grado di invertirne l’entropia, in pratica la naturale tendenza di un corpo di evolversi verso uno stato di maggiore equilibrio. Un oggetto invertito tende quindi ad un minore equilibrio ed ha un potenziale effetto distruttivo enorme, con tutte le catastrofiche conseguenze del caso, soprattutto nelle mani di una specie assetata di onnipotenza.
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Tenet è un progetto mastodontico, a tratti presuntuoso, curato in ogni più infimo dettaglio, che per la sua riuscita non si appoggia a facili aiuti di computer grafica, ma alla maestria nell’uso della macchina da presa, e la cui sceneggiatura si basa sul rompicapo più difficile di sempre, scandita da una colonna sonora eccezionale; è Nolan all’ennesima potenza.

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​ La componente di intelligenza è talmente centrale che ne risente la caratterizzazione dei personaggi, poco o per nulla approfonditi, congelati in quell’attimo in cui li sorprendono le riprese, e che tuttavia riescono a reggere il film perché messi nelle mani di attori di calibro eccezionale, tra cui spicca Robert Pattinson. Ancora per molti colpevole di aver usato una saga commerciale come Twilight per farsi aprire le porte di Hollywood, Pattinson forse non ha ancora raggiunto la sua completa maturità attoriale, ma possiede un curriculum degno di nota, fatto di scelte interessanti che rivelano una continua voglia di crescere e mettersi in gioco. La mancata introspezione dei personaggi li fa sembrare asettici e rende Nolan sempre più incriminabile di aridità. Il suo cinema però non è mai stato privo di sentimenti: il regista cervellotico per eccellenza ne fa semplicemente un diverso uso sullo schermo. Non sono qualcosa da esibire, ma sono il motore di ogni azione umana; stanno dietro, non davanti. Caso a parte sono i personaggi femminili, da sempre il cuore pulsante dell’emotività e che, forse per questo, a Nolan risultano sempre più difficili da gestire e raccontare. Fa eccezione la Murphy di Jessica Chastain in Interstellar.
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​Difficile esprimere un giudizio esaustivo su Tenet in una volta. E’ un capolavoro di tecnica che però, a volte, pare incespicare su se stesso; erotismo intellettuale a cui sembra mancare quel refolo di umanità per fare innamorare. O forse ha tutto nascosto e chiede prima di essere capito. L’opera di Nolan ha una complessità tale che avere un quadro completo richiede di essere vista, metabolizzata, rivista e metabolizzata di nuovo. E probabilmente vista ancora una volta per essere, a quel punto, goduta. Quel che è certo è che Tenet è il film giusto per il ritorno al cinema: quel film capace di ricordare allo spettatore cosa vuol dire stare in sala, di dare tutto quello che il divano di casa e lo streaming non potranno mai dare.
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​Voto: 8,5
Con le opportune repliche diventerà un 8? O passerà a 9?

Foto

​Immagini tratte da:

www.imdb.com
www.filmpost.it
www.ilnapolista.it
www.theverge.com

www.gamseradar.it

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23/8/2020

Dal Commissario Rex al ritorno del del cane poliziotto più famoso della Tv con la serie canadese “Hudson&Rex”

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di Vanessa Varini
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Titolo: "Hudson & Rex"
Paese: Canada
Anno: 2019 – 2020
Stagioni: 1 e 2
Totale episodi: 32
Genere: poliziesco
Regia: Felipe Rodriguez, Alison Reid, John Vatcher
Interpreti e personaggi: John Reardon (detective Charlie Hudson); Mayko Nguyen (Sarah Truong); Kevin Hanchard (sovrintendente Joseph Donovan); Justin Kelly (Jesse Mills) ​

Era l'anno 1993 quando venne girata la prima stagione, formata da 14 episodi, della serie austriaca "Il commissario Rex" con protagonista l'ispettore Moser (Tobias Moretti) ed incentrata sulle indagini della squadra omicidi di Vienna e sul bellissimo cane poliziotto di razza pastore tedesco di nome Rex (interpretato da Reginald Von Ravenhorst), che li aiuterà nelle indagini. La serie diventerà un grandissimo successo in tutto il mondo grazie proprio a Rex, il punto di forza del telefilm: un cane molto espressivo ed intelligentissimo che apriva le porte con la maniglia, portava il giornale e il telefono, faceva la spesa e adorava i panini con il wurstel che spesso rubava dal suo collega "umano" Stockinger dopo averlo spaventato.
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In totale verranno realizzate ben dieci stagioni de "Il commissario Rex" e tra i commissari che sostituiranno Moser verrà ricordato soprattutto Brandtner (Gedeon Burkhard) con il cane Rhett Butler, come il protagonista di "Via col vento".
Successivamente venne realizzata "Rex" la serie televisiva poliziesca italiana, girata a Roma, sequel del telefilm austriaco, questa volta con protagonisti l'ispettore Fabbri (interpretato da Kaspar Capparoni) e il pastore tedesco Rex (Henry) che assomigliava molto a Reginald perchè riportava oggetti ed era goloso di panini, con la porchetta di Ariccia però, da buon italiano!
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Durante le otto stagioni l'ispettore e Rex sono stati rimpiazzati per due volte, prima dal commissario Davide Rivera interpretato da Ettore Bassi con il cane Nick e poi da Marco Terzani interpretato da Francesco Arca con Achi per la regia dei Manetti Bros.
Oggi dopo l'edizione austriaca e quella italiana è stata realizzata la versione canadese intitolata "Hudson & Rex", andata in onda la prima volta in Italia su Rai3 dal 4 agosto 2019 e ora in onda il giovedì con la seconda stagione iniziata il 13 agosto sempre su Rai3 alle 21:20 con protagonista Diesel vom Burgimwald, il quindicesimo discendente del cane che interpretava Rex nella serie austriaca e come controfigure sono stati scelti i nipoti dello stesso Diesel.
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l protagonista della serie è Charlie Hudson (John Reardon) un detective della polizia criminale del dipartimento di Saint John's in Canada, che lavora con il cane poliziotto Rex dopo averlo salvato dalla soppressione (infatti il pastore tedesco è rimasto orfano del suo precedente proprietario). Durante le varie indagini i due collaboreranno con il sovrintendente Joseph Donovan, il capo della polizia scientifica Sarah Truong e l' informatico Jesse Mills, ma indispensabile per risolvere i casi sarà soprattutto l'aiuto e il fiuto di Rex.
La serie è all'altezza di quella originale? Quella austriaca rimane insuperabile anche perchè qui il cane è meno valorizzato dell’altro Rex (prevale soprattutto il protagonista "umano" e il resto del cast) e tra Charlie e Rex non c'è un grandissimo affiatamento. Però è una bella serie crime ideale da guardare in queste calde serate estive, gli attori sono bravi e anche il protagonista canino, Diesel, è convincente nel ruolo dell'iconico cane poliziotto anche se nessuno batte per espressività e intuito Reginald, il primo indimenticabile Rex.

Dal 24 agosto su Rai 3, dal lunedì al venerdì alle 15:05, invece, vanno in onda le repliche della seconda stagione della serie "Il commissario Rex" con Moser.

Immagini tratte da:
​https://api.superguidatv.it/
https://www.viaggio-in-austria.it/
https://www.lanostratv.it/
http://dramaquarterly.com/

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23/8/2020

The Umbrella Academy (stagione 2)

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Di Federica Gaspari
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Paese: Stati Uniti
Anno: 2020
Genere: commedia nera, drammatico, fantascienza, supereroi
Stagione: 2
Episodi: 10
Durata: 40-60 min
Ideatore: Steve Blackman
Regia: Sylvain White, Stephen Surjik, Tom Verica, Ellen Kuras, Amanda Marsalis, Jeremy Webb
Cast: Ellen Page, Tom Hopper, David Castaneda, Emmy Raver-Lampman, Robert Sheehan, Aidan Gallagher


In un periodo in cui le distanze tra piccolo e grande schermo sono più vicini che mai, Netflix continua a schierare nuovi prodotti sul mercato dell’intrattenimento, prediligendo in generale la produzione di serie dedicate a un pubblico senza pretese che sceglie di essere rassicurato piuttosto che stimolato. Negli ultimi anni, infatti, pochi show che portano la firma di questo colosso hanno saputo lasciare davvero il segno, sconvolgendo aspettative e proponendo una vera e valida alternativa all’offerta di massa. Difficilmente si potrebbe ottenere – o anche semplicemente chiedere - una risposta di questo tipo dalla seconda stagione di una serie che, tiepidamente, aveva registrato un debutto mediocre nonostante le grandissime aspettative. Lo scorso 31 luglio, tuttavia, The Umbrella Academy è tornata prepotentemente in scena con i nuovi episodi della sua ottima seconda stagione in grado di rilanciare con grande efficacia lo show.
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Le dieci nuove puntate del secondo ciclo narrativo della serie ispirata ai fumetti di Gerard Way e Gabriel Ba cambiano pedine e tabellone, dettando nuove regole dei giochi. L’apocalittico epilogo della prima stagione, infatti, diventa l’occasione perfetta per provare a immaginare interazioni e sviluppi alternativi tra i personaggi. I fratelli Hargreeves vengono letteralmente catapultati negli anni Sessanta a causa di un viaggio nel tempo di Numero Cinque (Aidan Gallagher) finito male. Anche l’anno di destinazione, però, riserva non pochi problemi allo strampalato gruppo di protagonisti con poteri straordinari: paradossi temporali e incontri ravvicinati inaspettati potrebbero essere cruciali per la riuscita di una missione che, ancora una volta, dovrà impedire l’Apocalisse.
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L’ideatore e showrunner della serie Steve Blackman ha imparato molto dagli errori commessi nel corso della prima stagione. I nuovi episodi rivoluzionano totalmente la struttura del racconto, separando i componenti del gruppo di protagonisti riuscendo a dare finalmente profondità a ognuno di loro. Scegliendo una narrazione inizialmente episodica – legata comunque saldamente da un efficace fil rouge – le caratteristiche dei singoli personaggi vengono valorizzate e addirittura esaltate dall’intreccio di queste con il contesto storico: il percorso dell’eccentrico Klaus (Robert Sheehan) diventa l’occasione per parlare dei movimenti hippy pacifisti degli anni 60 mentre la nuova vita “sotto copertura” di Allison (Emmy Raver-Lampman) porta alla luce dinamiche e necessità delle lotte per i diritti della comunità afroamericana. I temi trattati e le voci dei singoli diventano quindi elementi essenziali per un’ossatura seriale che si scopre più solida e convincente anche nell’intrattenimento segnato da toni più astutamente irriverenti sulla scia dell’insegnamento dello strepitoso fenomeno The Boys.
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Le note di una selezione musicale estremamente curata, variegata e mai casuale che spazia dai KISS ai Boney M. detta ritmi e cambi di scena fortemente dinamici in cui la ricerca del significato di famiglia, tra incomprensioni, rancori e rimorsi, diventa filo conduttore. Il legame tra i vari personaggi, infatti, trova finalmente consistenza tramite i loro ricongiungimenti mai banali o scontati. Diventa allora esemplare sotto questo punto di vista la scena nel salone di bellezza con Allison, Klaus e Vanya (Ellen Page): da questa semplice sequenza si intuisce l’incredibile lavoro – riuscito! – svolto per i nuovi episodi.

Irresistibile, frizzante e finalmente fresca, la seconda stagione di The Umbrella Academy è pronta a conquistare anche chi, dopo i primi episodi, si è dimostrato scettico nei suoi confronti.

Immagini tratte da:
www.netflix.com

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16/8/2020

Locarno 2020 – Premi e sfide per il futuro

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Di Federica Gaspari
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Nel vivo di un periodo di incertezze, inquietudini e difficoltà, il cinema non ha semplicemente bisogno di reinventarsi: ne ha il dovere. Nel contesto di un’emergenza globale, il Locarno Film Festival tiene fede alla sua missione e alla sua storia mettendosi in discussione e rivolgendo lo sguardo al futuro con speranza ma anche autocritica. In occasione di una speciale quanto insolita edizione datata 2020, la kermesse cinematografica, che annualmente dal 1946 prende vita sulle rive svizzere del Lago Maggiore, dimostra ancora una volta di essere una voce autorevole con un respiro internazionale sul palcoscenico europeo rispondendo a una crisi – dell’industria della settima arte e non solo - con un programma artistico fuori da schemi e strutture tradizionali, visionario e coraggioso nell’offerta e nei veicoli anche senza accendere i riflettori sulle sue celebri proiezioni in Piazza Grande.
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Coniugando la riscoperta dei grandi titoli vincitori della sua storia con un forte slancio vero nuove prospettive, Locarno si riscopre multiforme ed eclettico trovando un legame tra pubblico in sala – con proiezioni in cinema selezionati – e online, azzerando distanze e distinzioni tra pubblico e industria con For the Future of Film. In un’edizione votata alla sperimentazione, il festival premia voci femminili forgiate da contaminazioni culturali e politiche. Nella selezione internazionale di The Films After Tomorrow trionfa Chocobar di Lucrecia Martel, documentario che celebra lotte e idee di un’intera comunità tramandate di generazione in generazione in America Latina. Il Pardo 2020 della sezione elvetica, invece, è stato assegnato a Mari Alessandrini per il suo Zahorì, racconto di formazione parzialmente autobiografico.

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La necessità di trovare nuove ragioni e punti di vista, tuttavia, ha posto un fortissimo accento soprattutto sui corti inclusi nella selezione dei Pardi di Domani, vero cuore pulsante di questa edizione dedicata ai protagonisti del futuro. Il Pardino d’Oro internazionale finisce tra le mani di Daroul Olu Kae per il suo I ran from and was still in it che attinge all’esperienza in prima persona per realizzare un ritratto solida ma non troppo sorprendente delle emozioni umane. La vera sorpresa, genuina quanto efficace nella sua semplicità, è tuttavia History of Civilization della regista kazaka, un corto lineare e disilluso che racconta e cattura gli attimi vissuti da una ragazza prima del trasferimento all’estero per inseguire i suoi sogni. Prima di chiudere la sua valigia di ambizioni e aspettative, la protagonista potrà assaporare ricordi mai vissuti e occasioni mai colte, comprendendo solo attraverso queste ultime estemporanee esperienze lo spirito di un luogo e, forse, di un’intera comunità. Questo sguardo riesce, accompagnato da inquadrature misurate e da una fotografia agrodolce, a essere così anche estremamente politico.

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​Anche l’altro grande titolo della sezione internazionale riflette su un momento di passaggio, su un periodo cruciale per cambiare il proprio destino. Icemeltland Park, il documentario di Liliana Colombo, non lascia scampo e pone lo spettatore davanti a uno scenario critico, in cui il tempo per decisioni e cambiamenti è tragicamente agli sgoccioli. Combinando documentazioni video amatoriali con immagini satellitari della NASA, questo mediometraggio spietato quanto solido mostra tutta l’incapacità dell’uomo nel riconoscere e affrontare le conseguenze dei propri abusi nei confronti dell’ambiente e della natura. Risate folli, agghiaccianti applausi e grida di gaio stupore accompagnano una narrazione venata da un humour nerissimo che immagina un viaggio che mostra lo scioglimento dei ghiacciai e lo sfruttamento del suolo e delle risorse come surreali attrazioni di un macabro parco divertimenti animato da spettatori inadeguati e irresponsabili, totalmente inetti. Impossibile non sentirsi in colpa davanti a uno sguardo tagliente come questo.

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Infine, è impossibile non menzionare l’ottimo People on Saturday di Jonas Ulrich, vincitore del Pardino d’Oro svizzero. Attraverso quadri di vita quotidiana animati da vivaci piccoli e grandi problemi di sempre, il regista di Zurigo riesce a catturare emozioni e sorprese di una giornata qualsiasi popolata e definita da ogni personaggio – reale – e dalle sue semplici interazioni. Ponendo così l’accento sul ruolo delle sfide su più livelli del singolo e dell’intera comunità, l’edizione 2020 del Locarno Film Festival.
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​Immagini tratte da:
www.locarnofestival.ch
www.variety.com

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9/8/2020

Fear City: New York contro la mafia

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di Salvatore Amoroso
La nuova docu-serie in tre parti di Netflix, Fear City, è stata descritta come la versione reale di «The Wire». Ecco la nostra recensione.
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Genere: Documentario                         
Anno: 2020
Regia: Sam Hobkinson
Fotografia: Tim Cragg
Musiche: Paul Moessi
Montaggio: Raw Television
Distribuzione: Netflix

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New York, anni ottanta: la metropoli americana, cuore pulsante della East Coast e degli interi Stati Uniti, è in mano alla criminalità organizzata, che la tiene in pugno in un clima di violenza: la Fun City è diventata Fear City. La Mafia si divide in cinque famiglie, tutte di origine italiana: Bonanno, Colombo, Gambino, Genovese e Lucchese; i clan, storicamente spesso in guerra tra di loro, sembrano ora collaborare, andando a creare un’enorme struttura criminale che, partendo dalle tradizionali attività illegali di spaccio, prostituzione e racketing, arriva fino all’infiltrazione in business milionari, che spaziano in ogni aspetto dell’economia. Fear City: New York vs The Mafia, nuova miniserie Netflix in tre episodi diretta da Sam Hobkinson, racconta questo periodo dal punto di vista delle forze dell’ordine, ricostruendo il gigantesco lavoro di indagine, e il successivo processo, che porteranno all’arresto di numerosi tra i membri più importanti della mafia newyorchese, ridimensionandone notevolmente il potere, e alla rivoluzione nei metodi di accusa contro la criminalità organizzata. Il documentario è composto da interviste a figure coinvolte nella vicenda, includendo forze dell’ordine ed ex criminali, immagini e video d’archivio, registrazioni e documenti dell’indagine e ricostruzioni di alcuni momenti salienti. 
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Il tema trattato non può che portare a mente i film di Scorsese, e in generale il cinema di gangsters che ha portato alla fama, spesso romanticizzandoli, i cosiddetti wiseguys, e ascoltando le intercettazioni di numerosi criminali dell’epoca è impressionante sentire la similitudine di linguaggio e atteggiamento col Joe Pesci di Goodfellas. Fear City punta però ad approfondire invece l’altra faccia della medaglia decisamente meno glamour, inquadrando il complesso lavoro di investigazione in una piuttosto classica cornice da documentario true crime, affidandosi nei momenti più cinematografici a uno stile che si rifà di più a Mindhunter, con la sua estetica di registratori a nastro, bui uffici dell’FBI e colonna sonora anni ’70.
Le forze dell’ordine, divise e disorganizzate, si trovavano incapaci di confrontarsi con una criminalità estremamente organizzata e gerarchizzata, riuscendo ad effettuare arresti solamente nei confronti dei soldati, i sostituibili, il livello più basso delle famiglie, arrivando raramente a intaccare i capitani e soprattutto i boss e i loro vice. La rivoluzione arriverà con l’applicazione del Racketeer Influenced and Corrupt Organizations (RICO) Act, legge federale scritta dieci anni prima da G. Robert Blakey, professore della Cornell University che appare tra gli intervistati, senza però essere stata ancora compresa e utilizzata. La legge RICO permette l’incriminazione di un’intera organizzazione criminale per i reati commessi da singoli elementi della stessa, a patto che sia dimostrabile l’effettivo collegamento tra i vari membri delle famiglie.
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Buona parte della serie si concentra quindi sul monumentale lavoro di raccolta prove e, dato il clima di omertà che rendeva insufficiente il numero di informatori, questo venne effettuato principalmente mediante intercettazioni, installando cimici in case, automobili e ritrovi dei criminali. Le spiegazioni e ricostruzioni di questo pericoloso e delicato lavoro sono tra i momenti più affascinanti, con operazioni che, tra finti tecnici telefonici e pedinamenti su furgoncini dai vetri oscurati, mostrano la verità dietro i classici delle spy stories. La parte più sconvolgente rimane però il quadro che lentamente emerge dall’ascolto di questi chilometri di nastri: le Five Families, mediante l’infiltrazione e il controllo di numerosi sindacati, sono coinvolti in ogni aspetto dell’economia, stabilendo i prezzi e prendendo larghe percentuali nei trasporti, nei porti e soprattutto nell’edilizia, effettuando affari milionari nel boom edilizio anni Ottanta. La chiave di tutto sarà la conferma dell’esistenza della Commissione, un vero e proprio consiglio dei boss esistente dai tempi di Lucky Luciano, che permetterà di dimostrare il collegamento tra i vari membri delle cinque famiglie e portarle a processo.
Fear City: New York vs The Mafia, nonostante qualche passo falso nelle ricostruzioni e nello stile, che potrebbero far pensare al true crime più dedito alla spettacolarizzazione, è un prodotto interessante e ben realizzato, che racconta la realtà di un momento storico che conosciamo principalmente attraverso lo sguardo più o meno romantico del cinema, sostituendo gli wiseguys di Scorsese con il punto di vista delle forze dell’ordine e del loro straordinario lavoro, legislativo e di indagine.
Immagini tratte da:
Locandina: Radio Times.com
Immagine1: GQ Italia.it
Immagine2: Imdb.com
Immagine3: LastMovieOutpost.com

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9/8/2020

Black Is King

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Di Federica Gaspari
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Data di uscita: 31 luglio 2020
Genere: musicale
Anno: 2020
Regia: Beyoncé Knowles-Carter, Kwasi Fordjour, Emmanuel Adjei, Blitz Bazawule, Ibra Ake, Jenn Nkiru, Jake Nava, Pierre Debusschere, Dikayl Rimmasch
Attori principali: Beyoncé Knowles-Carter, Folajomi Akinmurele, Connie Chiume, Nyaniso Ntsikelelo Dzedze, Nandi Madida, Warren Masemola, Sibusiso Mbeje, Fumi Odeje, Stephen Ojo, Mary Twala
Sceneggiatura: Beyoncé Knowles-Carter, Yrsa Daley-Ward, Clover Hope, Andrew Morrow
Montaggio: Andrew Morrow, Maria-Celeste Garrahan, Haines Hall, Tom Watson
Musiche: James William Blades, MeLo-X, Derek Dixie
Produzione: Walt Disney Pictures, Parkwood Entertainment
Distribuzione: Disney+
Paese: Stati Uniti d’America
Durata: 85 min

Le incursioni delle grandi star della musica nel mondo della settima arte hanno sempre avuto alterne fortune. Nel caso di Beyoncé si può difficilmente affermare che le esperienze cinematografiche sul grande schermo che l’hanno vista protagonista siano state convincenti o anche solo soddisfacenti. L’unica vera prova memorabile della sua filmografia degli anni Dieci è probabilmente Dreamgirls, celebrazione agrodolce del mito delle The Supremes e della Motown degna di nota soprattutto per un brano iconico come Listen, ingiustamente ignorato agli Oscar 2007. In più di due decenni di successi tra le note e le più prestigiose classifiche internazionali, tuttavia, Beyoncé ha saputo non solo trovare il suo posto nello scenario artistico attuale ma creare un suo ruolo autentico ed esclusivo. La rinascita segnata dalla pubblicazione dall’album Lemonade nel 2016 ha definitivamente consacrato la figura della cantautrice come un’artista a tutto tondo, in grado di aver pieno controllo – quasi maniacale - dei suoi progetti come pochi altri sulla scena internazionale.
 
La fase più recente della sua carriera è allora segnata da scelte inaspettate ma mai azzardate con cui la cantante ha saputo mettersi in gioco anche sul piccolo schermo. L’uscita dello stesso visual album di Lemonade è stata accompagnata dall’omonimo mediometraggio su HBO con la collaborazione anche della regista Melina Matsoukas (Queen & Slim). Risale solo all’anno scorso, invece, il documentario musical Homecoming realizzato con la produzione di Netflix, in cui Beyoncé si mette totalmente a nudo, mostrando forse per la prima volta senza timori la sua natura più umana in netto contrasto con la figura quasi divinizzata affidatale dai fan. Nello stesso anno, inoltre, collabora alla colonna sonora e al doppiaggio del remake live-action de Il re leone.
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Da quest’ultima esperienza e dall’album The Lion King: The Gift nasce il progetto video-musicale di Black is King che il 31 luglio scorso ha fatto il suo debutto in esclusiva mondiale sulla piattaforma di Disney+ - solo negli stati africani il film è stato trasmesso gratuitamente su alcune reti locali. Il contesto e le motivazioni di questo ultimo lavoro sono inscindibili da quanto realizzato negli ultimi anni da Beyoncé, costantemente alla ricerca di un approccio quasi multisensoriale nei confronti delle sue ispirazioni. Considerare questo visual album come un vuoto e furbo manifesto di attivismo afro, come sostenuto da molti detrattori del progetto, significa non riuscire a vedere l’immaginario artistico e culturale in cui si inserisce questo esperimento su più livelli, soprattutto coronando la maturità di una carriera che continua a reinventarsi. Rielaborando la classica storia de Il re leone e cantando l’orgoglio – sì, afro – della riscoperta culturale delle proprie origini, Black Is King diventa una narrazione audace e provocatoria che va oltre classici schemi, incespicando talvolta in peculiari vezzi autoreferenziali ma procedendo su un percorso ben chiaro che celebra la cultura black in ogni sua sfaccettatura artistica – non a caso sono presenti camei di illustri personaggi di cinema, teatro e molti altri settori – con coreografie e effetti visivi spettacolari ma conduce a un nuovo inizio che è una lettera d’amore per le nuove generazioni.
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La voce narrante, quella della cantante e di tutti i suoi collaboratori in questo progetto, non si erge mai a verità assoluta né a esempio. Beyoncé non mette in scena un “razzismo inverso” bensì, a dispetto del titolo, parte da un concetto radicale, quasi senza sfumature, per raccontare la storia di una comunità ancora più estesa di quella afroamericana in cui i concetti di eredità e incontro tra diverse culture fungono da motore per scoprire, anche attraverso difficoltà ed errori, se stessi e il propri ruolo nel mondo. Difficile, quindi, da ammettere ma uno spettacolo di questo tipo – apprezzabile o no – poteva essere realizzato solo da poche persone.
  
Immagini tratte da:
https://www.disneyplus.com/

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2/8/2020

Recensione dei primi episodi della serie TV "Bodyguard"

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di Vanessa Varini
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Titolo: "Bodyguard" 
Paese: Regno Unito 
Anno: 2018 
Genere: drammatico, thriller, politico 
Stagioni: 1 
Episodi: 6
Durata: 56-75 min (episodio) 
Ideatore: Jed Mercurio 
Regia: Thomas Vincent, John Strickland 
Interpreti e personaggi: Richard Madden (Sergente David Budd); Keeley Hawes (Onorevole Julia Montague); Gina McKee (Comandante Anne Sampson); Sophie Rundle (Vicky Budd); Paul Ready (Rob MacDonald); Vincent Franklin (Mike Travis); Stephanie Hyam (Chanel Dyson); Anjli Mohindra (Nadia Ali)

Dave (Richard Madden, Rob Stark in  "Il trono di spade") é un veterano di guerra, che dopo aver combattuto in prima linea tra Afghanistan e Iraq, una volta tornato nel Regno Unito sventa un attacco terroristico su un treno. Per il suo eroico gesto viene promosso a capo della sicurezza di Julia Montague (Keeley Hawes, Louisa in "I Durrell - La mia famiglia e altri animali" ) il Ministro degli Interni, una donna ambiziosa e determinata la quale ha posizioni politiche opposte a quelle dell'ex soldato ed è favorevole alla guerra in Medio Oriente. Tra due si creerà un rapporto intenso ostacolato però da complotti (forse Dave non è così "buono" come appare), attentati e dal disturbo post traumatico di cui soffre l'uomo. 
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"Bodyguard" è stata la serie più vista negli ultimi 10 anni in Inghilterra con picchi di dieci milioni di spettatori, l'affascinante attore scozzese Richard Madden per il ruolo del protagonista David Budd ha vinto il prestigioso premio Golden Globe...
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Ma dopo la visione dei primi 4 episodi della serie firmata Netflix che è stata trasmessa in chiaro su Raitre lunedì 27 e martedì 28 luglio, mentre gli ultimi due andranno in onda lunedì 3 agosto alle 21:20 sempre su Raitre, il motivo di tutto questo successo rimane un grande mistero. Infatti la serie non ha spettacolari colpi di scena, c'è poca azione tranne quando un'attentatrice suicida vuole far saltare il treno dove viaggia Dave insieme ai suoi figli e c'è troppo spionaggio e politica. Gli attori poi sono abbastanza bravi, ma le loro interpretazioni non sono eccellenti, Richard Madden era più espressivo nei panni di Cosimo de' Medici nella serie Tv "I Medici", qui ha sempre la fronte corrucciata e la storia ha troppe assonanze con il celebre film del 1992  "Guardia del corpo" ("The Bodyguard") con Kevin Costner che interpretava un ex agente della CIA incaricato di proteggere la bella rockstar e attrice Rachel Marron (l'indimenticabile Whitney Houston) di cui s'innamorava. Infatti anche nella serie qualcuno vuole uccidere Julia Montague e tra lei e Dave nascerà una relazione impossibile.
Chissà se il finale della serie riscatterà "Bodyguard"... Speriamo di sì! 
Immagini tratte:
https://mr.comingsoon.it/
https://www.tuttalativu.it/
https://images.mid-day.com/

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