di Enrico Esposito
![]() Data di uscita: 17 maggio 2018 Genere: Drammatico Anno: 2018 Durata: 102' Regia: Matteo Garrone Cast: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Alida Baldari Calabria, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli Sceneggiatura: Ugo Chiti, Massimo Gaudioso, Matteo Garrone Fotografia: Nicolaj Brüel Montaggio: Marco Spoletini Colonna Sonora: Michele Braga Produzione: Archimede, Rai Cinema, Le Pacte Distribuzione: 01 Distribution Paese: Italia, Francia
Il successo di Dogman non è arrivato come un fulmine a ciel sereno. Una delle sue fortune è consistita probabilmente nel fatto di essere stato accolto e valutato con calma, e ben presto acclamato da pubblico e critica, con la straordinaria vittoria della Palma d'Oro a Cannes per Marcello Fonte nel ruolo di "Miglior Attore Protagonista" e la selezione a rappresentante delle pellicole italiane nella categoria di "Miglior Film Straniero" ai prossimi Oscar. Uno dei segreti di questo meritato exploit per Matteo Garrone e il suo nuovo film deriva dalla matrice "italiana" della storia, dall'abilità da parte del cineasta romano di scavare a fondo all'interno del sottosuolo delle nostre città, tra le periferie soffocate dal caldo e le catapecchie come in "Gomorra". Oppure l'occhio indagatore nelle botteghe di antiquariato di "L'imbalsamatore" o dietro le porte di storie d'amore solo apparentemente comuni ("Primo Amore"). Uno sguardo "verista", che punta dritto a osservare da distanza ravvicinatissima la vita e la psicologia di persone non appariscenti, protagoniste di atti criminali commessi all'apice di un'ossessione.
"Dogman" porta sul grande schermo ancora una volta un episodio della cronaca italiana, quello riguardante la figura di Pietro De Negri, "Er Canaro", chiamato così dalla sua attività di toelettatore per cani che svolgeva nel negozio di Via della Magliana, nel quartiere capitolino di Portuense. Nella pellicola Pietro diventa Marcello, come lui un uomo del Sud (è interpretato da Marcello Fonte, attore calabrese, mentre De Negri era originario di Caltanissetta), che gestisce la sua piccola attività nel quartiere della Magliana Nuova, zona in cui la vita non è facile. Come De Negri, Marcello è un cocainomane, spaccia e vive un rapporto burrascoso con Simone (Edoardo Pesce), un deliquente del posto mal sopportato da tutti a causa del suo carattere aggressivo e irruento. Simone trascorre le sue giornate a commettere furti per mettere assieme i soldi necessari per comprare le dosi quotidiani di roba e trova nel mite Marcello il miglior complice per poter portare a termine un colpo in una villa. Marcello ha la "colpa" di prestare ascolto e di assecondare, spaventato dalle minacce fisiche di Simone. E come condannarlo? Il suo "amico" è un marcantonio che lo sovrasta, e sarebbe capace di fargli tutto, anche ucciderlo. Per questo motivo accetta, gli fa da autista durante la rapina, e accetta di ricevere pochi spiccioli dal furto. Così facendo non sa che è entrato ormai in un vicolo cieco: Simone continua a sfruttarlo e presto giunge a obbligarlo a fargli da basista per una rapina alla gioielleria adiacente al suo negozio. Il piano è semplice: Simone farà un buco nella parete di cartongesso che unisce i due negozi e Marcello lo coprirà, lasciando libero di compiere il "lavoro" all'interno del suo stabile. Non c'è facoltà di scelta per il canaro, né possibilità di opporsi. Simone ottiene quel che vuole e il mattino successivo, alla scoperta del furto, Marcello viene portato presto in centrale e interrogato per quanto accaduto. In questo momento del film si verifica uno dei punti di svolta dell'intera vicenda: al momento di deporre e accusare Simone, Marcello si dichiara colpevole della rapina e viene condannato a un anno di reclusione. Marcello sconta la pena mentre il suo aguzzino è libero e si concede un regalo: una motocicletta di grossa cilindrata con cui scorrazzare nel quartiere. All'uscita dal carcere, il canaro ritrova l'unica persona alla quale è legato con un rapporto profondo e sentimentale: la sua piccola figlia, avuta da un precedente matrimonio, con la quale trascorre bei momenti in negozio mentre si occupano dei cani, e progetta di intraprendere viaggi alla scoperta delle meraviglie del mare. Marcello torna al quartiere ma ormai è emarginato da tutti gli altri abitanti, coloro con i quali prima pranzava, giocava a calcetto e intratteneva un buon rapporto. Non hanno perdonato l'atto infame di cui si è macchiato ai danni di uno di loro, i suoi amici, e ora lo lasciano da solo, di fronte a Simone. Ma il Marcello reduce da un anno di carcere sembra diverso da quello di prima. Nonostante gli affari vadano male, non si perde d'animo e si rimbocca le mani per risollevare l' attività, proponendosi come dog-sitter e predisponendo un furgone con il quale organizzare una promozione dei suoi servizi. E soprattutto nel rinnovato confronto con Simone le cose cambiano. Marcello non è più succube, cerca vendetta, e si rende conto che grazie all'astuzia può prendersi la rivincita. Ci si approssima così al finale di "Dogman". Un epilogo in pieno stile Garrone, funambolico e forse non atteso, ma che si può considerare ineluttabile esplosione della greve atmosfera che pervade l'intera narrazione. C'è pochissimo spazio per i sorrisi lungo l'arco della pellicola, così come per gli uomini buoni, e per l'azzurro del cielo. L'ambientazione tetra, quasi desolata che contribuisce a trasmettere allo spettatore il senso di sgomento e amarezza vissuto all'ordine del giorno dagli uomini e donne che abitano le zone della periferia italiana in cui la giustizia si fa viva a giochi fatti, quando è troppo tardi, mentre il sopruso e il silenzio ridono sino all'accidente e i poveri cristi a volte si fanno travolgere dalla disperazione. Immagini tratte dalla pagina facebook ufficiale di Matteo Garrone
0 Commenti
di Matelda Giachi ![]() Data di uscita: 25 ottobre 2018 Genere: Thriller, Noir Anno: 2018 Durata: 141’ Regia: Drew Goddard Cast: Jeff Bridges, Chynthia Erivo, Jon Hamm, Dakota Johnson, Cailee Spaeny, Lewis Pulmann, Chris Hemsworth Sceneggiatura: Drew Goddard Fotografia: Seamus McGarvey Montaggio: Lisa Lassek Colonna Sonora: Michael Giacchino Effetti Speciali: Joel Whist Produzione: 20th Century Fox Distribuzione: 20th Century Fox Paese: Stati Uniti “El Royale” è un albergo costruito sopra il confine tra la California e il Nevada, frequentato dai più prestigiosi politici e personaggi dello spettacolo dei tempi, a causa della singolarità dell’essere per metà in uno stato e per metà in un altro. Quando però vi entriamo noi è il 1969 e gli antichi fasti sono solo un ricordo, la hall è vuota, c’è aria di decadenza. Ma per una notte El Royale torna a essere luogo di incontro per sette sconosciuti a cui cambierà la vita. Di questi personaggi non sappiamo nulla, intuiamo solo che nascondono qualcosa; si scopriranno pian piano, nel corso di 141 minuti durante i quali il regista si diverte a svelarne la verità e le menzogne. Sette sconosciuti che convergono in un unico luogo. Drew Goddard ha dichiarato di voler esplorare, col suo film “l’idea che una notte in un hotel possa cambiare la vita di tutti”. Ma anche un chiaro omaggio e richiamo a Tarantino, al suo “The Hateful Eight”, ma con un personaggio di meno. O forse no. Forse no perché lo spazio, El Royale stesso, è protagonista, forse il più grande. È la rappresentazione stessa del sogno americano, con la metà californiana che rappresenta la promessa di sole e calore e il Nevada che invece promette un cambiamento radicale di vita. Un sogno destinato a infrangersi dopo gli anni ’60, a decadere, come lo stesso El Royale. Drew Goddard, regista e sceneggiatore, ha definito il suo film come “il film della passione” e la passione si vede nella cura meticolosa di ogni dettaglio, nella scelta di girare su pellicola invece che in digitale, nella scelta del formato anamorfico, ispirato ai film di Sergio Leone, dove l’inquadratura si allarga per includere maggiore spazio, per abbracciare tutti e sette i protagonisti, perché Sette Sconosciuti a El Royale nasce quasi per il teatro. La fotografia è eccezionale, le musiche altrettanto. Si tratta di pezzi già scritti ma scelti perché aventi un testo che rispecchia esattamente il mood che Goddard vuole trasmettere in quella determinata scena. Attraverso la musica, si impara a conoscere i personaggi. Tra questi, proprio grazie alle esibizioni che è stato scelto di registrare direttamente dal vivo, emerge in particolare la figura di Chynthia Erivo, per lo più sconosciuta al mondo del cinema ma vincitrice di Emmy, Grammy e Tony Awards per le sue performances a Broadway. La sua Darlene, aspirante cantante piena di ottimismo, sogni e paure, è l’anima più forte del film. La sua voce è emozione allo stato puro. Anche Chris Hemsworth si può dire una sorpresa: non si limita a esporre il proprio fisico statuario e a lasciarlo lì in scena; lo usa, ci gioca, lo rende parte del suo personaggio. Intramontabile Jeff Bridges, promettente la giovanissima Cailee Spaeny. Bravissimo Lewis Pulmann, meno di impatto Dakota Johnson e Jon Hamm. Non sentiamo spesso il nome di Drew Goddard al cinema, anche se in realtà il suo operato è dietro serie di successo come Buffy, Lost e, più recentemente, Daredevil, ma alla tredicesima edizione della Festa del Cinema di Roma ha portato sul Red Carpet un ottimo film. Peccato sul finale si perda un po’ in 15 minuti poco utili ai fini narrativi che invece appesantiscono la visione. Voto: 8,5/10
Immagini tratte da: www.comingsoon.it www.post-gazette.com www.fanforum.com www.comingsoon.it
di Carlo Cantisani ![]()
Titolo originale: Sicario: Day of the Soldado
Data di uscita: 29 giugno 2018 (Stati Uniti), 18 ottobre 2018 (Italia) Genere: action/thriller Anno: 2018 Regia: Stefano Sollima Cast: Benicio Del Toro, Josh Brolin, Isabela Moner, Jeffrey Donovan, Manuel Garcia-Rulfo, Catherine Keener, Matthew Modine Sceneggiatura: Taylor Sheridan Fotografia: Darius Wolski Montaggio: Matthew Newman Colonna Sonora: Hildur Guðnadóttir Produzione: Black Label Media, Thunder Road Pictures Distribuzione: Columbia Pictures, Lionsgate, 01 Distribution Paese: USA Durata: 122’
All’inizio della lavorazione di Soldado, si pensò di reintrodurre la figura dell’agente dell’FBI Kate Macer, personaggio interpretato da Emily Blunt nel primo Sicario del 2015. Stefano Sollima, subentrato a Denis Villeneuve come regista di questo secondo capitolo, decise però di non sfruttare più Macer, in quanto avrebbe ricoperto ancora il ruolo di bussola morale, capace di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, nonostante sarebbe stata immersa in un ambiente in cui bene e male si sarebbero confusi molto spesso. Dello stesso avviso lo sceneggiatore Taylor Sheridan, che aveva lavorato anche al film del 2015: per lui, il personaggio della Blunt aveva esaurito la sua funzione e aveva detto tutto ciò che aveva da dire.
Questo particolare riguardante l’utilizzo di questo specifico personaggio può sembrare, a prima vista, di secondo piano, ma in realtà cambia molto delle carte in tavola disposte per Soldado. La scelta di Sollima e Sheridan suona come una ben precisa dichiarazione d’intenti: poco spazio – anzi, nessuno – per questioni morali, domande e dubbi sul comportamento al limite degli attori coinvolti nella vicenda. Largo, invece, all’azione e alla tensione che la storia sa creare, e se proprio si vuole proseguire sulla strada che porta a chiedersi dov’è il bene e dov’è il male, allora che se la sbrighi lo spettatore una volta che le luci della sala saranno di nuovo accese. Soldado, come indica il titolo, esegue alla lettera gli ordini del buon, vecchio filone action del cinema di genere e lo fa cercando di sfruttare appieno tutte le sue armi, regalando 122 minuti costantemente in tensione fino alla fine.
Soldado, dedicato al compositore Johann Johannsson, compositore delle musiche di Sicario e morto lo scorso febbraio, non è esattamente la continuazione di Sicario, bensì un prolungamento di quell’universo narrativo visto da un’altra prospettiva. Ha quindi il pregio di poter essere gustato sia da chi ha visto il primo film e sia da chi non lo conosce affatto. L’unico filo conduttore sono i due attori principali, Josh Brolin e Benicio Del Toro, oltre quello che potrebbe essere considerato il vero e proprio protagonista di entrambi i film, ovvero il confine fra Stati Uniti e Messico. Per la scrittura di Sheridan, l’idea di confine è oramai diventata una caratteristica cifra stilistica, raccontata in altre opere come Sicario, appunto, ma anche Hell Or High Water e I Segreti di Wind River (dove è anche regista). Una scrittura semplice, senza fronzoli e tutta intenta a mirare al cuore della vicenda e ai drammi umani che accompagnano i personaggi, affondando le sue mani nel western e nei thriller anni ’70 ma con il grande pregio di sapersi riadattare al presente. Soldado è permeato di questo spirito: al confine Usa-Messico, i narcos fanno affari facendo oltrepassare illegalmente i clandestini diretti negli Stati Uniti, e per fermare i narcotrafficanti il governo americano affida l’incarico a Matt Graver (Josh Brolin), agente federale dai metodi molto poco ortodossi. Ad affiancarlo, il sodale Alejandro (Benicio Del Toro), agente speciale ancora in cerca di vendetta dopo che la sua famiglia è stata sterminata da Reyes, un potente signore della droga. Il piano prevede il rapimento della figlia di quest’ultimo, Isabela (Isabela Moner), durante un’operazione sotto copertura in modo da scatenare una guerra fra bande rivali di narcos che porti alla vicendevole auto eliminazione. Naturalmente le cose non andranno come previsto e fra intrighi, voltafaccia e sparatorie ben calibrate e mai sopra le righe, Stefano Sollima fa emergere il suo tratto distintivo che permette al film, da un lato, di mantenere intatta l’atmosfera del precedente Sicario, e, dall’altro, di donare a questo universo narrativo un taglio differente. Se la regia di Villeneuve, infatti, era più propensa verso una maggiore libertà e ricerca, come testimoniano le sue ampie visuali del deserto messicano, quella di Sollima limita questo approccio e dà un taglio più netto e deciso, ma soprattutto dinamico tipico da film d’azione, all’impianto registico. Molto del fascino di Soldado è dato proprio dalla sapiente regia del cineasta romano - qui alla sua prima incursione a Hollywood - che si conferma ancora una volta fra i più importanti e interessanti registi italiani contemporanei.
Da una parte, quindi, la regia di Sollima, sicura, energica e sempre tesa, assai efficace nel sottolineare momenti chiave e di alto impatto, come il carrello che inquadra lentamente l’attimo prima di un’esplosione a opera di un terrorista in un supermercato, o le visuali dall’alto durante le incursioni; dall’altra la sceneggiatura di Sheridan, lineare, diretta e senza fronzoli, a volte un po’ dispersiva, come nella prima ora di film in cui si mettono sul tavolo svariate location e nuclei d’azione per poi lasciare cadere il tutto senza che venga ripreso in un secondo momento. Due elementi che si muovono in sinergia, riuscendo a confezionare un ottimo film di genere e che, come ogni prodotto di buon artigianato, riesce anche a mascherare i suoi eventuali difetti. Chi ha già visto il precedente Sicario saprà cosa aspettarsi dalle performance di Brolin e Del Toro, impegnati ancora una volta a dare forma ai loro personaggi senza che uno prenda il sopravvento sull’altro. Notevole anche la prova della giovane Moner, che, nonostante la statura dei due attori principali, riesce a ritagliarsi i suoi spazi con un personaggio che ondeggia fra estrema fragilità, perspicacia e una certa dose di violenza latente in quanto figlia di un narcos (eloquente la sequenza in cui, poco prima di essere rapita, picchia una compagna di classe che le ha dato della “puttana narcotrafficante”). Insieme al vendicativo Alejandro è di certo il personaggio più interessante del film, anche se, alla fine, è evidente come Soldado voglia puntare di più il suo sguardo su Del Toro. Proprio però quando la storia si fa più asciutta e l’azione vorrebbe lasciare spazio ai dilemmi di ogni personaggio di fronte a scelte rischiose, il film è quasi arrivato alla fine.
Il problema principale di Soldado è forse, alla fine, proprio questo: corre troppo di fretta e rischia così di perdere pezzi importanti della storia lungo la strada. Il lato positivo di quest’aspetto è che la tensione non viene mai meno, neanche per un secondo, riuscendo a catalizzare l’attenzione dello spettatore in ogni momento come ogni buon film action/thriller dovrebbe fare. Il pegno che paga è di mostrarsi per quello che è: un’opera di mezzo, il cui fine è quello di fare da transito verso un terzo capitolo che tiri le somme. Ma alla fine, allo spettatore poco importa: ad avercene di opere del genere che riescano a rileggere il mito della frontiera con uno sguardo perfettamente calato nel contemporaneo, senza rinunciare al fascino e al sano intrattenimento del cinema di genere, il quale, ancora una volta, si pone come modus operandi irrinunciabile per storie universali.
Immagini tratte da: 01distribution.it/film/soldado notey.com/ comunidadeculturaearte.com http://english.onlinekhabar.com/ Potrebbe interessarti anche: di Federica Gaspari ![]() Paese: Stati Uniti Anno: 2018 Formato: miniserie Genere: horror Puntate: 10 Regia: Mike Flanagan Sceneggiatura: Mike Flanagan, Liz Phang, Scott Kosar, Meredith Averill, Jeff Howard, Charise Castro Smith Produzione: Amblin Television, Paramount Television, Intrepid Pictures Cast: Michiel Huisman, Carla Gugino, Elizabeth Reaser, Kate Siegel, Timothy Hutton, Oliver Jackson-Cohen, Victoria Pedretti Con il mese di ottobre si entra nel vivo della nuova stagione del piccolo schermo. I titoli e le figure in gioco quest’anno sono di grande rilievo: molti i grandi nomi al debutto in televisione ma altrettanti gli interpreti meno noti che muovono passi all’apparenza più incerti. Lo scorso 12 ottobre sulla piattaforma di Netflix, con un discreto alone di mistero, è comparsa una mini-serie in dieci punti che, alla produzione, vanta anche l’influenza di un certo Steven Spielberg che, con la sua Amblin Television, in passato ha regalato al pubblico prodotti di ottima qualità. Hill House – ultimo di una serie ma non per prestigio – era, tuttavia, una vera scommessa sin dal principio. Rimasto all’ombra di serie-evento come Maniac, il gioiellino di Mike Flanagan rischiava di passare inosservato. Tratta dall’omonimo romanzo di Shirley Jackson del 1959, questa miniserie nel suo cambio di formato richiedeva un’operazione in grado di sfruttare al meglio ogni sua sfaccettatura di genere. Se, infatti, sulla carta si trattava della più classica ghost story à la Henry James, nelle intenzioni ogni episodio doveva trovare un voce più moderna e multiforme. Si sono così aperte, con qualche ingannevole scricchiolio, le porte della dimora di Hill House, un luogo straordinario e incredibilmente pericoloso. La famiglia Crain durante i mesi estivi si trasferisce in un’antica ed elegante abitazione isolata tra le colline. I cinque fratelli e i genitori, tuttavia, non sanno che quelle mura nascondono segreti e misteri pluricentenari, sussurri e rumori che segneranno per sempre le loro vite. Diversi anni dopo quell’insolita estate, il passato riaffiora prepotentemente nella quotidianità dei fratelli Crain costretti così a fare i conti con la propria famiglia, le proprie perdite e, soprattutto, con se stessi. Nessuna etichetta può inquadrare e comprendere al meglio questa mini-serie che, allo scorrere dei titoli di coda dell’ultima puntata, si rivela a grande sorpresa come una delle migliori di quest’anno. Non è un horror, o meglio: non è un horror nella concezione classica ricca di jump-scare, sangue e dettagli macabri. Hill House ha un tono avvolgente e contemporaneamente ambiguo che cattura gradualmente esplorando le personalità dei cinque fratelli per poi trovare il suo apice di tensione e sottile angoscia nel sesto episodio, un capolavoro di tecnica sia dal punto di vista registico che sotto l’aspetto della sceneggiatura. I lunghi e affascinanti piani sequenza rappresentano il passaggio da un’elegante prima parte da dramma psicologico a una seconda thriller che non disdegna l’horror più tradizionale avventurandosi tra le stanze di una casa infestata.
La riuscita è senza dubbio da attribuire a un insieme di interpreti più e meno noti in grandissima forma. Le loro paure e i loro più nascosti segreti sono il motore di un racconto che sa andare in profondità riflettendo su temi come il lutto, la malattia mentale e la colpa attraverso la simbologia dei fantasmi. La possibilità di vivere insieme ai protagonisti un viaggio così introspettivo e di poterlo interpretare secondo molteplici chiavi di lettura, infine, è il colpo di genio finale. Una serie da non perdere che saprà sfidare ogni vostra possibile ritrosia legata al genere e, in breve tempo, vi terrà incollati allo schermo. Immagini tratte da: www.geektyrant.com www.netflix.com di Matelda Giachi
Un soggetto che piace, quello di A Star is Born che è oggi al suo terzo remake. La prima versione risale addirittura al 1937. Si tratta in effetti di un classico di Hollywood, il racconto di una stella nata dal nulla. Jackson Maine (Bradley Cooper) è un musicista di successo ma sempre più divorato dall’abuso di alcol e droghe. Una sera, fermandosi in un locale di drag queens in cerca dell’ennesima bevuta, scopre Ally (Lady Gaga), una ragazza di enorme talento che è però prigioniera di una vita anonima. Due esistenze apparentemente agli antipodi ma con molto in comune, in primis il bisogno e la voglia di raccontarsi. Perché “Tanta gente ha talento, la differenza la fa se hai qualcosa da dire”. Tra i due nasce un grande amore, mentre la carriera di lui è in declino e quella di lei decolla, come se avvenisse una sorta di passaggio di testimone. Presentato in anteprima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia come pellicola fuori concorso, è definito da molti come il “film dell’anno”; l’entusiasmo è forse un po’ fuori misura, ma sicuramente A Star is Born ha molto di buono. É un film di prime volte, di collaborazione e fiducia. Di passione e di voglia di sperimentare. Prima volta alla regia per Bradley Cooper, prima volta da attrice protagonista per la cantante Lady Gaga, al secolo Stefani Germanotta. Il film, al di là del canovaccio classico, nasce dalla passione di Cooper per la musica e da quella di Gaga per la recitazione. Ed è così che i due protagonisti si sono affidati l’uno all’altra. Lui si è lasciato guidare nell’ambito musicale, ha accettato che le performances fossero tutte registrate dal vivo, insieme a Lady Gaga ha scritto I testi, facendo un ottimo lavoro. Una colonna sonora che verrà cantata a lungo. Lei, come dichiarato in conferenza stampa al Lido, ha finalmente trovato qualcuno che le desse fiducia, ha accettato di essere messa a nudo nella sua fragilità, sotto la lente di ingrandimento dalla regia indagatoria e amante dei primi piani di Cooper, senza trucco, senza filtri, così come lui la voleva. Una grande ricerca di autenticità da parte di entrambe le star, che si respira per tutto il film e che è uno dei suoi punti forti. Lady Gaga prende il testimone da niente di meno che Barbra Streisand, protagonista nell’edizione del 1974, presta alla sua Ally il proprio carisma, e merita la fiducia del suo regista e co – protagonista. Non si è però improvvisata; facendo un po’ di ricerche si scopre che ha alle sue spalle anni di studio di recitazione, che non si è svegliata una mattina con la presunzione di essere un’attrice. Sulla sua voce, non credo ci fossero dubbi. Anche ne fosse rimasta qualche traccia, vengono spazzati via con l’avvio della prima canzone. Bradley Cooper, direttore di se stesso, ci regala una delle sue performance migliori ma soprattutto, si rivela un inaspettato eccezionale cantante che mai sfigura accanto alla potente vocalità della partner. Più che la storia, raccontata ormai in diversi modi e quindi sempre un po’ diversa ma comunque conosciuta, sono i due protagonisti, con la loro alchimia e umanità a rendere A Star is Born un film assolutamente da vedere. A ciò si aggiunge un forte intento del regista di lanciare messaggi che facciano riflettere, sull’importanza di mostrarsi per chi si è prima di tutto, evidenti nelle inquadrature che cercano continuamente gli occhi dei protagonisti, da sempre specchio dell’anima, quanto anche più direttamente nel testo dei dialoghi. Nel doppiaggio, la voce di Christian Iansante è ormai parte imprescindibile del fascino di Bradley Cooper, qui accompagnato dall’ex allieva Benedetta Degli Innocenti, più acerba, per forza di cose, nel variare più sfumature di pensiero ma brava a seguire ogni respiro del suo personaggio. Un film che ha un’anima forte, che pulsa di una passione vera, umana. Una inaspettata sorpresa. Voto: 7/8 su 10 Immagini tratte da: www.rollingstone.it www.cinematografo.it www.gagadaily.com www.ilpopoloveneto.it di Fabrizio Matarese ![]() Titolo: Rimetti a noi i nostri debiti Paese di produzione: Italia Anno: 2018 Durata: 104’ Genere: drammatico Regia: Antonio Morabito Sceneggiatura: Antonio Morabito, Amedeo Pagani Produttore: Marco Belardi, Alessandro Leone, Amedeo Pagani, Elena Pedrazzoli Distribuzione: Netflix Fotografia: Duccio Cimatti Montaggio: Francesca Bracci Colonna sonora: Andrea Guerra Casa di produzione: Lotus Production, La Luna srl, Rai Cinema, Netflix Cast: Claudio Santamaria, Marco Giallini, Jerzy Stuhr, Flonja Kodheli, Agnieszka Zulewska In un momento storico in cui la parola “debito” è utilizzata con una frequenza impressionante nel dibattito televisivo e politico, il primo film italiano distribuito da Netflix non poteva essere maggiormente ancorato alla realtà sociale dei nostri giorni. Rimetti a noi i nostri debiti, diretto da Antonio Morabito, può vantare una coppia di attori d’eccezione: Claudio Santamaria che interpreta Guido, un ex tecnico informatico ora disoccupato e sommerso dai debiti, e Marco Giallini che invece è Franco, un professionista del recupero crediti, talentuoso nel suo mestiere e avulso da ogni dilemma morale. Quando Guido viene licenziato anche da un lavoro come magazziniere si ritrova in una situazione disperata, senza soldi per pagare lo squallido appartamento in cui vive e dunque incapace di saldare il debito che ha contratto. La sua vita è grigia e rassegnata, le sue uniche frequentazioni sono un bar dove annega i dispiaceri nell’alcool e dove conosce Rina (la bella sorella del suo barista di fiducia) e un ex professore in pensione che si è ritirato a vita privata e trascorre le giornate imbastendo strane analisi di sociopolitica connesse alle palle del biliardo. Dopo aver subito un’aggressione da parte di un agente dei creditori, a Guido viene un’idea che potrebbe cambiargli la vita: “se non posso pagare il debito, posso almeno lavorare gratis per loro finché questo non si estingue”. Così Guido viene assunto dall’agenzia di recupero crediti e a insegnargli il mestiere è proprio Franco, il lupo travestito da pecora, “uno dei più bravi sulla piazza”. Il rapporto che si instaura in questa strana copia di colleghi è uno dei punti di forza del film. Mentre Guido è un bravo ragazzo, abbattuto e amareggiato dalla sua situazione finanziaria, Franco è un abile e compiaciuto esattore, abituato a fronteggiare sofferenza e disperazione senza alcun contraccolpo psicologico. Il primo giorno di lavoro, o meglio il primo training day, seduti a un tavolino di un ristorante, Franco spiega a Guido le tre fasi del lavoro: La prima consiste nel rintracciare i debitori e dargli il tormento; la seconda nel farli vergognare; infine, la terza nel farli pagare con altri metodi, se il tormento psicologico e la vergogna non funzionano. Così Franco e Guido iniziano a lavorare insieme andando a molestare i vari debitori in giro per Roma. Dopo un momento iniziale di indecisione Guido si riscopre competente nello svolgimento di questo “lavoro” e quasi senza accorgersene sveste i panni della vittima per indossare quelli lindi e profumati del carnefice. I due continuano a tormentare “le anime morte”, così Franco chiama i debitori, fino a che il debito di Guido si estingue ed egli può finalmente andarsene da uomo libero o accettare la proposta del suo collega: continuare a lavorare per loro in cambio di un lauto stipendio. Nel frattempo, tra i due si è creato un certo affetto e un singolare rapporto di amicizia e Guido decide di accettare. Ma la resa dei conti avviene quando Guido ritrova nella parte di debitore insolvente il vecchio professore suo amico… Rimetti a noi i nostri debiti, è un film che racconta invece di giudicare, che mostra senza voler dimostrare, un film in cui i buoni e i cattivi sono difficili da distinguere e gli stessi protagonisti condividono molti più elementi di quanti si potrebbe immaginare a prima vista. La realtà sociale dei nostri giorni è tristemente connessa al debito (in Italia siamo “esperti” anche di debito pubblico, purtroppo) in molte forme. Ma oltre all’aspetto economico questa pellicola ci mostra anche l’aspetto morale del debito svelando come quest’ultimo provochi, nelle persone che lo contraggono, sentimenti di colpa e vergogna. Sentimenti ereditati dalla cultura cattolica (non a caso evocata fin dal titolo) che ancora nutre e modella il sistema economico-sociale dell’Europa. Ma se per un credente basta recitare qualche Padre nostro o Ave Maria, per i debitori economici scontare questo “peccato” è faccenda ben più ardua. Torna sul grande schermo il predatore alieno e stavolta alla regia troviamo la leggenda degli action movie Shane Black. Avrà trovato la formula perfetta per riportare agli antichi fasti il franchise? di Salvatore Amoroso ![]() Titolo: The Predator Paese di produzione: USA, Canada Anno: 2018 Durata: 107’ Genere: fantascienza, azione Regia: Shane Black Sceneggiatura: Fred Dekker, Shane Black Produttore: John Davis Distribuzione: 20th Century Fox Fotografia: Larry Fong Montaggio: Harry B. Miller III Musiche: Henry Jackman Cast: Boyd Holbrook (Quinn McKenna), Trevante Rhodes (Nebraska Williams), Jacob Tremblay (Rory McKenna), Olivia Munn (Casey Bracket), Sterling K. Brown (Will Traeger), Keegan-Michael Key (Coyle), Thomas Jane (Baxter), Alfie Allen (Lynch). L'enfant prodige del cinema action anni ’80 Shane Black è tornato a farci respirare quella sana aria scanzonata che si può avvertire solo nei suoi film. Basti pensare alle sue più note sceneggiature come Arma Letale, L’ultimo boy Scout o Last Actiorn Hero per ritornare piacevolmente indietro nel tempo e assaporare quelle sequenze folli, quei dialoghi divertenti e spacconi, quell’azione dal ritmo incalzante che non ti fa staccare gli occhi dallo schermo, insomma il cinema di Shane, quello che lo ha reso celebre e ci ha fatto tanto emozionare. Stavolta il nostro amato beniamino però si è davvero giocato male le sue carte. Nel suo The Predator (reboot o sequel, non è affatto facile definire quest’ennesimo film sul rasta alieno che caccia per sport) non riusciamo a scorgere quella scintilla magica che contraddistingue le sue pellicole. Siamo lontani anni luce da quella giungla impervia dove il Magg. Dutch Schaefer dovette scontrasi con l’alieno e per sconfiggerlo dovette regredire al livello primitivo, in un duello primordiale battezzato dall’indimenticabile urlo di guerra di Swarzi. Quello era il lontano 1987, alla regia John McTiernan e quel film rimane inarrivabile per bellezza, suspense e contenuti. Quello che non ha il The Predator 2018 di Black. I dialoghi sono i suoi, non c’è dubbio. La satira pungente e sfacciata, suo marchio di fabbrica la si può trovare con facilità ma il mordente no, quello manca. Non basta rimettere insieme un manipolo di soldati, diverso da quello del primo film. Se nell’87 Arnold Schwarzenegger era al comando di un gruppo di militari forti e dannatamente bad ass, qui ci ritroviamo con un gruppo di reietti della peggior specie: psicopatici, matti ma sempre ben addestrati sotto il comando di Quinn McKenna interpretato dal volenteroso Boyd Holbrook, che ce la mette tutta per essere credibile come eroe scaccia alieni, ma purtroppo non ci riesce e questa è una delle grandi pecche del film. Va senza dubbio premiato il tentativo coraggioso del regista che ci ha voluto donare un cinema d’azione ormai dimenticato oggi, ovvero ll cinema action vecchio stampo, che non ha bisogno di dialoghi o intrecci narrativi complicati. Budella in bella vista, esplosioni, effetti speciali, armi gigantesche che appaiono dal nulla, segugi predator (avete capito bene), un manipolo di uomini simile all’A-Team che spara piombo e battute irriverenti a raffica. Tutto il coinvolgente ritmo dei meravigliosi anni ’80 non riesce a salvare The Predator. Potremmo stare ore a ore a discutere della totale assenza di trama e logica nel film ma non è affatto questo il problema. Semplicemente, l’ultimo capitolo di un franchise che già da anni faticava a carburare non riesce a fare breccia nei nostri cuori. Shane cerca disperatamente di aggrapparsi alla sua ironia, mettendo in discussione addirittura l’epiteto del nostro mostro alieno: “Non è un predatore, caccia le sue vittime per il solo piacere di farlo”, battuta alquanto stonata che purtroppo sentiremo spesso durante il proseguio del film. Tenta di inserire il maldestro personaggio interpretato dalla bella Olivia Munn, che risulta assai goffo e fuori contesto, ma purtroppo bisognava strizzare l’occhio pure al movimento MeToo. Zero carisma, zero appeal, nessuna traccia del talento di Shane Black, che avevamo visto recentemente con The Nice Guys, buddy movie irresistibile che purtroppo la critica ha bocciato. Consigliato agli amanti del cinema d’azione ma non agli appassionati della saga, quelli potrebbero rischiare di avere un grande infarto. Con il cuore gonfio di rabbia noi lo bocciamo ma provaci ancora Shane, noi siamo qui ad aspettarti. Immagini tratte da: IndieWire youtube comingsoon.com Cinemaniac.com TheIndianExpress di Federica Gaspari Una 23esima edizione che mantiene le sue promesse superando le aspettative. Vincono Denmark e Second Best ma il vero trionfatore è il coraggio di Milano Film Festival. Il desiderio di celebrare il cinema in ogni sua forma e, soprattutto, di valorizzare lo spirito dinamico e in continua evoluzione del grande schermo ha premiato gli organizzatori dell’ultima edizione di Milano Film Festival conclusasi domenica 7. Grazie a un programma ricco di appuntamenti e opportunità d’intrattenimento, la manifestazione ha saputo coinvolgere un pubblico di diverse generazioni – con un incremento del 30% rispetto al 2017 - interagendo brillantemente con il tessuto urbano. Dieci giorni di proiezioni e incontri, dalla vocazione cittadina e allo stesso tempo fortemente internazionale, sono culminati in una cerimonia di premiazione conclusiva durante cui sono stati consegnati i riconoscimenti per le categorie lungometraggi e cortometraggi. Lungometraggi Gli 8 lungometraggi in gara, selezionati tra oltre 800 titoli provenienti da ogni parte del pianeta, hanno presentato al pubblico autori e interpreti di grande talento senza dimenticare il grande valore della tradizione. In una sezione agguerritissima, Denmark di Kasper Rune Larsen ha trionfato incantando la giuria con il suo stile provocatorio e il suo sguardo irriverente sull’attualità danese. Uno dei favoriti del Termopolio, Thunder Road, ha ricevuto l’Audience Award, riconoscimento assegnato dal pubblico che, evidentemente, ha apprezzato le sfumature ironiche e pungenti dell’ultimo lavoro di Jim Cummings. Best Feature Film Award "Denmark" Kasper Rune Larsen “Per il coraggio della semplicità, la scrittura invisibile, la sincerità, il racconto di un amore senza romanticismo, perché sa parlare di sentimenti senza sentimentalismi. Infine, per l’ottima realizzazione del nulla, il premio del concorso internazionale lungometraggi va a Denmark di Kasper Rune Larsen” Best Feature Film Award Special Mention "The Third Wife" Ash Mayfair “Per la grazia e la delicatezza con cui è riuscita a parlarci di Libertà, pur avendo scelto di raccontarci il tragico destino delle spose bambine nella società rurale del Vietnam dell'800, educate a compiacere e a procreare in una condizione di ovattata , inscalfibile schiavitù la giuria conferisce una menzione speciale al film The Third Wife e alla regista Ash Mayfair”. Aprile Award Best Feature Film "LUZ" Tilman Singer “Per l’altissima qualità della realizzazione tecnica (sorprendente in un film di diploma) unita a un’intelligente rivisitazione dei luoghi topici dell’horror. Per il carattere indipendente e non banalmente indie del film - iconoclasta ma mai pretenzioso - il premio Aprile per il miglior lungometraggio va a Luz di Tilman Singer.” Cortometraggi Nei giorni del festival meneghino la sfida più combattuta e difficile è andata in scena nella sezione dedicata alle produzioni caratterizzate dalla minore durata. Sono stati 38 cortometraggi che hanno pizzicato le corde di generi molto diversi fra loro, riuscendo a soddisfare i gusti anche del pubblico più esigente. Il premio della giuria è finito tra le mani di Alyssa McClelland regista del gioiellino australiano Second Best, un viaggio nel rapporto familiare tra due sorelle alla ricerca del loro ruolo nel mondo. Il titolo preferito dal pubblico, invece, è stato Tracing Addai, corto tedesco dalla messa in scena appassionante e originale. Best Short Film Award "Second Best" Alyssa McClelland “In questo corto tutto è in funzione della storia: dalla regia, statica e grandangolare, alla scenografia, perfetta nel sottolineare in maniera ironica le grottesche contraddizioni interne al contesto familiare, fino alla recitazione e la sceneggiatura, volutamente semplice e costellata di esilaranti silenzi.” Best Short Film Award Special Mention "Tungrus" Rishi Chandna “Non basta immaginarsi una famiglia indiana alle prese con un gallo per essere divertenti. Questa è la folle idea alla base del cortometraggio, ma da premiare sono soprattutto i dialoghi, il montaggio, la scelta del mockumentary come struttura, spesso abusata ma in questo caso necessaria ed estremamente funzionale.” Best Short Film Award Special Mention "Aquathlon" Alexey Shabarov “Per tanti motivi, per la regia, la scrittura e la direzione degli attori, sempre complicata con attori adolescenti, ma soprattutto per la capacità di raccontare senza alcuna retorica e in maniera originale, un tema inflazionato come quello del bullismo.” Aprile Award Best Short Film "PALOOKAVILLE" Sem Bucman, Pim Algoed “Una commedia che sa affrontare a ritmo di jazz le molte fragilità nascoste del mondo maschile, che raramente vengono sottolineate e che invece dovremmo sempre tenere in considerazione, oggi più che mai. Per il ritratto ironico e pungente di una situazione quanto mai attuale, la doppia crisi della mascolinità e della figura paterna.” Scommesse vinte e prospettive Il Milano Film Festival, tuttavia, non sarebbe stato lo stesso senza gli eventi speciali che lo hanno segnato. Impossibile non citare l’esclusiva anteprima italiana di Climax, l’ultima pellicola del controverso Gaspar Noé: tutte le proiezioni hanno registrato significativi sold out che testimoniano che il pubblico è ancora alla ricerca di film e storie con cui mettersi in discussione, rifiutando di chiudersi nelle rassicuranti certezze. Di grande prestigio anche le proiezioni degli ultimi lavori di Gavras, Poppe e Godard, senza dimenticare le repliche di ROMA, il film di Alfonso Cuaron vincitore dell’ultimo Leone d’Oro. Le novità introdotte da Ultra Reality, le importanti anteprime di rilievo internazionale e le divertenti e originali proiezioni di film cult sono stati senza dubbio dei valori aggiunti di questa manifestazione che, per crescere ulteriormente, dovrà giocare al meglio soprattutto queste carte che garantiscono originalità e autenticità. Il livello di qualità dei film e dei corti in gara è già molto alto e suggerisce, quindi, una nuova sfida: nel 2019 il Milano Film Festival riuscirà a superarsi? Immagini tratte da www.milanofilmfestival.it Potrebbe interessarti anche: di Matelda Giachi ![]() Genere: azione, fantascienza, thriller, horror Anno: 2018 Durata: 112’ Regia: Ruben Fleischer Cast: Tom Hardy, Michelle Williams, Riz Ahmed, Jenny Slate, Michelle Lee, Reid Scott, Scott Haze, Sam Medina, Woody Harrelson Sceneggiatura : Jeff Pinkner, Scott Rosenberg, Kelly Marcel, Will Beall Fotografia: Matthew Limatique Montaggio: Alan Baumgarten, Maryann Brandon Colonna sonora: Ludvig Goransonn Produzione: Columbia Pictures, Marvel Enterteinment Distribuzione: Sony Picture, Warner Bros, Enterteinment Italia Paese: Stati Uniti “Mi raccomando, stai fermo e non toccare nulla.” Molti grandi disastri cominciano così. Il prezioso vaso Ming della bisnonna della zia Palmira fa un volo ad angelo sul pavimento e diventa un divertente puzzle da mille pezzi; oppure finisci inseguito da un esercito di guardie mentre porti addosso un simbionte dal brutto carattere, una fame atavica e gusti culinari discutibili, che però ti dona i superpoteri. Dipende dal contesto. Per chi non conoscesse la trama, Venom è la storia di Eddie Brock (Tom Hardy), un giornalista investigativo che, nel tentativo di risollevare la propria vita dopo aver perso lavoro e fidanzata (Michelle Williams), indaga su degli studi clinici sospetti portati avanti dalla Life Foundation. Durante un’incursione all’interno di tale organizzazione, entra in contatto con un’entità aliena che necessita di un ospite per la propria sopravvivenza e che quindi sviluppa con lui una sorta di simbiosi. Ultima uscita dell’universo Marvel, da anni ormai la Sony desiderava portare sul grande schermo uno spin-off su Venom, senza però che il progetto riuscisse mai ad andare in porto. Finché non ha trovato in Ruben Fleisher (Benvenuti a Zombieland) un regista e in Tom Hardy il suo protagonista. Per la sceneggiatura, immaginiamo sia andata più o meno così: “Vogliamo un film su Venom”. “Ah bene, allora chiamiamo anche Tom Holland.” “No, lascia perdere, possibilmente farei senza. Basta ci siano un po’ di fondamentali: un protagonista figo, una grossa minaccia per la Terra, un cattivo che fa un gran macello, un megalomane con un sacco di soldi e nessuno scrupolo… E gli effetti speciali, ovviamente. Comprate tante macchine da distruggere. Ah, e un cammeo di Stan Lee, mi raccomando, quello è importante. Ma ricordati di essere originale.” “Consultiamo qualcuno di esperto, visto che eliminiamo Spiderman dalla trama?” “Naaaa, cosa vuoi che sia mettere insieme i pezzi. Vedrai che torna tutto.” Beh. Quasi. Diciamo che avrebbe potuto. Ironia a parte, Venom ha un grosso difetto: appare figlio di uno sceneggiatore confuso. Da una parte è evidente la voglia di creare qualcosa di nuovo, di più cupo, quasi vietato ai minori. Si parla addirittura di ispirazione cronenbergiana. Dall’altra, la voglia di restare fedeli ai canoni dei film Marvel, compresa la loro caratteristica ironia e leggerezza. Innovazione e tradizione, commistione di molteplici generi. Il film sembra voler intraprendere molte strade senza però arrivare davvero in fondo a nessuna. Ci sono due talenti enormi, quelli di Hardy (inesorabilmente un interprete eccezionale) e della Williams, i quali funzionano anche molto bene, ma camminano su di una trama vacillante, inseriti in un contesto pieno di contraddizioni e sopraccigli alzati; troppe anche per un cine-comic in cui il regno del plausibile è espanso. In poche parole, il risultato è di avere mandato sprecato un grandissimo potenziale. Uno spreco, come il non aver sfruttato appieno ciò che rende Venom uno dei più interessanti personaggi di questo universo: la sua dualità. Il conflitto tra due poli opposti tipico della schizofrenia, qui rappresentato dalla simbiosi forzata tra Eddie Brock e l’entità aliena (che meraviglia l’arte e il suo modo di vedere le cose!), che dovrebbe rappresentare il lato oscuro del protagonista ma che finisce quasi per rivelarsi un bonaccione troppo facile alle mani. Un contrasto, quello tra i due, che si risolve troppo velocemente; troppo facilmente. Best friends forever subito. E la trama ne risente, perde di efficacia. Poco di impatto anche il villain della situazione. Ispira uggia più che odio e ciò porta l’ottima interpretazione del protagonista a essere sbilanciata. Sicuramente Tom Hardy in motocicletta è una delle cose più sexy che si possano vedere nella vita ma, volendo essere più obiettivi e meno ormonali, questo non basta a soddisfare le più alte aspettative. Almeno cinematograficamente parlando. Si può vedere, ma ci auguravamo meglio. Speriamo che in futuro si aggiusti il tiro; speriamo nella splendida chioma di riccioli rossi di Woody Harrelson. Perché nella vita non si sa mai. In fondo, dopo quasi vent’anni di film Marvel, c’è ancora chi si alza e va via quando partono i titoli di coda. Lo direste mai? Voto: 6/10 Immagini tratte da:
www. it.ign.com www.foxlife.it www.wired.it www.corrieredellosport.it di Federica Gaspari L’animo più appassionante del Milano Film Festival trova forma nel concorso dedicato ai lungometraggi che in questa edizione vanta 8 titoli di grande prestigio. L’obiettivo di questa ventitreesima edizione del festival era quello di trovare un punto d’incontro tra i giovani appassionati e la generazione di cinefili più maturi ed esperti. La scelta dei titoli in gara è, quindi, ricaduta su 8 film, opere prime e seconde di giovani promesse oppure di autori in cerca di conferme, che coniugano la suddetta esigenza con uno sguardo attento rivolto al panorama internazionale. Questa sera, durante la cerimonia conclusiva alle ore 19,d verranno svelati i titoli vincitori dei premi giuria e pubblico per il concorso dedicato ai lungometraggi. Il Termopolio, dopo avervi parlato in esclusiva dell’avveniristica sezione Ultra Reality, vi presenta tre dei titoli più convincenti in una selezione solida e combattuta. Virus Tropical Il genere d’animazione è spesso fonte delle migliori sorprese di un’intera stagione cinematografica: dietro a una confezione spensierata, leggera può nascondersi una storia e delle riflessioni di una profondità sconcertante. L’ultima fatica animata di Santiago Caicedo appartiene a questa categoria. La storia di Virus Tropical, tratto dall’omonima graphic-novel parzialmente autobiografica di PowerPaola, si snoda non solo a cavallo tra Equador e Colombia ma anche tra adolescenza ed età adulta. Difficile pensare a una realtà ricca di colori e sfumature quando la sua rappresentazione sul grande schermo è segnata da un marcato contrasto bianco-nero e un’orgogliosa bidimensionalità che, con qualche contraddizione, inganna con giochi di profondità. Tuttavia, la storia di una famiglia sudamericana, attraverso dinamiche figure femminili di diverse generazioni, riesce a donare vivacità e un pizzico di magia a un contesto storico e culturale che, all’apparenza, non sembra suggerire opportunità né prospettive. Una messa in scena piuttosto esplicita ma nel complesso giustificata incornicia una storia che trova la sua forza ricordando che anche i fatti inattesi, gli errori e un virus tropicale, in un continuo ritorno, possono diventare i migliori alleati. The Mercy of the Jungle Partito dalla Ruanda e poi presentato al Toronto Film Festival, The Mercy of the Jungle di Joel Karekezi racconta, senza la canonica retorica dei film di guerra, una delle pagine più sanguinose della storia africana. Durante la seconda guerra del Congo, un granitico comandante e un giovane e inesperto combattente rimangono completamente soli in pieno territorio nemico, in un ambiente ostile. In una pericolosa e ingannevole giungla africana muove i suoi passi questa storia insolita che unisce la tensione da survival movie all’amara ironia da buddy movie sfruttando un’atmosfera quasi on the road. Nonostante qualche prolissità nella prima parte, il film, poggiandosi interamente su un carismatico duo protagonista, riesce a trovare il giusto equilibrio tra avventura e dramma rievocando con grande maestria un clima in cui amico e nemico si confondono, in cui giusto e sbagliato si scambiano in nome di insospettabili legami personali. Un’opera seconda di grande pregio che trova i giusti toni senza eccedere. Thunder Road Vincitore del Gran Premio della Giuria al SXSW2018, Thunder Road, nato dallo sviluppo dell’omonimo cortometraggio del 2016, segna la definitiva consacrazione di Jim Cummings che, dopo aver diretto diversi acclamati corti, esordisce sulla lunga durata con un racconto tragicomico genuino e sincero. Nella veste anche di protagonista, lo statunitense si avventura tra perdite, sconfitte e affetti dell’uomo medio, il perfetto cittadino dell’era trumpiana avvolto da una silenziosa rassegnazione. Con toni luminosi che ricordano il miglior Linklater, una sceneggiatura brillante e travolgente gestisce al meglio i toni comici e drammatici, scandendone i volumi e i tempi attraverso una coppia padre-figlia magnetica capace di commuovere con semplicità narrando una vita in caduta libera. Si sentirà parlare sempre di più di Jim Cummings, un artista che ha tutte le carte in regola per conquistarsi un ruolo di prestigio sulla scena cinematografica internazionale mantenendo freschezza, divertimento e sottile attenzione rivolta a ciò che è più concretamente vicino al pubblico. Questo trio di pellicole ha conquistato la curiosità e l’entusiasmo de Il Termopolio nella fervente attesa di scoprire i nomi dei trionfatori di questa scoppiettante ventitreesima edizione di Milano Film Festival che, alla sua chiusura, può vantare anche un’esclusiva proiezione di ROMA, il film di Alfonso Cuaron vincitore del prestigioso Leone d’Oro. Immagini tratte da www.milanofilmfestival.it |
Details
Archivi
Marzo 2023
Categorie |