Dopo Tobe Hooper e George A. Romero, un altro della vecchia scuola, questa volta italiano, se ne va, dopo aver segnato profondamente il cinema di genere nazionale e internazionale: Umberto Lenzi, cineasta e scrittore toscano, classe 1931, fra i più prolifici artisti dediti alla settima arte fra gli anni ’70 e ’80. Lo si celebra per la sua maestria nel saper creare e girare storie coinvolgenti, dove l’azione fa da padrona in scene concentrate, fulminee, immediate e violente. Proprio come alcuni dei personaggi dei suoi film, in primis quelli interpretati da Tomas Milian, il quale può rappresentare in qualche modo la variegata cifra espressiva entro cui si muovono i reietti dei film di Lenzi: solitari e disillusi in Il giustiziere sfida la città (1975); spregevoli e aggressivi in Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Roma a mano armata (1976) e Il cinico, l’infame, il violento (1977); indolenti ma dal cuore d’oro in Il trucido e lo sbirro (1976), sino ad arrivare all’unione degli opposti con La banda del gobbo (1977), dove un incredibile Milian interpreta sia il Gobbo che Er Monnezza, due facce della stessa medaglia criminale. La critica dell’epoca bollò questi film come “fascisti” e Lenzi come un regista “ di destra”, a causa dei metodi violenti e poco ortodossi dei vari commissari di polizia, interpretati soprattutto da Henry Silva e Maurizio Merli, altri due volti costanti nei film più di successo del regista. Ma scegliendo questa chiave interpretativa si rischia di perdere di vista il fulcro principale dei polizieschi lenziani, che è quello di mettere in mostra una violenza quotidiana e reale che proprio durante gli anni ’70 stava attraversano l’Italia con gli anni di piombo. Quei film, come tanti altri dello stesso filone, erano il termometro politico e sociale di una stagione molto cruenta della storia italiana dove, oltre al brigatismo e agli attentati di matrice politica, si aggiungevano crimini di ogni tipo, amplificati dai media e dalla cronaca, dando la percezione di vivere in uno stato di allerta molto alto. Etichettare Umberto Lenzi come un cineasta “di destra” risulta, quindi, alquanto gratuito, considerando anche il fatto che in alcune sue dichiarazioni ha spesso evocato la sua appartenenza libertaria.
Che il punto di vista di Lenzi sia alquanto peculiare e, a suo modo, critico lo si nota anche dal fatto che il cineasta toscano definì alcuni suoi film “thriller dei quartieri alti”, ovvero pellicole ambientate negli ambienti dell’alta borghesia dove i vari personaggi cercano di mascherare la loro ipocrisia dietro il lusso, le buone maniere e una reputazione rispettabile. Film come Un posto ideale per uccidere (1971), Il coltello di ghiaccio (1972), Sette orchidee macchiate di rosso (1972), Spasmo (1974) e Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975) trovano il loro fulcro nella psicologia dei personaggi e soprattutto nelle specifiche relazioni che questi ultimi intrecciano con specifici ambienti sociali. Qui l’assassino sembra essere più la conseguenza anziché la causa dei rancori e delle faide fra le ricche famiglie, oppure fra le vecchie e nuove generazioni, e la sua scoperta mette sempre a disagio rivelando segreti disdicevoli che solo con la complicità della propria posizione sociale potevano essere tenuti nascosti. Carol Baker, stella del cinema statunitense a partire dalla metà degli anni ’50, diventerà simbolo dei thriller/gialli di Lenzi, recitando anche in quelli in cui l’elemento sessuale ed erotico diventa soverchiante e pericoloso alla stregua di un assassinio, come nel capolavoro Orgasmo del 1969 e in Così dolce… così perversa dello stesso anno, e in Paranoia in quello successivo. Quella elencata è solo una piccola parte della filmografia del cineasta toscano, considerata fra la più interessante e dove Lenzi ha potuto manifestare tutto il suo potenziale, grazie a una tecnica registica assai dinamica e solida che riusciva mantenere alta la tensione anche con storie magari non proprio all’altezza. La sua versatilità nel mestiere si manifesta anche in generi come l’horror, ritenuto dallo stesso regista alquanto estraneo alla sua poetica. L’incontro con questo genere, però, ha saputo indicare aspetti e caratteristiche inedite che verranno poi ripresi da altri registi, basti pensare a Il paese del sesso selvaggio del 1972, che ha introdotto la prima scena di cannibalismo in un film sostanzialmente d’avventura, e che poi influenzerà tutto il filone dei cannibal movie sino al capolavoro del genere Cannibal Holocaust di Deodato. Seguiranno gli efferati Mangiati vivi! (1980) e Cannibal Ferox (1981), con in mezzo un altro cult come Incubo sulla città contaminata (1980), realizzato con un budget ridottissimo ma che sprizza idee a ogni scena, a cominciare dalla rappresentazione degli infetti dediti a ogni sorta di violenza non come zombie ma come uomini, capaci anche di usare oggetti e di correre (più di vent’anni prima e 28 giorni dopo e World War Z). Uno dei film più amati da Tarantino (che, oltre a essere estimatore del cinema di Lenzi, è stato suo amico) e Rodriguez, che lo omaggerà ampiamente in Planet Terror. Da menzionare sono anche alcuni suoi war movies nati negli anni ’60 e che lo accompagneranno sino alla fine degli ’80, come Attentato ai tre grandi (1967), La legione dei dannati (1969), su sceneggiatura, fra gli altri, di Dario Argento e che vede protagonista una star internazionale come Jack Palance; Il grande attacco (1978), Un ponte per l’inferno (1986) e Tempi di guerra, quest’ultimo del 1987. La storia, e in particolare le vicende belliche della prima metà del ‘900, saranno sempre una grande passione per Umberto Lenzi, probabilmente perché in questi scenari riesce a far incarnare ai suoi personaggi determinati ideali, mostrandoli divisi fra eroismo, tragedia e umana fragilità. Non è un caso, quindi, che le stesse cupe ambientazioni verranno rievocate in una serie di successivi romanzi, quando, a partire dal 2008, l’ormai ex-regista deciderà di affrontare un nuovo mondo, quello letterario, e con buoni risultati da parte della critica. Bruno Astolfi, detective privato antifascista che indaga su dei casi nel mondo del cinema degli anni ’40, sarà l’ultimo di una lunga serie di personaggi memorabili che Umberto Lenzi ha lasciato a chi ha seguito e amato la sua capacità di narrare l’azione di personaggi sempre inquieti, al limite, abbandonati ma pur sempre accompagnati da una loro irreprensibile umanità. Immagine tratta da: http://cdn.quinews.net/
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PAESE: Stati Uniti
ANNO: 2017 GENERE: thriller, drammatico STAGIONE: 1 EPISODI: 10 DURATA: 34-60 min IDEATORE: Joe Penhall REGIA: David Fincher, Asif Kapadia, Tobias Lindholm, Andrew Douglas SCENEGGIATURA: Joe Penhall, Ruby Rae Spiegel, Dominic Orlando, Jennifer Haley, Erin Levy, Carly Wray ATTORI: Jonathan Groff, Holt McCallany, Anna Torv, Hannah Gross, Cotter Smith PRODUZIONE: Denver and Delilah, Jen X Productions, Panic Pictures / No.13
Serial Killer, omicida seriale: suoni pericolosi, termini entrati nell’immaginario collettivo soprattutto grazie agli innumerevoli prodotti televisivi di genere investigativo e, purtroppo non raramente, a servizi del telegiornale. Questo binomio, nella sua forma anglosassone e non, a ogni nuova pronuncia diventa sempre più raggelante. Il suo grande utilizzo, però, lo ha reso un’etichetta oltre cui difficilmente ci si addentra se non per fare un po’ di audience nei talk show.
Cosa c’è dietro a esso? Come nasce e cosa vuole indicare? Il più recente successo Netflix, con David Fincher e Charlize Theron, vola negli anni Settanta per seguire un insolito gruppo di agenti dell’FBI alle prese con l’identificazione di una nuova tipologia di criminali: gli assassini seriali. Alla vigilia della pubblicazione dei 10 episodi della prima stagione, considerato il prestigioso background cinematografico di Fincher, c’erano grandi aspettative nell’aria. Basato sull’omonimo libro di Mark Olshaker e John E. Douglas, Mindhunter si avventura nelle vite di due agenti, il giovane Holden Ford (Jonathan Groff) e il più esperto Bill Tench (Holt McCallany), che, insieme alla psicologa Wendy Carr (Anna Torv), elaborano un nuovo innovativo approccio per le investigazioni sui più efferati crimini: attraverso diversi incontri con spietati killer rinchiusi in prigione, i protagonisti cercano di ricostruire le dinamiche che hanno portato a epiloghi tanto crudeli quanto disumani. Ai piani alti all’FBI, però, questi metodi sperimentali potrebbero sembrare pure e semplici perdite di tempo: un assassino è un assassino, niente di più, niente di meno. Le complicazioni della vita privata di ogni personaggio, inoltre, non aiutano la riuscita di un’operazione complessa e spesso ostacolata.
La crescente e martellante distribuzione di serie di genere thriller/poliziesco ha abituato il pubblico a un consumo disattento e superficiale, incapace spesso di superare la basilare struttura di procedural. Rievocando il suo gioiellino incompreso Zodiac, Fincher, alla regia anche di quattro episodi dello show Netflix, sfida questa diffusa concezione mettendo in scena un’evoluzione articolata e sconvolgente in ogni suo aspetto. È una sfida, tuttavia, diretta soprattutto allo spettatore che, comodamente seduto sulla sua poltrona, diventa protagonista lasciandosi catturare dalle situazioni, dalle difficoltà e dalle conquiste del gruppo protagonista attraverso lunghi e avvolgenti dialoghi, non facili e prevedibili immagini della spietatezza dei criminali interrogati. Inizialmente, gli ostacoli per Ford non sono pochi. Parallelamente lo spettatore, ai primi due episodi, si sente confuso, disorientato e sopraffatto poichè ciò a cui assiste è completamente diverso da quanto atteso: bisogna immergersi senza paura per comprenderlo.
In un’epoca in cui molti tabù iniziano a crollare, il personaggio di Ford mette in luce, con estrema freddezza, il lato nascosto di quelli che in precedenza erano semplici criminali come tanti altri. Jonathan Groff nei panni del protagonista mette in scena le sue difficoltà nel muoversi in un ambiente delicato, visto di cattivo occhio dai colleghi. L’evoluzione del suo personaggio è affascinante: da moderato e pacato negoziatore, l’agente diventa unica possibile guida nella mente di spietati omicida. La sua lucidità viene messa a dura prova: le più piccole crepe potrebbero essere fatali nella sua vita. A Holden viene affiancato un Holt McCallany più esperto e disilluso: i suoi tentativi nell’intrecciare sociologia e criminologia si sono spesso rivelati fallimentari. La razionalità del gruppo risiede nella figura di Wendy, interpretata splendidamente dall’algida Anna Torv, avvolta dal mistero e ancora da esplorare, probabilmente, con la seconda stagione.
Mindhunter, con la sua cura per i dettagli sia nella narrazione che nelle scenografie e nella messa in scena, è un prodotto che richiede attenzione instillando nella mente del pubblico una buona dose di curiosità a tratti macabra. Uno degli show più riusciti dell’anno. Immagini tratte da: Immagine 1 - http://www.cinechronicle.com/ Immagine 2 e 3- https://www.cinematographe.it/
Regia: Emanuele Scaringi, Alessio De Leonardis
Attori: Alessia Barela, Francesca Figus, Stefano Fresi, Pier Giorgio Bellocchio, Edoardo Natoli, Paola Minaccioni, Giulia Bevilacqua, Carmen Consoli, Claudia Pandolfi, Gian Marco Tognazzi Soggetto: Alessia Barela Durata:75' Genere: Commedia, Web-serie Produzione: Mao Produzioni SRL Sceneggiatura: Alessia Barela Musiche: Carmen Consoli Da un’idea di Alessia Barela (attrice e sceneggiatrice della web-serie), un racconto ironico, frizzante e tutto al femminile. Sì, perché la vettura che percorre instancabilmente le strade di Roma è guidata da Alessia (Alessia Barela), al cui fianco si trova Francesca (Francesca Figus), inseparabile collega e amica. Entrambe lavorano per conto di un’agenzia immobiliare di lusso gestita dalla perfida Iena (Monica Cervini), il capo che le dirige dalla lontana sede di Milano, inviando loro messaggi video. Due diversi modi di essere per Alessia e Francesca che si raccontano vicendevolmente durante i viaggi: la prima, scontrosa, litigiosa e insofferente; la seconda, femminile e seducente; mostrano entrambe il proprio microcosmo fatto di lavoro, affetti e amori problematici che si apre alla vivace realtà che popola le strade della capitale. Una web-serie diretta e a tratti surreale che ironizza, riproponendole, sulle classiche concezioni regionali e stereotipate: milanesità sta per efficienza e fiuto per l’affare, romanità è invece sinonimo di approssimazione e mancanza di eleganza nel parlare, italianità si accorda generalmente con la superstizione di un popolo tutto sommato di brava gente. A movimentare i viaggi, la voce acusmatica della madre di Alessia, sempre in contatto con la propria figlia, alla quale suggerisce i numeri da giocare al Lotto sulla base di quanto le accade o di cosa sogna (la web-serie è infatti sponsorizzata dal Gioco del Lotto). Tantissimi i volti noti che hanno partecipato alle serie tra cui, in “Occhio, Malocchio, Prezzemolo e Finocchio” (7. Ep.) anche Carmen Consoli, che firma peraltro la colonna sonora, nei panni di una siciliana decisamente sui generis.
I
La desk-tv apre a un nuovo modo di intrattenere per la web-serie sulla frenetica vita di due immobiliariste al volante, i cui episodi hanno una durata brevissima (attorno ai 5 minuti ciascuno) e non sempre un finale definito. Tra fraintendimenti, sorprese e colpi di scena, Noi due (e gli altri), è un racconto al femminile, tutto giocato sui primi piani e su di una comicità a tratti non sense e irriverente. È possibile guardare i 15 webisodi in streaming su Repubblica.it. Di seguito, i link: http://video.repubblica.it/native/noi-due-e-gli-altri-al-ladro-puntata-1/270618/271085 http://video.repubblica.it/native/noi-due-e-gli-altri-p7-occhio-malocchio-prezzemolo-e-finocchio-con-carmen-consoli/270618/272353 Immagini tratte da: Immagine 1 da https://www.google.it/url?sa=i&rct=j&q=&esrc=s&source=images&cd=&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwjK78_jl_3WAhUjCsAKHZcVANIQjRwIBw&url=http%3A%2F%2Fwww.rbcasting.com%2Faltri-articoli%2F2017%2F04%2F03%2Fcarmen-consoli-nel-settimo-episodio-della-web-serie-noi-due-e-gli-altri-oggi-su-repubblica-it%2F&psig=AOvVaw2ZG8MPl2hcuN-qqwnHNx6W&ust=1508519649678230 Immagine 2 da http://www.aboutdefilm.com/project/due-gli-altri-13-grazie-graziella-mia-benedetta-veronika-logan-daniela-scarlatti/ Immagine 3 da http://www.aboutdefilm.com/project/due-gli-altri-10-lappostamento-antonio-de-matteo/ Immagine 4 da http://www.ciakmagazine.it/alessia-barela-la-porta-rossa-noi-due-e-gli-altri-webserie/
Paese di produzione: Italia
Anno: 2017 Durata: 114’ Genere: biografico Regia: Michael Radford Soggetto: Andrea Bocelli Sceneggiatura: Anna Pavignano, Michael Radford Produttore: Roberto Sessa Produttore esecutivo: Monika Bacardi, Andrea Iervolino Casa di produzione: AMBI Pictures, Rai Fiction Fotografia: Stefano Falivene Musiche: Gabriele Roberto Scenografia: Francesco Frigeri Costumi: Paola Marchesin Interpreti e personaggi: Toby Sebastian: Amos Bardi (adulto); Jordi Mollà (Alessandro, papà di Amos); Luisa Ranieri (Edi, mamma di Amos); Ennio Fantastichini (Zio Giovanni); Francesco Salvi (Ettore); Antonio Banderas (maestro); Nadir Caselli (Elena); Alessandro Sperduti (Adriano); Andrea Bocelli (Se stesso); Zucchero Fornaciari (Se stesso). Amos Bardi (alter ego di Andrea Bocelli) nasce nelle campagne toscane con una voce potente e bellissima ma fin dalla nascita soffre di un glaucoma congenito, l'inizio della malattia che lo porterà alla cecità. Questa malattia lo costringe ad affrontare tanti interventi chirurgici, fino a entrare in un istituto per non vedenti e imparare l'alfabeto Braille. Un giorno, in seguito a una pallonata che lo colpisce alla testa, Amos diventa completamente cieco ma il ragazzo non si arrende: il sogno della sua vita é cantare. Il suo percorso sarà costellato da gioie e delusioni ma grazie al sostegno di amici, familiari, del maestro di canto e di sua moglie Elena, la sua carriera conoscerà il successo internazionale, con la consacrazione sul palco insieme a Zucchero dove interpreta Miserere. Non è mai facile realizzare un film biografico ed è ancora più difficile se il personaggio è vivo e vegeto e ancora in piena attività. Ma il regista Michael Radford ha saputo arginare il problema collaborando con lo stesso personaggio a cui è dedicato il biopic cioè Andrea Bocelli, qui in qualità di collaboratore alla sceneggiatura, come presenza e voce narrante e interpretativa di alcuni brani del film. Infatti, il biopic si apre con un cameo di Andrea Bocelli, in bianco e nero, che scrive la propria autobiografia. A conclusione del film lo vediamo partecipare a Sanremo, mentre canta opere liriche, e quando riceve la stella sulla Walk of Fame. Addirittura, battezza con il nome Amos che ha dato al suo primogenito, il suo alter ego cinematografico.
La musica del silenzio non è una storia autocelebrativa ma quella di un bambino che, sin da piccolo, ha conosciuto il dolore dovuto alla malattia che lo ha privato della vista (la disperazione della mamma alla notizia della cecità è la scena più drammatica del film) e che ha lottato duramente per emergere e per trasformare la passione per il canto in un lavoro. Il titolo è tratto dal libro autobiografico, già pubblicato da Bocelli, da cui è liberamente ispirato il film: Andrea/Amos ha imparato che è proprio l'attenzione al silenzio a consentirgli di sviluppare al massimo la sua splendida voce e l'interpretazione di Toby Sebastian, noto per il ruolo di Trystane Martell ne Il trono di spade, è impressionante (sia per la somiglianza fisica con Bocelli che per le movenze.)
Lodevoli anche le interpretazioni di Jordi Mollà, che interpreta il padre di Bocelli, Luisa Ranieri, la madre ed Ennio Fantastichini nei panni dello zio, che avrà un ruolo importante nel successo di Bocelli. Compare anche Antonio Banderas nei panni del maestro di canto di Amos. La sua interpretazione é un po' esagerata ma aggiunge un tono ironico al film.
Tra canti e storia biografica, La musica del silenzio scorre piacevolmente per quasi due ore e non annoia. La visione del film è adatta a tutti anche per chi non è appassionato di musica lirica.
Foto tratte da:
https://mr.comingsoon.it/ http://biografieonline.it/ http://wwwra.ansa.it/ http://th.tvblog.it/
La recensione del musical-commedia d'azione con un cast eccezionale diretto dai Manetti Bros. in concorso all’ultima Biennale di Venezia.
Don Vincenzo Strozzalone (Claudio Buccirosso) soprannominato il ‘’re del pesce’’ è un boss della camorra stanco di scappare ed essere braccato, su suggerimento della moglie cinefila, interpretata da Claudia Gerini, decide di fingersi morto, come in un noto film di 007, ma il suo segreto, condiviso con le fedeli ‘’Tigri’’, i suoi due abili ed esperti sicari Ciro (Giampaolo Morelli) e Rosario (Gennaro Della Volpe, in arte Raiz), ha le gambe corte perchè Fatima, una giovane infermiera di Scampia, si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato e il Don ordina di eliminarla.
Un musical ma soprattutto una nuova dichiarazione d’amore per Napoli da parte dei Manetti Bros, l’eclettico duo di registi romani ha saputo riportare la meravigliosa teatralità partenopea sul grande schermo. Ammore e Malavita è un’opera nuova e fresca e lo si può notare dalle coreografie moderniste di Luca Tommasini, dalle canzoni sopra le righe (stile Bollywood) che fanno il verso a Gomorra, come quella che racconta l’essere derubati a Scampia: ‘’The ultimate touristic experience’’. Il poliziesco anni 70’ di genere, tanto amato dai Manetti, si fonde alla perfezione cona la ‘’smielata’’ storia d’amore tra un sicario super addestrato e la sua fidanzatina di un tempo, che devono cercare di sopravvivere in mezzo a una città colorata e kitsch, che rapisce visivamente lo spettatore. La Napoli dei Manetti infatti è luogo di emozione e sentimento, che problemi e contraddizioni li racconta sì, ma con leggerezza, che non vuol dire affatto spensieratezza priva di senso. “È come se la Sambenedettese andasse al Bernabeu a giocare contro il Real Madrid” è così che i registi avevano commentato l’approdo della loro opera al Lido di Venezia 74 e in effetti non era facile tenere assieme tutte queste ambizioni, visto la tipologia di progetto che sulla carta pareva folle e vagamente suicida. Ma i due fratelli romani ce l’hanno fatta, e Ammore e malavita ti rapisce con le sue citazioni cinefile piene di stile, con la bravura dei suoi interpreti, Buccirosso e la Gerini in primis ci regalano una prova spettacolare (vi faranno morire dal ridere) e con la voglia dei registi di osare senza tirarsela mai nemmeno per un momento, sempre col sorriso sulle labbra, divertendosi loro prima di tutti gli altri, forse il vero segreto dei Manetti, che negli anni ci hanno sorpreso con le loro produzioni ricche di originalità e vita. Nonostante il film non sia esente da qualche imperfezione, come la sceneggiatura un po’ troppo ricca di colpi di scena nella parte finale della pellicola, Ammore e malavità vi trascinerà nel suo vortice di sentimenti positivi e di buon umore. Ogni tanto fa bene al cuore divertirsi e ridere e i Manetti Bros sembrano davvero averci preso gusto. Vi lasciamo a qualche clip del film e vi auguriamo come sempre buon cinema. Immagini tratte da: Locandina: expartibus.it Immagine1: Movieplayer Immagine2: SkyTg24.com Immagine3: Rolling Stones Italia Clip: Youtube - 01 Distribution
PAESE: Stati Uniti
ANNO: 2017 GENERE: drammatico STAGIONE: 1 EPISODI: 10 DURATA: 47 - 60 min IDEATORE: Bruce Miller REGIA: Reed Morano, Mike Barker, Floria Sigismondi, Kate Dennis, Kari Skogland SCENEGGIATURA: Bruce Miller, Leila Gerstein, Dorothy Fortenberry, Wendy Straker Hauser, Lynn Renee Maxcy, Kira Snyder, Eric Tuchman ATTORI: Elisabeth Moss, Joseph Fiennes, Yvonne Strahovski, Alexis Bledel, Madeline Brewer, Ann Dowd, Max Minghella COLONNA SONORA: Adam Taylor PRODUZIONE: Daniel Wilson Productions, The Littlefield Company, White Oaks Pictures, MGM Television
I libri, i film e le serie tv possono essere considerati lo specchio della società che li ha generati. Impossibile negare che i cambiamenti e gli eventi socio-politici abbiano un forte impatto sulla narrativa di ogni genere e in ogni forma. Pochi prodotti, su carta stampata o su schermo di qualsiasi dimensione, riescono tuttavia a catturare e a rappresentare al meglio il sentimento comune, evidenziandone criticità ma mostrandone anche i punti di forza e le speranze che ne derivano. The Handmaid’s Tale, basata sull’omonima opera di Margaret Atwood, è uno di questi.
La pubblicazione originale del libro Il racconto dell’ancella risale al 1985, nel pieno dell’ultimo decennio di guerra fredda, in un periodo segnato da profonde divisioni, esattamente un anno dopo il 1984 immaginato da George Orwell. Proprio quest’ultima opera ha particolarmente influenzato l’autrice canadese Atwood per la stesura del suo sesto romanzo, una distopia che non lascia indifferenti, costringendo a riflettere su importanti tematiche.
Nell’universo immaginato dalla serie e dall’autrice gli Stati Uniti d’America, terra da sempre orgogliosa dei suoi diritti, non esistono più. Al loro posto, in un’epoca in cui regna un costante calo demografico, vi è Gilead, un regime totalitario di stampo teocratico che, a seguito di un golpe, ha gradualmente ristabilito le regole alla base della società fino ad arrivare a rendere schiave le donne fertili. Queste ultime sono denominate ‘ancelle’ e sono contraddistinte da riconoscibili abiti rosso porpora. Costrette ad avere rapporti sessuali con i Comandanti del regime, queste donne hanno il dovere di assicurare a Gilead un futuro rinunciando a sentimenti e libertà. Una di loro è Difred (Elisabeth Moss), protagonista e narratrice del racconto. Intorno a lei ruota un microcosmo di personaggi con diversi ruoli al centro di alcuni sconvolgenti avvenimenti.
Approdato ad aprile sulla piattaforma di streaming Hulu, lo show televisivo, visto il grande successo di pubblico e critica, dopo solamente una settimana si è assicurato il rinnovo per una seconda stagione, garantendosi un destino ben diverso da quello riservato all’omonimo e bistrattato adattamento cinematografico del 1990 che si pregiava della sceneggiatura di Harold Pinter. Il merito di questo grande successo va ricercato in un risultato più unico che raro in cui coincidono forma e sostanza: l’importante messaggio legato al ruolo della donna nella società attuale, più che mai urgente con Trump alla Casa Bianca e casi di molestie nella scintillante Hollywood, è accompagnato da un’ottima messa in scena e da una solida struttura narrativa scandita da flashback che non cade sotto al peso del contenuto.
All’ultima edizione degli Emmy, la serie ha conquistato ben 8 premi, uno dei quali ha riconosciuto la straordinaria performance di Elisabeth Moss che, nei panni della protagonista, ha saputo costruire un personaggio credibile, empatico, la cui silenziosa battaglia interiore affiora in superficie in pochi ed efficaci momenti cruciali della storia. Il risultato, tuttavia, non sarebbe stato lo stesso senza un solido gruppo attoriale, in maggioranza coniugato al femminile, in grado di sostenere la narrazione evidenziandone ogni sfumatura: ammirevoli Yvonne Strahovski e Alexis Bledel. Tra sequenze in cui si alternano colori freddi a toni più caldi, si accendono le aspettative per una seconda stagione che dovrà rispondere a diversi interrogativi sviluppando un finale di stagione con spiragli di speranza per la terra di Gilead. Foto tratte da: Immagine 1: http://www.xfdrmag.net/ Immagine 2: http://www.hollywoodreporter.com/ Immagine 3: http://gadgets.ndtv.com/ Immagine 4: http://www.theloop.ca/
Secondo adattamento cinematografico, tratto dall’omonimo romanzo (1951) della scrittrice Daphne du Maurier – dopo il film del 1952 di H. Koster - Mia cugina Rachel di R. Michell è un dramma sentimentale in costume che ci riporta alle atmosfere agresti dell’Inghilterra dei primi anni dell’Ottocento. All’inizio della pellicola, la voce narrante di Philip (interpretato da Sam Claflin, diventato famoso con la saga di Hunger Games e con la commedia romantica Io prima di te) ci conduce immediatamente in medias res, con il racconto sulla propria infanzia insieme al cugino Ambrose che lo aveva adottato, perché orfano, e accolto come un figlio.
Al centro della storia Rachel (Rachel Weisz), misteriosa presenza, attorno alla quale si concentrano i sospetti di Philip e della comunità circa la morte di Ambrose. Quest’ultimo infatti, recatosi a Firenze in tarda età, aveva conosciuto la donna e inspiegabilmente, nonostante la propria misoginia, l’aveva sposata. Quest’ultima, molto più giovane di Ambrose, è Rachel. Arrivata dall’Italia, si fa attendere non poco sulla scena e si mostra improvvisamente in tutta la sua seducente ed elegante bellezza, inserendosi, con fare affascinante, nell’ambiente austero e cupo della tenuta.
Spregiudicata, cinica e interessata solo al patrimonio di Ambrose, nell’immaginario di Philip; Rachel si rivelerà al contrario una donna dolce e seducente, tanto che i sentimenti del giovane cugino si muteranno rapidamente già dal primo incontro fino a essere travolto da una passione violenta e irrazionale, alimentata dall’ambiguità dei gesti della cugina.
Non tutti i dubbi sul passato e sui reali interessi della donna, apparentemente angelica quanto indecifrabile, verranno sciolti. Un film godibile per un racconto antico ma tutto sommato intrigante, dalle atmosfere a tratti gotiche e thriller, vagamente hitchcockiane, in cui assaporiamo il fascino quieto e quasi immobile delle praterie e del mare di Cornovaglia che fa da contrappunto al tumulto delle passioni e che piega verso un finale aperto alle più varie interpretazioni.
Immagini tratte da: http://cinema.everyeye.it/notizie/mia-cugina-rachele-ecco-trailer-poster-con-rachel-weisz-288016.html https://www.comingsoon.it/film/rachel/53704/scheda/ https://www.13thfloor.co.nz/my-cousin-rachel-director-roger-michell/ http://splashreport.com/film-review-my-cousin-rachel/
Il canadese Denis Villeneuve accetta la sfida riportando sul grande schermo l’opera definita pietra miliare dello sci-fi, diretta nell’82 da Ridley Scott, tratta dal romanzo di Philip K. Dick: “Do Androids Dream of Electric Sheep?”, Blade Runner. ![]()
Titolo originale: Blade Runner 2049
Paese di produzione: USA, Canada, UK Anno: 2017 Durata: 163’ Genere: Noir, drammatico, sci-fi Regia: Denis Villeneuve Sceneggiatura: Hampton Fancher, Michael Green Distribuzione: Warner Bros. Pictures Fotografia: Roger Deakins Montaggio: Joe Walker Musiche: Hans Zimmer, Benjamin Wallfisch Scenografie: Dennis Gassner Cast: Ryan Gosling (Agente K), Harrison Ford (Rick Deckard), Ana de Armas (Joi), Sylvia Hoeks (Luv), Jared Leto (Neander Wallace), Robin Wright (Tenente Joshi), Mackenzie Davis (Mariette).
Nella Los Angeles del 2049 la Tyrell Corporation ha chiuso i battenti e gli ultimi replicanti prodotti vengono cacciati dal nuovo leader del settore Niander Wallace (Jared Leto). Il pianeta è sopravvissuto a vari disastri ambientali e un misterioso blackout ha azzerato la memoria delle macchine. In una città oscura dove le luci dei neon la fanno da padrone, l’agente K (Ryan Gosling) si troverà di fronte a una sensazionale scoperta, destinata a cambiare il destino dell’umanità e non solo. Blade Runner 2049 non è affatto un sequel o un’operazione nostalgia che richiama al “vecchio” film dell’82, ci troviamo di fronte al primo episodio di un progetto più ampio (il franchise è dietro l’angolo).
Villeneuve si serve delle ambientazioni tetre e affascinanti del film di Scott ed esplora il magnifico universo dello scrittore Dick, regalandoci un’opera originale, dalla sceneggiatura solida che convince senza farci perdere la testa. Non ci troviamo di fronte a un capolavoro per interderci, ma davanti a un’ottima pellicola che tiene lo spettatore con il fiato sospeso e ci fa emozionare con degli effetti visivi mozzafiato. Ryan Gosling veste a meraviglia i panni del freddo e curioso detective K, un replicante alla disperata ricerca di umanità: “Stiamo tutti cercando qualcosa di reale”. Il cineasta canadese, con l’aiuto dei due abili sceneggiatori Hampton Fancher e Michael Green, cuce addosso a Gosling un abito perfetto. Non puoi fare a meno di innamorarti di questa macchina straordinaria che rivive ricordi “veri”, che cerca un proprio ruolo all’interno del gioco della creazione, uno dei tanti temi filosofici affrontati durante la pellicola. É evidente che il Blade Runner di Villeneuve non è il classico sci-fi per eccellenza: non ci parla del futuro ma esamina con occhio critico la nostra società contemporanea. Lo spettatore certamente non rimane sorpreso dagli ologrammi o dalle macchine che volano (roba vista e rivista). Il regista si distacca dai concetti classici della fantascienza e ci regala un’opera intima, dalle tinte noir che si mescolano alla perfezione con i colori del poliziesco.
Il mondo del 2049 è molto simile al nostro: una polveriera pronta a esplodere, con dei protagonisti vuoti, confusi e folli come il villain non vedente Wallace, unica nota dolente dell’ottimo cast dovuta allo scarso approfondimento del personaggio e all’orrenda interpretazione di Leto (colpevolmente sopravvalutato). I sentimenti, le emozioni e persino i nostri ricordi possono essere distorti e manipolati nella Los Angeles di Denis e non è forse questo quello che sta accadendo a noi nel 2017? Nel nostro quotidiano, infatti, siamo sommersi da continue operazioni nostalgiche che giocano con i nostri sentimenti e come K, per gli amici “Joe”, siamo talmente disperati da cercare l’amore nelle macchine, come la sua Joi, la ragazza programmata per soddisfare “ogni tuo singolo desiderio”, interpretata dalla bellissima attrice cubana Ana de Armas. Con questo primo capitolo della saga l’esperto e meticoloso Villeneuve vuole farci riflettere, mostrandoci un’umanità che non riesce più a intravedere un futuro e sono proprio le fredde “skinner” (pellacce) macchine a bramare la nostra anima: “essere più umani degli umani”.
Il cast della pellicola, come già accennato in precedenza, è forte e pieno di talento: Dave Bautista, Robin Wright, la perfida Sylvia Hoeks (che interpreta Luv, la replicante malvagia) e Mackenzie Davis si trovano perfettamente a loro agio in questa distopica città e il ritorno di Rick Deckard viene celebrato alla grande dalla convincente prova dell’arzillo Harrison Ford. Proprio quest’ultimo è il protagonista di una delle più belle scene del film: una scazzottata “vecchio stile” tra lui e Gosling contornata dagli ologrammi di Marylin ed Elvis. La fotografia di Roger Deakins (uno dei papabili vincitori ai prossimi Oscar) è senza dubbio sublime, una delle più belle degli ultimi anni che tocca il suo apice nella scena del ménage à trois amoroso.
Blade Runner 2049 non può e non deve essere paragonato alla pietra miliare di Scott e va dato merito a Denis Villeneuve di non essere caduto nella banalità e averci regalato un’opera interessante, ricca di molteplici spunti e riflessioni. I punti deboli risiedono senza dubbio nell’eccessiva durata della pellicola e della scelta assai rivedibile di Leto, ma il regista canadese, dopo Arrival, si conferma un’assoluta certezza del nostro cinema contemporaneo e non possiamo non consigliarvi di andare al cinema ad ammirare la sua ultima fatica. Come sempre la redazione del IlTermopolio vi augura buon cinema.
Link immagini: Locandina: Coming Soon Immagine1: LaineyGossip.com Immagine2: Collider Immagine3: THR.com Immagine4: Nerdlist.com
Una serie di piani-sequenza seguono la danza dei protagonisti: c’è chi è indaffarato a comprare frutta ai banchi del mercato disposti sull’asfalto e chi è impegnato in una telefonata stando attento a schivare la traiettoria delle macchine che scorrazzano nelle strade del centro. Siamo a Madrid e, per pura casualità, una serie di personaggi si trova contemporaneamente nello stesso spazio, un anonimo bar, poco invitante a dire il vero.
I clienti abituali fanno colazione, gli avventori osservano incuriositi il locale, qualcuno inizia a gettare monete nel videopoker, alla ricerca di un colpo di fortuna, e un senzatetto conosciuto in tutto il quartiere cerca di scroccare un bicchierino e un churro: sembra una mattina come tutte le altre, ma a un certo punto succede qualcosa di strano. Un cliente lascia il locale e, appena fuori dalla porta, un colpo di arma da fuoco lo uccide all’istante. All’interno del bar si scatena il panico. Dopo aver cercato un riparo di fortuna sotto i tavolini o dietro il bancone, il gruppo di malcapitati si accorge di una cosa molto inquietante. Fuori, la strada è deserta e silenziosa, quasi che fosse stata ordinata un’evacuazione generalizzata. Da questo punto in avanti nessuno osa uscire e all’interno del bar si instaura un clima di tensione per cercare di capire che sta succedendo e per quale motivo l’interno del locale sembra isolato dal resto della città. El Bar di Alex de la Iglesia è un thriller con tocchi da commedia e una deriva pulp che, nella seconda parte, smorza un po’ la pungente ironia che caratterizza l’inizio del film. De la Iglesia calca la mano sul grottesco in questo film, che assomiglia per impianto a una pièce teatrale: pochi personaggi in un ambiente chiuso che interagiscono tra loro creando dramma e tensione. Ed è proprio questo l’intento del regista, cercare di indagare i meccanismi che trasformano un gruppo di cittadini qualunque in un branco di lupi, pronti a sbranarsi l’un l’altro per salvare la pelle. Il film è godibile nel complesso, per questo mix di tensione e comicità, e scorre bene soprattutto nella prima parte, ma da un certo punto in poi il ritmo sembra rallentare troppo senza trovare soluzioni stilistiche adeguate per tenere alta la soglia di attenzione dello spettatore.
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Titolo del film: "The Wicked Gift"
Regista e sceneggiatore: Roberto D’Antona Produttori: Alessandro Rossi, Annamaria Lorusso, Roberto D’Antona Produttori esecutivi: Annamaria Lorusso, Roberto D’Antona, Stefano Pollastro, Paola Laneve, Francesco Emulo Co-produttori esecutivi: Maria Giase, Domenico Uncino, Aurora Rochez, Alex D’Antona, Erica Verzotti Fotografia: Stefano Pollastro Manager di produzione: Francesca Sacchetti Scenografia: Cristina Francese, Giacomo Carri, Danila Leoni Musica: Aurora Rochez Effetti visivi: Francesco Longo Cast: Roberto D'Antona: Ethan D'amico Annamaria Lorusso: Ada Bloise Francesco Emulo: Andrea Conte Kateryna Korchynska: Alice Ferri Andrea Milan: Eric
Ethan (Roberto D'Antona) un giovane designer, timido e piuttosto riservato che da anni è afflitto da insonnia a causa di terribili incubi. Decide di andare in terapia per risolvere il suo problema pensando di avere disturbi della personalità, ma sarà grazie all'aiuto del suo migliore amico e di una Medium (Annamaria Lorusso) che affronterà il lungo viaggio che lo condurrà alla consapevolezza che i suoi incubi nascondono qualcosa di molto più oscuro di quanto potesse immaginare. Rilasciata all'Italian Horror Show di Latina la data di uscita di The Wicked Gift, l'horror/thriller psicologico del giovane regista italiano Roberto D'Antona sarà il 6 dicembre nelle sale italiane.
Durante l'evento, al quale hanno partecipato oltre al regista D'Antona, anche l'attrice e coproduttrice del film Annamaria Lorusso attrice, regista e produttrice pugliese molto conosciuta all’interno del panorama indie italiano e l'attore ferrarese Michael Segal che ha girato numerosi cortometraggi e fiction e in seguito è diventato guru del cinema indipendente ed horror made in Italy, è stato presentato anche il nuovo trailer, disponibile da oggi sulla pagina Facebook del film, sul sito internet e sul canale YouTube, oltre ad essere proiettato al cinema. Dopo il grande successo internazionale della serie TV The Reaping - acquistabile da qualche giorno online in Dvd e BluRay - che ha ottenuto numerosi consensi dalla critica e vittorie nei vari festival di tutto il mondo, D'Antona arriva al cinema con un progetto ambizioso, co-prodotto e distribuito da Movie Planet Group un’azienda che si colloca tra i primi 5 circuiti d‘Italia, grazie alle 6 multisala che si dividono un bacino d’utenza pari a 3milioni di abitanti per un totale di 1 milione e 300mila spettatori riconfermati ogni anno, con uno staff che opera da anni nel mercato cinematografico nazionale. The Wicked Gift" è un horror psicologico intenso e spiazzante, che inquieta, spaventa molto, ma si discosta totalmente dai cliché del cinema italiano del genere, ispirandosi, nella regia e nei temi trattati, all'horror contemporaneo statunitense e australiano aggiungendo anche qualche momento divertente per allentare la tensione. Come la trama apparentemente semplice già preannuncia, The Wicked Gift promette numerosi colpi di scena (non é solo la classica storia di mostri o fantasmi). Infatti si tratta essenzialmente di un thriller psicologico con un cast ben assortito. Ad interpretare i i quattro protagonisti oltre a Roberto D'Antona, Annamaria Lorusso (la medium), sono presenti Francesco Emulo e Kateryna Korchynska che provengono dai circuiti internazionali indipendenti, come anche Alice Viganò, David White, Mirko D'antona, Andrea Milan, e Michael Segal.
Sito del film: www.thewickedgift-movie.com Canali social del film: https://m.facebook.com/TheWickedGift/ https://www.instagram.com/thewickedgiftmovie/ https://mobile.twitter.com/thewickedgift Immagini tratte da: http://www.mondospettacolo.com/ |
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Maggio 2023
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