La pellicola d’esordio scritta e diretta da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro è in sala dal 6 Ottobre e sta riscuotendo un successo di critica e pubblico sorprendente.
Mike è un soldato americano che sta dando il suo contributo in Afghanistan. Un giorno di rientro al campo base da una delle tante missioni quotidiane, attraversa, insieme a un altro collega, un tragitto impervio e molto pericoloso in mezzo al deserto e senza rendersene conto, i due malcapitati finiscono in mezzo a un campo minato.
Il cecchino accidentalmente mette il piede su di una mina antiuomo e in quel preciso istante per il nostro protagonista inizia un incubo inimmaginabile. Il soldato è pienamente cosciente che se alzerà il piede finirà per esplodere. Ripercorrerà tutti i momenti più importanti della sua vita e si troverà a combattere un nuovo nemico per riuscire a sopravvivere, ovvero se stesso. Pellicola di produzione americana ma scritta e diretta dai due talentuosi registi italiani Fabio Guaglione e Fabio Resinaro. I due autori gestiscono alla grande un thriller psicologico che tiene lo spettatore col fiato sospeso fino alla fine.
Durante i 106 minuti di durata del film possiamo renderci conto che Mine non è solo la storia di uno sfortunato soldato che è incappato su un ordigno esplosivo, è la storia di un uomo buono che ha rigato dritto per tutta la sua vita e adesso deve fare i conti con la paura di morire, la paura di perdere tutto quello per cui ha tanto lottato. Il terrore s’impadronisce lentamente del nostro protagonista fino a metterlo in ginocchio e qui lo spettatore può percepire tutte le debolezze dell’animo umano. Bravissimi i due italiani a cucire un ruolo ben definito e studiato all’attore statunitense Armie Hammer (The Lone Ranger, The Social Network), solido e dannatamente convincente nel ruolo del soldato che dovrà vedersela contro tutte le minacce che il nefasto deserto gli riserva. É semplicemente da ammirare il lavoro condotto dai registi, dirigono il film in maniera magistrale e giocano con le emozioni dello spettatore come se fossero due veterani del genere.
La fotografia è ben curata e grazie agli splendidi scenari che il deserto iberico gli offre, ci regalano scorci e inquadrature stupende. Ovviamente a monopolizzare la scena e l’attore protagonista, che ci regala una performance emozionante, che rende perfettamente l’idea dello stress psicologico che sta provando, facendoci capire facilmente che la vera guerra si combatte dentro la sua testa. Ancora una volta il cinema italiano dimostra che può risorgere dalla sue ceneri, grazie al talento delle nostre giovani e rivoluzionarie penne. Se il film regge alla grande è perché dietro c’è un’ottima sceneggiatura, alcuni dialoghi sono così veri che te li porti fuori dalla sala e hanno la grande caratteristica, cosa non banale visti i tempi che corrono, di farti riflettere su alcune scelte dell’uomo odierno. La nuova generazione di registi italiani, che abbiamo ammirato con Lo Chiamavano Jeeg Robot, Veloce Come il Vento o il recente Indivisibili continua a sorprenderci. Grazie al loro variegato background il duo confeziona un prodotto di alto livello artistico e assolutamente originale, privo dei rigidi dogmi che il cinema nazionale a volte impone.
Fabio&Fabio hanno centrato in pieno l’obbiettivo e sono stati in grado di dare una dimensione internazionale al nostro cinema e per questo noi li ringraziamo calorosamente. Non mi resta che consigliarvi di catapultarvi alla svelta in sala per farvi trasportare dal turbinio di emozioni di Mine, la prima super opera di questi due ragazzi che sono sicuro faranno tanta strada. Vi do appuntamento alla prossima settimana e come sempre BUON CINEMA a tutti.
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Pericle (Riccardo Scamarcio) è un duro. Ce lo dice lui stesso, presentandosi in prima persona con un marcato accento napoletano. Lavora per conto di don Luigi Pizza, camorrista in Belgio. Il suo compito è quello di “fare il culo alla gente”, sodomizzando i pizzaioli che non vogliono cedere le proprie pizzerie alla camorra. È un uomo di 35 anni, la cui schiena tatuata è attraversata da una vistosa linea verticale, spessa e retta. Alle attività che svolge per conto della malavita, affianca quella di attore per film porno. Una vita allo sbando: sesso, violenza, droga. Eppure c’è qualcosa per cui ancora conserva una qualche forma di sensibilità: il ricordo della madre, morta quando era piccolo. L’avere quasi ucciso una donna legata al mondo della criminalità organizzata, innesca una serie di situazioni per cui il giovane dovrà fare i conti col proprio passato, avvolto nel mistero.
Pericle il nero di Stefano Mordini è stato presentato al Festival di Cannes 2016 nella sezione Un Certain Regard. Ispirato al romanzo omonimo del 1993 di Luigi Ferrandino (accolto dapprima tiepidamente nell’edizione Granata Press, poi ripubblicato nel ’98 da Adelphi con maggiore risonanza di pubblico), non ne conserva però le ambientazioni: la vicenda che nel libro si svolge tra Napoli e Pescara ha come sfondo, nella pellicola, le città di Bruxelles e Calais. Un’esistenza, quella di Pericle, che lo ha inevitabilmente indurito. Droghe chimiche per acquisire buon umore e volontà e un’obbedienza totale a don Luigi, colui il quale gli ha insegnato il mestiere e alla cui famiglia sente di appartenere. La vita di Pericle scorre monotona e solitaria fino a quando, all’interno di una chiesa, colpisce Signorinella, sorella del boss don Gualtiero, credendo di averla uccisa. Pericle è in pericolo e dopo avere rischiato di essere ucciso da due killer, lascia Bruxelles a bordo di un furgoncino, nel cuore di una fredda notte belga. Perché scappare? Pericle è stanco di vivere e pensa che forse è meglio farsi ammazzare. Eppure, nonostante i pensieri che la sua voce provata esplicita, l’asfalto scorre veloce sotto le ruote allontanandolo da un’esistenza arida e fredda, come i colori della campagna che ormai gli sono alle spalle. Ora è a Calais. Un incontro fortuito gli permette di sperimentare quella normalità su cui aveva spesso fantasticato. Anastasia, una giovane donna madre di due figli, lo accoglie in casa. C’è qualcosa per cui continuare a vivere. Pericle riesce a mettere da parte l’aggressività e la violenza, cercando di intessere un rapporto sano con la donna, sola come lui, ed i suoi figli.
L’esperienza a Calais si interrompe bruscamente. Pericle, dopo aver rischiato nuovamente di essere ucciso, decide di tornare a Bruxelles per sistemare i conti con don Luigi, responsabile del suo tentato omicidio. Verrà a conoscenza di due versioni divergenti circa la morte del padre. Deciderà, dopo alterne vicende, di abbandonare il boss e di tornare dalla donna che ama.
Il film, dalle atmosfere noir e malinconiche, è il racconto di un itinerario di emancipazione che conduce da un lato alla consapevolezza delle proprie origini, dall’altro allo sgretolarsi delle convinzioni circa affetti ritenuti erroneamente tali da un uomo che, solo, si è aggrappato con disperazione al peggiore carnefice, abbandonandosi riconoscente ad una sudditanza senza dignità.
Il dispiegarsi di una nuova visione della realtà e di una diversa identità permette di imboccare la strada per Calais e, forse, di iniziare una nuova vita, quella che il Pericle dei sentimenti taciuti e del bisogno di amore, da sempre aspettava.
Un film dai toni forti e dalle scene crude che tuttavia non abbondano. A prevalere sono i toni malinconici, anche nei momenti che preannunciano ad un turning point, come quando Pericle incontra Anastasia. Il porto di Calais, col mare agitato, accoglie infatti le lacrime del giovane, solo al mondo e senza alcuna sicurezza. La pellicola evita un troppo banale happy ending, considerando peraltro come sia difficile nella realtà fuoriuscire dalle dipendenze e dell’orizzonte della criminalità organizzata. Ci lascia però con l’immagine di uno Scamarcio che sorride –per la prima volta nella pellicola- con il volto illuminato dalla speranza di poter cambiare.
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Il 17 e il 18 ottobre andranno in onda le prime due puntate della serie tv "I Medici" con Richard Madden, star de "Il Trono di Spade" e un grandissimo divo di Hollywood, Dustin Hoffman. La serie tv, in otto puntate da un'ora (quindi quattro serate), racconta le vicende della famiglia Medici tra il XV e il XVIII secolo, narrando come Firenze raggiunse il suo splendore Rinascimentale grazie a Lorenzo (Stuart Manning) e suo fratello Cosimo (Richard Madden) dopo l’assassinio del padre Giovanni de’Medici (interpretato da Dustin Hoffman).
Ucciso in modo misterioso a distanza di vent’anni dalla stipulazione di un accordo con il Papato (da lì sfoceranno intrighi e gialli a non finire) lascia ai figli una delle banche più potenti che aveva creato, nonostante fosse figlio di un mercante di lana. Da quel giorno i fratelli, nonostante le invidie e i nemici che li circondano, cercheranno di far fiorire Firenze da un punto di vista artistico (arricchendo l'architettura fiorentina con Donatello e Brunelleschi) e politico. Nella serie vengono anche narrate le storie d'amore di Cosimo, il quale benché sposato con la Contessina De Bardi (Annabel Sholey), avrà come amante la schiava Maddalena (Sarah Felberbaum). Pregio di questa serie è la coproduzione internazionale: sono stati spesi 25 milioni di euro tra l’italiana Lux Vide di Luca e Matilde Bernabei e la Big Light Productions di Frank Spotnitz, in collaborazione con Rai Fiction. Nel cast anche tanti attori italiani: Fortunato Cerlino, Miriam Leone, Guido Caprino, Valentina Bellè, Alessandro Sperduti, Tommaso Ragno, Eugenio Franceschini, Alessandro Preziosi e Valentina Carnelutti. Non dimentichiamoci l'investimento sulla bellezza e sulle risorse dell’Italia, un altro vantaggio della serie: è infatti girata nei luoghi dove vissero realmente i Medici, a Firenze, città della quale vengono mostrati i monumenti caratteristici. Altre location in cui è stata girata la serie sono Bracciano, Montepulciano, Pienza e Formello. La regia è affidata a Sergio Mimica-Gezzan, assistente regista di Steven Spielberg in molti suoi successi, come "Jurassic Park", "Minority Report" e "Prova a prendermi". Altri pregi la produzione, le scenografie e i costumi del noto atelier Tirelli, tutti orgogliosamente italiani dunque e indossati con eleganza dall'attrice inglese Annabel Scholey (Contessina, moglie di Cosimo) e dall’italiana Sarah Felberbaum (la schiava amante di Cosimo). Se aggiungiamo il tocco contemporaneo dato dalla sigla di apertura e chiusura intitolata "Renaissance", brano composto da Paolo Buonvin e cantato da Skin, icona della musica Rock, la serie "I Medici" diventa improvvisamente moderna. Non perdetevi poi il videoclip, diretto da Cosimo Alemà e prodotto da Lux Vide, è un ideale viaggio della cantante attraverso i luoghi della serie, ormai vuoti e abbandonati ma sempre caratteristici. Sintonizzatevi tutti con il telecomando per non perdere la serie.
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Al cinema dal 29 Settembre l’ultima fatica dell’instancabile Woody, una storia d’amore anni 30’ molto malinconica ambientata tra la nevrotica New York e la scanzonata California.
Anni 30’, New York, la città preferita del maestro, il giovane Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) rampollo di una famiglia ebrea che ama molto la "vita facile", decide di non seguire le orme del burbero padre e si trasferisce dallo zio Phil (Steve Carrell) indaffarato produttore e agente nel mondo del cinema, a Los Angeles.
Qui sotto il sole della Città degli Angeli conoscerà la gioia e la bellezza della "cafè society", ovvero il mondo glamour e sofisticato popolato da intellettuali e artisti. Il timido Bobby affascinato da questo nuovo modo di vivere conoscerà ben presto pure l’amore, sarà decisivo infatti l’incontro con la segretaria dello zio, la bella Vonnie (Kristen Stewart) che non ha solo rapito il cuore dell’impacciato giovanotto ma anche quello dello zio. I due giovani iniziano a frequentarsi e a uscire sempre più spesso, ma proprio quando Bobby decide di rivelare i suoi sentimenti alla ragazza dei suoi sogni, quest’ultima lo respinge, preferendo all’umile giovane la sicurezza economica e il potere di Phil.
I due si rivedranno anni dopo, quando Bobby è divenuto il proprietario di uno dei locali più all’avanguardia di New York, ereditato dal fratello gangstar. Ormai il tempo ha fatto la sua parte, i due si ritrovano a condividere i ricordi nostalgici della fulgida giovinezza ormai lontana, rimangono solo i dolorosi rimpianti, si avverte forte il desiderio di aver voluto vivere una vita diversa da quella vissuta. Pellicola numero 46 per il cineasta newyorkese e film d’apertura della 69 edizione del Festival di Cannes, che si presenta in gran spolvero e con un nuovo direttore della fotografia, il premio Oscar italiano Vittorio Storaro (Apocalypse Now, l’Ultimo Imperatore) che non fa altro che confermare il suo incredibile talento, regalandoci una fotografia ricercata che è una vera e propria gioia per gli occhi degli spettatori. La pellicola è l’ennesimo prodotto della fantasia del nostro Woody, come sempre ritroviamo i punti cardine del suo cinema: le amate/odiate radici ebraiche, il Jazz , l’ironia e il gusto amaro ( a tratti amarissimo) della vita, insomma per citare il termine di un critico britannico la "Allenland" che tutti hanno imparato a conoscere negli anni.
Punti deboli del film? Sicuramente la trama, argomento trito e ritrito, un paio di gag del film non sono tanto riuscite e alcune scelte registiche come i primi piani che indugiano un po’ troppo sul volto degli attori lasciano perplessi. Il resto dell’opera è condotto in maniera magistrale, non si possono non notare la gestione perfetta del ritmo della pellicola, la cura per il dettaglio e come sempre il saper azzeccare la scelta dei propri attori principali. La cura per la recitazione è ormai un suo marchio di fabbrica, infatti anche le star più rinomate sono sempre entusiaste di lavorare con un regista che trova e cuce per loro ruoli straordinari.
Fiore all’occhiello della pellicola sono le interpretazioni di Jesse Eisenberg, grande mattatore che ci offre un’intensa prova. La Stewart emoziona la platea con il suo stile efficace e sicuro, l’attrice negli ultimi anni è cresciuta molto dal punto di vista recitativo e infine sorprende Steve Carrel, lontano anni luce dagli stucchevoli ruoli demenziali e sempre più a suo agio con ruoli intensi. Film molto triste, l’ultimo lavoro del maestro ci lascia un pizzico d’amaro in bocca, quando i sogni diventano rimpianti inevitabilmente non possiamo fare altro che incupirci e aggrapparci alla speranza del presente, ripensando però mestamente al passato e alle sue avventure, a quanto fossero belle quelle sensazioni provate, quegli sguardi reciproci.
Woody questa volta non ci regala un film che sorprende, anzi negli ultimi anni sembra che la commedia non sia più il suo forte, ma convince lo spettatore con una storia carica di emotività e sentimenti forti, veri, una storia d’amore incompiuta che chissà quanti di noi avranno immaginato (o vissuto). La rubrica cinematografica del Termopolio vi dà appuntamento alla prossima settimana, buona continuazione e come sempre buon cinema a tutti.
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Riley è una ragazzina di undici anni che conduce una vita felice con l'amica del cuore e due genitori fantastici. In lei crescono anche le sue emozioni che, situate in un attrezzato e moderno quartier generale, governano i suoi stati d'animo che sono rappresentati da un tripudio di forme e colori dai caratteri diversi. Ci sono Joy (giallo), sempre ottimista e tosta, Anger (rosso), sempre arrabbiato e pronto ad esplodere, si riesce a contenere solo grazie a Joy. Poi sono presenti Fear (viola), sempre impaurito, Sadness (blu), sempre triste (e pessimista, fa venire la depressione solo a guardarla ed ascoltarla, mai nome poteva essere più adatto) e Disgust (verde) che si schifa di tutto, soprattutto per le verdure. Un giorno però tutto crolla nella vita spensierata di Riley perché si trasferisce con i suoi genitori a San Francisco e non riesce ad adattarsi alla nuova vita. E ciò mette a dura prova le sue emozioni. Joy tenta di impedire a Sadness di creare il primo ricordo triste di Riley, ma qualcosa va storto nel quartier generale...
"Inside out" si conferma un'altro capolavoro creato da quei geni della Disney e della Pixar, dopo il successo di "Up". Innovativa l'idea di scegliere come protagonisti della storia la gioia, la tristezza, la rabbia, la paura e il disgusto, emozioni che guidano le decisioni e sono alla base dei rapporti sociali di Riley, che dopo il trasloco deve affrontare nuove sfide e cambiamenti. Ma non tratta solo di quello il film, oltre alle emozioni "Inside out" esplora la memoria, il subconscio, il pensiero astratto e la produzione onirica (i sogni e gli incubi) di una bambina che sta crescendo ed entrando nella pubertà. Sono proprio le emozioni che agitandosi tra conscio e inconscio la condurranno verso l'età adulta, abbandonando l'infanzia e la semplicità della fanciullezza. Nel cammino alcuni ricordi resistono col tempo e vengono custoditi dalla vivace Joy in sfere colorate, altri svaniscono risucchiati da un aspirapolvere per far spazio alla nuova vita e a nuovi ricordi. Tra questi c'è un personaggio che rimarrà impresso nella mente di molti: si tratta di Bing Bong, amico immaginario di Riley che piange caramelle e sogna di condurla sulla Luna. È una creatura fantastica, un mix tra gatto (lo Stregatto di "Alice nel paese delle meraviglie" complice il colore rosa e la coda pelosa) e un elefante (Dumbo) che farà commuovere fino alle lacrime.
Forse le tematiche di "Inside out" sono un po' complesse per essere comprese da dei bambini che saranno conquistati soprattutto dai colori del film, dai personaggi divertenti come Rabbia e Tristezza (nella sua infelicità fa troppo ridere), o pasticcioni e anche un po' fuori di testa come Bing Bong. Gli adulti, invece, ameranno questo film, rideranno, si commuoveranno rivedendo se stessi da bambini grazie a questo colorato viaggio mentale. E comprenderanno e sosteranno in pieno il messaggio del film, cioè nella vita abbiamo bisogno di tutte le emozioni, anche quelle negative come la Tristezza o la Paura, perché saranno loro in futuro a permettere di superare i momenti difficili della vita.
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Tommaso (Riccardo Scamarcio) rivela al fratello Antonio (Alessandro Preziosi) l’intenzione di confessare alla famiglia di non aver mai studiato economia, di essere uno scrittore e di essere gay, con la precisa speranza di venire allontanato e di poter, finalmente libero, vivere la propria vita a Roma. La famiglia Cantone gestisce l’omonimo pastificio a Lecce e Vincenzo (Ennio Fantastichini), il capofamiglia, desidera che i figli lo affianchino nella gestione dell’attività. Antonio, a sorpresa, batte sul tempo il fratello e confessa prima di lui la propria insospettabile omosessualità. Mine Vaganti è un film del 2010 (vincitore di cinque Nastri d’Argento e del Premio speciale della Giuria al Tribeca Film Festival) diretto da Ferzan Ozpetek che racconta la storia di un microcosmo famigliare entro il quale si riflettono pregiudizi e cliché nei confronti dell’omosessualità (per esempio la speranza che sia una malattia e per giunta curabile) e si delinea uno scarto tra l’immagine ideale cucita addosso ai propri figli e le persone che essi veramente sono, con la conseguente ed inevitabile delusione delle aspettative familiari e sociali.
Un film con un bel ritmo in cui si ride, ma non solo. L’ottusa e ridicola cecità di mediocre borghese conduce Vincenzo a non accorgersi dell’omosessualità di entrambi i figli e a preoccuparsi esclusivamente delle reazioni della gente, dalla quale crede ossessivamente si essere deriso. Antonio è gay e Vincenzo lo ha cacciato di casa: non gli importa nulla della felicità del figlio, conta solo l’onta, la macchia indelebile che ha sporcato l’onorabilità della stimata famiglia Cantone e che gli procura peraltro un infarto.
A controbilanciare la grettezza del personaggio interpretato da Fantastichini- che pure riesce con le sue paranoie da moralista benpensante a risultare tragicomico- una splendida Valeria Occhini nei panni della nonna, figura poetica e delicata, che ha un rapporto complice e speciale con i nipoti. La nonna porta sul proprio cuore il peso di un amore impossibile, quello nei confronti del cognato Nicola. Una sofferenza durata tutta la vita che ha fatto di lei una persona diversa: sensibile, comprensiva e anticonvenzionale, amante della libertà quanto dei sensi, convinta che <<se non si sbaglia per contro proprio, non vale la pena di vivere>>. Suggestivo l’espediente narrativo attraverso cui sono affiancate alle scene del presente della storia l’immaginario itinerario di una sposa. La donna piangente vestita di bianco è la nonna mentre Nicola la conduce dal futuro marito attraverso un assolato paesaggio pugliese. Non capiamo subito si tratti di lei, lo intuiamo dai racconti della donna durante il film, che da lei prende il nome. Mina vagante è qualcuno che crea disordine, scombina e cambia i piani. E così è la donna, che riesce con un gesto drammatico a riunire attorno a sé la propria famiglia, compreso il nipote Antonio.
Attorno alle figure antitetiche di Vincenzo e della madre, ruotano una serie di personaggi e situazioni di vario registro e spessore. La malinconica e solitaria Alba, innamorata di Tommaso, la strampalata zia Luciana, l’incredula madre Stefania, la sminuita figlia femmina, la servitù e gli effeminati amici gay di Tommaso. Questi ultimi, omosessuali volutamente caricaturali, regalano siparietti comici nel maldestro tentativo di dissimulare l’evidente orientamento sessuale.
La vita di Antonio e Tommaso è una vita a metà fino a quando non riescono ad essere chi veramente sono, fuoriuscendo dalla trappola in cui la famiglia li ha relegati. Pur trattando tematiche di un certo livello, il film riesce ad alternare e a dosare registro drammatico e toni più leggeri. Il ritratto parodistico del pater familias sintetizza il perfetto adeguamento ad una morale sociale ipocrita che, al polo opposto, si scontra con l’apertura mentale della non più giovane madre, in possesso di una visione nitida e privilegiata circa la possibilità di un’esistenza felice. Affascinante è la scelta di una chiusura corale: i personaggi ballano formando coppie insolite in cui passato e presente, reale ed immaginario si mescolano e si sfiorano sulle note di Sezen Akasu, una danza dai ritmi balcanici che include ogni differenza.
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Dopo A Beautiful Mind, The Imitation Game e La teoria del tutto ecco un altro film che porta sullo schermo la vita di un brillante matematico che ha contribuito con i suoi studi alla conoscenza e alla percezione del mondo che abbiamo oggi. L’uomo che vide l’infinito racconta la storia di Srinivasa Ramanujan, matematico indiano dalla strabiliante genialità. Questo film, come gli altri già citati, non ci racconta soltanto la storia vera di un matematico, fisico o scienziato del passato. Quella che viene proiettata sullo schermo è infatti una vita divisa in due parti: da un lato la mente brillante del protagonista, dall’altro il contrasto con la società che lo emargina e lo schernisce. Se oggi riconosciamo il merito di questi personaggi, in passato la loro genialità spesso era vista come stranezza; la difficoltà nell’interagire con le persone, lo status sociale, le scelte sessuali, l’appartenenza a una certa cultura o religione tutto questo poteva compromettere la reputazione e il peso sociale di una persona, ancora di più se questa proponeva idee innovative, che però si preferiva giudicare sovversive o inaccettabili, a causa della loro rottura con la tradizione.
L’uomo che vide l’infinito non rinuncia a questo schema. Ci troviamo in India nel 1913, a Madras; un giovane Srinivasa Ramanujan, interpretato da Dev Patel, è alla ricerca di un lavoro e di qualcuno che riconosca il valore dei suoi studi matematici. Ovviamente questo è tutt’altro che semplice, Madras è una città povera, Ramanujan è un giovane di umili origini e completamente autodidatta, niente attesta la sua istruzione.
L’unica soluzione per poter portare avanti gli studi matematici che tanto ama è abbandonare l’India, la sua famiglia, la sua amata moglie Janaki per raggiungere un professore del Trinity College di Cambridge, che ha risposto alla sua lettera ed è disposto a dargli udienza. Un brillante Jeremy Irons impersona infatti il professor G.H. Hardy, il primo a vedere la genialità nascosta in Ramanujan, fino a diventarne mentore e amico. Proprio Hardy definirà la sua conoscenza e collaborazione con il giovane matematico indiano "l'unico incidente romantico della mia vita". Se l’incontro con Hardy segna per Ramanujan un punto svolta, non significa l’annullamento di ogni difficoltà, anzi queste si moltiplicano.
Tra i vari temi affrontati abbiamo senza dubbio quello della discriminazione razziale: Ramanujan è indiano, è molto legato alla sua cultura e alla sua religione, che gli inglesi comunemente ignorano (si veda la scena all’interno del refettorio, in cui a Ramanujan viene servita della carne, nonostante sia vegetariano) o disprezzano (emblematica la scena in cui Ramanujan viene sbeffeggiato e picchiato da dei giovani militari inglesi).
Alla difficoltà nell’approcciarsi alle persone si aggiunge anche quella verso la stessa matematica. Ramanujan, essendo autodidatta, non ha un metodo, elabora quasi dal niente formule (solo nel finale spiegherà ad Hardy come riesce a farlo), ma per la casta intellettuale che governa Cambridge questo non è sufficiente. Il giovane non avuto un’istruzione convenzionale e per questo deve seguire dei corsi per colmare le sue lacune; inoltre prima di poter pubblicare uno studio sono necessarie delle “dimostrazioni”, degli studi condotti con dovizia, la sicurezza che Ramanujan ripone nei suoi appunti non basta. L’interpretazione dei due attori protagonisti è molto valida, ma risultano molto ben studiati anche i profili degli altri studiosi che vorticano intorno a Hardy e Ramanujan, da Toby Jones che interpreta la solida spalla di Hardy, J. E. Littlewood, a Jeremy Northan che ci regala l’immagine di un Bertrand Russel acuto e sornione, fino a Stephen Fry, volto e voce di Sir Francis Spring, capofila di quella casta intellettuale reazionaria che ostacola fin da subito il nostro protagonista.
Una storia intensa quella di Srinivasa Ramanujan, che Matt Brown dirige egregiamente. Piacevole nella visione, con forse qualche enfasi di troppo sugli aspetti più drammatici, il film di Brown ci restituisce l’immagine di un uomo coraggioso e dalla rara intelligenza, così come lo descrive Robert Kanigel nel suo libro L'uomo che vide l'infinito - La vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica (1991).
Foto tratte da:
Locandina:http://www.cineblog.it/post/687762/luomo-che-vide-linfinito-nuove-clip-in-italiano-del-biopic-con-jeremy-irons-e-dev-patel Ramanujan: http://www.2duerighe.com/la-dolce-vita-cinema/74771-l-uomo-che-vide-l-infinito.html Hardy e Ramanujan: http://www.optimaitalia.com/blog/2016/05/30/luomo-che-vide-linfinito-il-confine-fra-ordinario-e-straordinario-allinsegna-dei-numeri/291925 Russel, Hardy e Littlewood: http://www.2duerighe.com/la-dolce-vita-cinema/74771-l-uomo-che-vide-l-infinito.html |
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