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27/10/2019

"Siren" - La serie Tv dove comandano le sirene

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di Vanessa Varini

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"Siren" la serie Tv dove comandano le sirene


Titolo: Siren 

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Paese: Stati Uniti d'America


Anno: 2018


Genere: drammatico, thriller, fantastico


Stagioni: 1


Episodi: 10


Durata: 38-44 min (episodio)


Ideatore: Eric Wald, Dean White


Fotografia: Stephen Jackson, Mark Chow, Brian Pearson


Musiche: Michael A. Levine


Costumi: Maria Livingstone


Interpreti e personaggi: Alex Roe (Ben Pownall); Eline Powell (Ryn); Ian Verdun (Xander McClure); Rena Owen (Helen Hawkins); Fola Evans-Akingbola (Maddie Bishop); Sibongile Mlambo (Donna)


Nella cittadina costiera di Bristol Cove, conosciuta per la leggenda secondo la quale è stata casa delle sirene, arriva una strana giovane donna, Ryn (Eline Powell), in cerca di sua sorella Donna (Sibongile Mlambo), che è stata rapita dall'esercito locale. I biologi marini Ben (Alex Roe) e Maddie (Fola Evans-Akingbola) scoprono che Ryn e la sorella in realtà sono sirene. I due rimangono entrambi attratti da questa misteriosa creatura marina ed insieme a lei cercheranno di liberare Donna. ​
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​Dopo aver letto la trama di "Siren" vi immaginate Ryn come la classica donna pesce ribelle e gentile, che rinuncia all'eternità della vita nei mari per amore di un uomo come nel film Disney La Sirenetta, tratto a sua volta dalla tragica fiaba di Hans Christian Andersen, oppure come la stravagante Aquamarine del film omonimo del 2006? In realtà la protagonista della serie è ben lontana dall'immaginario fiabesco, disneyano ed adolescenziale e molto vicina all'immaginario greco, dove le sirene venivano raffigurate come esseri pericolosi che grazie alle voci suadenti, erano in grado di attirare a sé i marinai che navigavano nelle loro acque, facendoli affondare e morire, mentre quelli sopravvissuti venivano divorati e anche vicina alle sirene di Harry Potter e Il Calice di Fuoco. Infatti Ryn quando è in acqua è una famelica predatrice, ha degli artigli micidiali come Wolverine di X-Men, denti aguzzi come i vampiri, una forza molto superiore a quella di un uomo, un canto ammaliatore
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​e anche quando è sulla terraferma, in versione "umana", non esita ad usare la violenza per difendersi dagli uomini che non la rispettano e che tentano di approfittarsi di lei. Però non è solo assetata di vendetta come la Sposa di Kill Bill, è una creatura buona, curiosa e molto intelligente. Proprio come il carattere imprevedibile della protagonista, "Siren" alterna momenti di tensione e un po' sanguinosi con altri più leggeri ed ironici come quando Helen, un'abitante di Bristol Cove esperta di sirene, svuota la pescheria per sfamare Ryn e la serie ricorda il film La forma dell'acqua di Guillermo del Toro per lo stile dark, per la creatura acquatica protagonista e per alcune tematiche (come lo sfruttamento delle creature marine). Per quanto riguarda gli attori, ottima l'interpretazione dell'attrice belga Eline Powell (comparsa nella serie Tv Il Trono di Spade) nel ruolo della protagonista Ryn, ha un viso particolarissimo e molto espressivo, adatto per interpretare la sirena femminista.

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​"Siren" è una serie originale, innovativa, perfetta per tutti gli amanti del genere fantasy\thriller. Dopo essere andata in onda su TimVision, ora è arrivata in chiaro e si può vedere tutti i lunedì alle 21:10 su Rai 4. Non perdetela!


TRAILER YOUTUBE:

​Immagini tratte da:


https://www.tvserial.it/
https://cc-media-foxit.fichub.com/
https://images.wired.it/
https://www.miglioriserie.tv/

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27/10/2019

Romaff14 - The Irishman - La Recensione

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di Matelda Giachi
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​Genere:
Drammatico 
Anno: 2019
Durata: 210 min
Regia: Martin Scorsese
Cast: Al Pacino, Robert De Niro, Joe Pesci, Harvey Keitel, Anna Paquin, Jesse Plemons, Stephen Graham, Bobby Cannavale, Aleksa Palladino, Jack Huston, Sebastian Maniscalco, Ray Romano, Kathrine Narducci, Paul Ben-Victor
Sceneggiatura: Steven Zaillian
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Produzione: Netflix
Distribuzione: Netflix
Paese: USA
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“I heard you paint houses”. Ho sentito che lei dipinge le case.
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E’ il titolo del libro che ha ispirato l’ultimo capolavoro di Martin Scorsese. Un saggio, per la precisione, in cui l’ex procuratore Charles Brant raccoglie le memorie del sicario Frank Sheeran, detto “l’irlandese”, dopo averlo personalmente incontrato. Glielo ha portato un giorno l’amico Robert De Niro, dopo anni che cercavano un buon soggetto per tornare a lavorare insieme. E anni ancora sarebbero passati prima di poter tradurre quest’idea in un film. Principalmente perché è un progetto che nasce non solo per un pubblico esterno ma ancor prima per i suoi stessi ideatori. Come tale, voleva essere portato avanti alle loro condizioni. Condizioni che, per le più grandi major cinematografiche, rappresentavano un rischio troppo grande. Ha dichiarato lo stesso Scorsese in conferenza a Roma: per poter fare una cosa del genere, bisogna che qualcuno te ne dia la possibilità. 
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​E’ qui che è entrata in gioco Netflix, in tutta la sua arroganza di nuova potenza, con una proposta impossibile da rifiutare: un budget ancora più alto di quello richiesto, distribuzione sia classica in sala che poi sulla piattaforma streaming, totale libertà sulla scelta del final cut e, soprattutto, intraprendenza per la disponibilità all’uso di una nuova forma di tecnologia, quella che ha permesso il ringiovanimento digitale dei tre protagonisti, affinché non dovessero essere sostituiti da altri attori più giovani. Una tecnica ancora sperimentale che ha richiesto ulteriori sei mesi di lavorazione dopo la fine delle riprese e che non dava alcuna assicurazioni in merito al risultato.
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Citando una giustissima osservazione di Roberto Recchioni per BestMovie, viviamo un tempo in cui spesso le più grandi case cinematografiche cercano di tenersi al passo coi tempi prestandosi sempre di più a progetti inerenti al genere Marvel, mentre le nuove case investono sui mostri sacri per acquisire credibilità e rispetto.

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​“I heard You Paint Houses” sono anche le prime parole che Jimmy Hoffa, interpretato da Al Pacino, rivolge a Frank “l’irlandese” quando si incontrano per la prima volta. Dove dipingere case sta per uccidere uomini, in riferimento al sangue che schizza sulle pareti.
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Scorsese, con The Irishman, torna al genere gangster movie di cui è stato uno dei maestri. Solo a inizio film però riprende realmente se stesso e si concentra sull’azione, sulla scia di Quei Bravi Ragazzi. Presto la regia assume tutto un altro tono, più riflessivo, maturo. Quella di un uomo che, il tempo che vediamo scorrere in pellicola, lo ha già visto passare e se ne sta rendendo conto. Non si era mai soffermato troppo a chiedersi che fine avrebbero fatto i suoi gangster, adesso sì. The Irishman “è un film che parla di tempo, amore, tradimento, rimorso e, fondamentalmente, della mortalità di tutti noi”. C’è un velo di malinconia che però è solo lieve. Il regista stesso, mentre pronuncia queste parole in conferenza stampa, ha una gran serenità negli occhi. Ha infuso i suoi protagonisti di consapevolezza e accettazione di questo destino.
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The Irishman è, a tutti gli effetti, una riunione tra amici; Scorsese e De Niro riescono a richiamare per il loro progetto anche il terzo moschettiere, Joe Pesci che, salvo rare apparizioni, manca dal grande schermo dalla fine degli anni ’90. Pesci ha la classe degli attori di altri tempi e regala un’interpretazione da Oscar, come se non se ne fosse mai andato. A completare il tavolo, come D’Artagnan, come nuovo membro, un Al Pacino al massimo della sua forma. I duetti che si sviluppano tra il trio di attori nel corso dell’opera valgono già da soli il film, in particolar modo alcuni scambi di battute in italiano tra De Niro e Pesci, ai limiti della tenerezza nonostante si parli di omicidi a sangue freddo.

A voler cercare, dei difetti si trovano sempre; qualche minuto di indugio di troppo forse il buon vecchio Martin se li è concessi e il ringiovanimento degli attori in qualche momento è visibile e plasticoso. Ciononostante, The Irishman è, a tutti gli effetti, un gran film opera di quello che ormai è uno dei più grandi registi della storia del cinema. La sua regia è ancora una volta elegante, a tratti cruda, a tratti poetica. Un omaggio a se stesso, agli amici di una vita. Un congedo non certo dal cinema, perché Mr. Scorsese sembra avere ancora moltissimo da raccontare, ma da un genere che ha segnato intere generazioni.

Voto: 9,5

P.S. Mentre in conferenza stampa si è presentata inesorabile una domanda più da quote rosa che da meetoo, non fatevi sfuggire una piccolissima figura femminile che è una delle, se non “la” chiave di lettura di tutto il film.
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Foto
​Immagini tratte da:
www.imdb.com
www.bestmovie.it
www.washingtonpost.com
www.thedailybeast.com
www.dailymail.co.uk

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24/10/2019

Downton Abbey – Il film

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La Recensione
di Matelda Giachi
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Genere: Drammatico
Anno: 2019
Durata: 122 min
Regia: Michael Engler
Cast: Hugh Bonneville, Laura Carmichael, Jim Carter, Brendan Coyle, Michelle Dockery, Kevin Doyle, Joanne Froggatt, Matthew Goode, Robert James-Collier, Allen Leech, Phyllis Logan, Elizabeth McGovern, Sophie McShera, Lesley Nicol, Penelope Wilton, Maggie Smith, Imelda Staunton
Sceneggiatura: Julian Fellowes
Fotografia: Ben Smithard
Montaggio: Mark Day
Produzione: Carnival Film & Television, Focus Features
Distribuzione: Universal Picture
Paese: Gran Bretagna

A quasi tre anni dalla chiusura della serie tv, si torna a Downton Abbey. Siete tutti invitati.
Non una nuova serie ma un film destinato al grande schermo. Se ne è vociferato a lungo, finché, in un attimo, non è diventato reale. Per la gioia dei fans nostalgici ma forse anche di un cast che non vedeva l’ora di ritrovarsi.
Per riunire di nuovo tutti sotto l’ampio tetto di Downton serviva una buona idea; una scusa. Ed è così che, con una lettera, le loro maestà di Inghilterra annunciano alla famiglia Crawley che avranno l’onore (e l’onere) di averli come ospiti per una notte.  
Un espediente narrativo per riprendere quello che la serie ha sempre saputo fare in maniera eccellente: raccontare l’intrecciarsi di rapporti umani e sociali a diversi livelli della scala sociale. Uno studio antropologico meticoloso e raffinato.
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La sceneggiatura è semplice ed è un pregio. Troppo spesso oggi ci si convince del fatto che un film, per essere bello, debba essere intellettualmente contorto, difficilmente comprensibile ai più e magari indurre anche almeno tre diverse sfumature di sofferenza sennò non siamo abbastanza profondi. Downton Abbey ci ricorda invece il gusto di farsi raccontare una storia, il piacere del cinema come forma d’arte e amore per la bellezza. Dramma e ironia; profondità e leggerezza sono in perfetto equilibrio tra loro. L’eleganza non è solo nei cambi d’abito tra un pasto e l’altro delle sorelle Mary ed Edith, ma in ogni aspetto della realizzazione.
Da un punto di vista attoriale, un’opera di gruppo in cui ognuno ha il suo momento. Tornano tutti ad eccezione di Lily James, si aggiunge invece Imelda Staunton, la Dolores Umbridge di Harry Potter, nella vita moglie di Jim Carter. Un cast tra i cui membri la sintonia è tangibile, facendo da valore aggiunto a delle interpretazioni impeccabili che rispecchiano una formazione teatrale di alto livello e tra le quali è quasi impossibile indicare un più bravo. Forse solo all’intramontabile Maggie Smith possiamo riconoscere il merito di svettare su tutti mentre, con la sua lingua tagliente, nei panni di Lady Violet, è responsabile della gran parte delle risate in sala.
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Un’opera densa di romanticismo con quel po’ di nostalgia nei confronti di un tempo passato che però non è rivolto tanto al cosa veniva vissuto quanto al come. In particolar modo all’onore e all’orgoglio con cui ognuno viveva il proprio ruolo, indistintamente dal lord al domestico. All’amor proprio e al rispetto di sé. Al valore di uno sguardo, di un gesto, uno scambio di sorrisi, un bacio.
Ma soprattutto Downton Abbey è un trionfo di estetica: ogni fotogramma è come una fotografia o un dipinto d’autore che compete solo con l’accuratezza nella ricostruzione dei costumi. La musica, una cornice.
“Perfect perfection” è la definizione che qualcuno ha dato in conferenza stampa a Roma all’esecuzione del film. Definizione che Jim Carter, interprete dell’integerrimo e un po’ burbero dal cuore grande Mr. Carson, ha sposato e a cui noi ci accodiamo.
Voto: 9
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Immagini tratte da:
www.cinematographe.it
www.pastemagazine.com
www.yahoo.com
www.etonline.com

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20/10/2019

Watchmen e l’utopia degli eroi

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di Federica Gaspari
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In un’epoca cinematografica scandita dalle fasi di Marvel Cinematic Universe e dai costanti passi falsi del DC Extended Universe, uno spiraglio di innovazione e varietà arriva dalle piattaforme streaming e dalle emittenti via cavo. Dopo il successo di The Boys firmato Amazon Prime Video, approda sul piccolo schermo anche una delle serie più attese dell’anno: Watchmen. Lo show in nove puntate raccoglie la pesante eredità di Game of Thrones e si presenta come il nuovo prodotto d’eccellenza di HBO. I nomi coinvolti nel progetto sono garanzia di qualità. Oltre alla rinomata produzione dell’emittente statunitense più sofisticata nelle sue scelte, la serie vanta anche la guida di Damon Lindelof, showrunner noto al grande pubblico per un curriculum costellato di successi: da Crossing Jordan a The Leftlovers passando per il leggendario successo di Lost. Il vero motivo per cui dare una chance a questa serie, però, è da ricercare nei temi trattati, perfetti riflessi di questo preciso momento storico e di un’intera società di contraddizioni.
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A cinque episodi dallo straordinario esordio, Watchmen ha svelato – forse non ancora completamente – le sue carte confermando di essere ben più di un semplice adattamento di un celebre fumetto. Il materiale di partenza, il Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, ha rappresentato un punto di non ritorno per il genere dei supereroi, introducendo nelle storie di eroismo e patriottismo interrogativi scomodi ma estremamente concreti. Damon Lindelof parte da questa esperienza, ne apprende la lezione e, rivolgendo lo sguardo verso l’attualità, sceglie di arricchire le riflessioni di Moore – che non riconosce la serie come figlia del suo lavoro.
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Lindelof e un valido gruppo di autori parte dal concetto di maschera nella contemporaneità: cosa rappresenta? Chi si nasconde davvero dietro ad essa? La maschera può rappresentare una difesa, una protezione per le proprie debolezze oppure un’identità fittizia con cui raggirare le dinamiche della società e della giustizia stessa commettendo crimini a proprio piacimento. Lo show, come il fumetto di Moore, si interroga sui limiti tra giusto e sbagliato soffermandosi proprio sulla natura illegali degli eroi per arrivare a chiedersi se gli uomini comuni possono davvero affidare la propria vita a dei simili che non hanno niente di straordinario se non il coraggio di non rispettare delle regole.
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Distruggendo la figura del supereroe onnipotente e incorruttibile, lo show, però, non si accontenta. La serie HBO, offrendo un’esperienza narrativa su molteplici livelli – affiancandosi anche a un podcast ufficiale di approfondimento – sviscera le ferite brucianti della società statunitense con riferimenti tutt’altro che sottili alle tensioni culturali degli ultimi mesi. L’odio razziale sempre più capillare, tuttavia, non si limita a essere una piaga a stelle e strisce e nella sua accezione di più pura e banale violenza si estende a tutta la società in ogni sua coniugazione. A questa riflessione cardine, gli sceneggiatori affiancano gli sviluppi dei singoli personaggi ricchi di sfaccettature e contraddizioni, rivelandone fragilità e traumi che possono sempre essere ricondotti a un’umanità in crisi di identità, priva delle sue solide radici. Lindelof, con alcune splendide intuizioni narrative, sembra suggerire che la soluzione al problema si possa individuare solo ricercando la propria origine e riscoprendo il passato. Basterà questo però per rendere ognuno di noi eroe nella propria vita? Le quattro puntate rimanenti, forse, non riusciranno a dare una risposta a un quesito così complesso. Sicuramente, però, sapranno come catturare e coinvolgere non solo gli appassionati ma anche i semplici curiosi.

Immagini tratte da:
www.hbo.com
www.vox.com

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20/10/2019

Imma Tataranni - Sostituto procuratore

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La fiction rivelazione dell'autunno 2019
di Vanessa Varini
Titolo: Imma Tataranni - Sostituto procuratore
Paese: Italia
Anno: 2019 
Genere: commedia, giallo
Stagioni: 1
Episodi: 6
Durata: 100 min (episodio)
Regia: Francesco Amato
Soggetto: Mariolina Venezia
Sceneggiatura: Mariolina Venezia, Salvatore De Mola, Luca Vendruscolo, Michele Pellegrini, Pier Paolo Piciarelli 
Musiche: Andrea Farri
Costumi: Paola Marchesin
Interpreti e personaggi: Vanessa Scalera (Immacolata "Imma" Tataranni), Massimiliano Gallo (Pietro De Ruggeri); Alessio Lapice (Ippazio Calogiuri); Carlo Buccirosso (Alessandro Vitali); Barbara Ronchi (Diana De Santis); Alice Azzariti (Valentina De Ruggeri); Antonio Gerardi (don Mariano); Ester Pantano (Jessica Matarazzo)
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Dopo l'anticonformista ispettore Rocco Schiavone, sugli schermi Rai è arrivato un altro personaggio "sui generis" che lavora sempre nell'ambito investigativo: questa volta è una donna, si chiama Immacolata Tataranni o meglio "Imma Tataranni - Sostituto procuratore" come il titolo della serie ed è un personaggio letterario nato dai romanzi "Come piante tra i sassi", "Maltempo", "Rione Serra Venerdì" di Mariolina Venezia, editi da Einaudi. Imma ha un carattere schietto, sbrigativo, è poca educata, ma sotto la sua scorza ruvida ha un cuore tenero e grazie al suo fiuto riesce a risolvere casi intricati. Anche il suo look è particolare, eccentrico, più adatto ad una casalinga sull'orlo di una crisi di nervi che ad una donna in carriera: indossa pelliccette spelacchiate, abiti dai colori sgargianti o leopardati, cappotti marroni o rosa, tacchi alti anche quando deve affrontare i sentieri impervi e ha una capigliatura ramata con ricci ribelli. 
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Com'è riuscito un personaggio così sopra le righe a conquistare il pubblico  della domenica sera (la serie ha raggiunto picchi di 5.000.000  telespettatori)?
Perchè Imma Tataranni è un personaggio in cui le donne possono immedesimarsi tra problemi familiari (la figlia adolescente Valentina non vuole studiare ma diventare una cuoca) e lavorativi (il Sostituto procuratore non è molto simpatica ai suoi colleghi). Inoltre Imma non è perfetta, è una donna normale che ha delle debolezze, come un amore platonico per il suo collega Ippazio Calogiuri (Alessio Lapice), molto più giovane di lei. Aggiungiamo anche un'ambientazione molto caratteristica, Matera, la città dei sassi e i dintorni della Basilicata, una regione sospesa tra antichità e modernità dove si svolge la storia, ​temi attuali (immigrazione clandestina e sfruttamento, rifiuti tossici, omosessualità...) e un ottimo cast, su tutti la protagonista Vanessa Scalera che vanta già una lunga carriera teatrale e cinematografica (ha girato diversi film con Bellocchio) e che nella realtà è completamente diversa da Imma sia esteticamente che caratterialmente, e poi  gli attori Carlo Buccirosso (il Procuratore capo), Cesare Bocci (il losco imprenditore Saverio Romaniello), Massimo Gallo (il marito di Imma) ed ecco spiegati i motivi del grande successo della fiction!
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E ora sintonizziamoci tutti il 20 ottobre alle 21:25 su RaiUno per guardare la penultima puntata di "Imma Tataranni - Sostituto procuratore".
 
Immagini tratte da:
https://www.ilmessaggero.it/
https://www.trmtv.it/
https://www.gossipetv.com/

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17/10/2019

Panama Papers (The Laundromat)

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di Matelda Giachi
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Genere: Drammatico   
Anno: 2019
Durata: 96 min
Regia: Steven Soderbergh
Cast: Meryl Streep, Gary Oldman, Antonio Banderas, Jeffrey Wright, Matthias Schoenaerts, James Cromwell, Sharon Stone, Melissa Rauch, David Schwimmer, Alex Pettyfer, Robert Patrick, Chris Parnell, Will Forte, Rosalind Chao, Nonso Anozie, Roberta Sparta, Ross Partridge
Sceneggiatura: Scott Z. Burns
Fotografia: Steven Soderbergh
Montaggio: Steven Soderbergh
Produzione: Anonymous Content, Grey Matter Productions, Netflix
Distribuzione: Netflix
Paese: USA

Tratto da una storia vera, l’ultimo lavoro di Steven Soderbergh. I Panama Papers sono una raccolta di più di 11 milioni di fascicoli confidenziali compilati tra il 1977 e il 2015 da uno studio legale di Panama, la Massack Fonseca. I documenti contengono informazioni su migliaia di imprese offshore amministrate dallo stesso studio: contatti, nomi di azionisti e managers, scambi di mail. Con la consegna dei documenti al Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi nel 2016, sono innumerevoli i nomi di persone ricche e funzionari pubblici, politici  e loro parenti venuti alla luce per essere coinvolti economicamente e politicamente in questa enorme fuga dal controllo statale delle finanze. In parole povere, si parla di paradisi fiscali e di chi ne ha tratto giovamento.
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Per raccontare questa storia Soderbergh sceglie di ricorrere ad una modalità già resa famosa da Adam McCay con La Grande Scommessa prima e Vice dopo. Ecco quindi che subito troviamo Gary Oldman e Antonio Banderas nei panni dei due soci Massak e Fonseca parlare direttamente alla camera e al pubblico e raccontare come si sia sviluppato uno dei più grandi scandali dei giorni nostri. Una “favola”, come la chiamano loro. Ed è, effettivamente, tutto talmente grande e assurdo da sembrare veramente una favola. Si succedono vari capitoli o scene; episodi scelti per rappresentarne migliaia.
A far da filo conduttore una sempre eccezionale e sempre più impegnata nelle lotte di giustizia Meryl Streep, che interpreta Ellen Martin, una vedova vittima di uno dei tanti episodi di truffa, che ha portato alla morte del marito, che decide di vederci chiaro e indagare arrivando a inseguire i due soci fino a Panama.
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Un film non facilissimo da seguire per chi sa poco o nulla di economia, nonostante si cerchino di spiegare meccanismi ed espedienti del settore nella maniera più fruibile possibile (forse la visione della versione doppiata è consigliabile). Una denuncia che pone l’accento principalmente sull’ironia tragica che deriva dalla portata ben oltre l’immaginazione del recente scandalo, tanto da assumere i toni della commedia. Forse fin troppo.
Eccezionale il cast, buono l’intento e interessante il contenuto; nel complesso, riuscito a metà.
Panama Papers è stato presentato in anteprima alla settantaseiesima edizione della Mostra Internazionale D’Arte Cinematografica a Venezia, accompagnato dal regista e dai protagonisti Gary Oldman e Meryl Streep. Esce nelle sale italiane il 18 ottobre 2019 e poi sulla piattaforma di produzione Netflix.
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Immagini tratte da:
www.movieplayer.it
www.silenzioinsala.com
www.filmtv.it
www.luxgallery.it

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13/10/2019

MFF 24 – A Certain Kind of Silence

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Di Federica Gaspari
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Genere: thriller, drammatico
Anno: 2019
Regia: Michal Hogenauer
Attori: Eliska Krenkova, Jacob Jutte, Monic Hendrickx, Roeland Fernhout
Sceneggiatura: Michael Hogenauer, Jakub Felcman
Fotografia: Gregg Telussa
Montaggio: Michael Reich
Produzione: Circle Films, Negativ, Tasse Film
Paese: Repubblica Ceca, Paesi Bassi, Lettonia
Durata: 96 min

La selezione internazionale di lungometraggi firmata Milano Film Festival quest’anno ha permesso di esplorare generi, toni e influenze di ampissimo respiro. Tra i titoli in concorso, infatti, figuravano anche due ottimi film presentati con successo all’ultima edizione del Locarno Festival tra cui uno dei nostri preferiti Ham on Rye di Tyler Taormina. La sezione, tuttavia, ha regalato anche un piccolo gioiellino come A Certain Kind of Silence – Tiché doteky il titolo originale – del regista Michael Hogenauer. Il film, presentato in precedenza anche al Karlovy Vary International Film Festival, si è aggiudicato il premio del pubblico proprio alla 24esima edizione del Milano Film Festival grazie alle sue atmosfere inquietanti ma magnetiche.

Micha (Eliska Krenkova) è una ragazza alla pari che si prepara al suo periodo all’estero in una non precisata nazione dell’Europa centro-settentrionale. La giovane arriva nella sua nuova casa con una valigia ricca di aspettative e curiosità per un’avventura che le permetterà di perfezionare il suo inglese e di scoprire nuove culture e tradizioni. Sin dal principio, tuttavia, dovrà confrontarsi con strane abitudini e usi che sembrano alla base delle dinamiche che regolano il nucleo familiare di cui è ospite. Il rapporto con la sua nuova famiglia e con il bambino che dovrà accudire quotidianamente potrebbe complicarsi scoprendo segreti che regolano silenzi e atteggiamenti.
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Ampi spazi e location eleganti, arredati con cura in sintonia con le sfumature cromatiche che rispecchiano un certo tipo di immaginario tipicamente scandivano. Questi colori freddi ed essenziali, una presenza costante e quasi paradossalmente costante nella narrazione, riescono sin dalle prime inquadrature di A Certain Kind of Silence a creare la giusta atmosfera per raccontare la tragica avventura di Micha. Il vortice silenzioso di eventi di cui la ragazza sarà protagonista. L’apparenza ordinata ed efficiente di una famiglia agiata entra subito in contrasto con i tesissimi flashforward della protagonista alle prese con un interrogatorio. Un dubbio angosciante si insinua nella mente dello spettatore e cresce osservando come ogni normale dinamica familiare e ogni rapporto personale si trasforma in modo preoccupante nel film.
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La scelta di realizzare il film in inglese costringendo tutto il cast a mettersi in gioco in una lingua diversa da quella madre rafforza la sensazione di incomprensione che permea tutte le vicende narrate. Impossibile non continuare a domandarsi se quanto raccontato sia reale oppure frutto delle preoccupazioni della ragazza che, tuttavia, è al centro di una metamorfosi che non sfugge agli occhi del pubblico. Giocando brillantemente con silenzi e avvenimenti fuori scena, il regista e sceneggiatore Hogenauer sviscera i meccanismi perversi e agghiaccianti di una setta che mette in discussione rapporti personali ed educazione ispirandosi al cinema di Yorgos Lanthimos. Manipolazioni e persuasione regolano ogni aspetto della vita di Micha che, prima rinunciando al suo nome e in seguito sottomettendosi anche semplicemente ad un codice non scritto di abbigliamento, non riuscirà più ad interpretare la realtà nemmeno davanti all’evidenza. Il grande colpo di scena, tuttavia, è ancora più agghiacciante. La storia raccontata, infatti, si ispira a fatti realmente accaduti, svelati in un laconico epilogo che sferra il fatale colpo nello stomaco, incorniciando un film che mette sotto i riflettori un autore e un cast da seguire.
 
 
Immagini tratte da:
http://www.milanofilmfestival.it/it/

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13/10/2019

MFF 24 –Premi e prospettive

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di Federica Gaspari


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La 24esima edizione, raccontando trasformazioni e outsiders a diverse grandezze, si conclude con premi variegati e a tratti inaspettati.

Milano si conferma ancora una volta un centro dinamico e sperimentale per la settima arte. L’ultima edizione del Milano Film Festival conclusasi giovedì 10 ottobre ha dimostrato ancora una volta di essere parte di una città che ama avventurarsi tra le sue molteplici nature e ramificazioni. Questa 24esima edizione della manifestazione ha portato nel capoluogo meneghino film in anteprima italiana con The Beach Bum ) di Harmony Korine e in chiusura First Love del maestro Takashi Miike. Questi due titoli che hanno segnato il programma ben rappresentano proprio un festival che ama mettersi in gioco con scelte fuori dagli schemi.

I premi assegnati nel corso della cerimonia di chiusura festival rispecchiano la volontà di raccontare storie trovando voci e prospettive inedite, valorizzando sguardi fuori dall’ordinario ma anche occhi rivolti verso un passato, un presente e un futuro sempre difficili da interpretare.

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Lungometraggi


Premio internazionale miglior lungometraggio

The Sharks
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Lucia Garibaldi
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“The Sharks di Lucìa Garibaldi è un film che esplora con coraggio e originalità il tema del risentimento, declinandolo in una psicologia femminile e inserendolo quindi entro in conflitto di genere. Una drammaturgia semplice ma potente supporta una straordinaria interpretazione e offre al pubblico una analisi speciale del mutevole rapporto tra femminile e maschile, così caratterizzante in questi anni.”
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Menzioni speciali


Swallow

Carlo Mirabella-Davis

“Un incoraggiante debutto, con una notevole interpretazione femminile, che tocca temi delicati come l’abuso, le ossessioni e la solitudine, con un promettente sguardo autoriale.”


Koko-di Koko-da

Johannes Nyholm

“Siamo rimasti molto colpiti dal secondo lungometraggio di Johannes Nyholm. Un film che mescole diverse forme di cinema, molto fantasioso, audace e scomodo. Un film molto inquietante che ci ha ricordato Rueben Ostlund e Michael Haneke, ma presenta anche bellissime inquadrature, altamente fantasioso e coinvolgente. Non vediamo l’ora di vedere cosa farà Johannes dopo!”

Premio Migliore Attrice N.A.E.

The Sharks – Romina Betancur

“Per l’espressività, un’interpretazione intensa e naturale, e per la capacità di comunicare un ampio spettro di emozioni con una recitazione minimalista.”

Premio Aprile

Guerilla

György Mór Kárpáti
“In un periodo storico caratterizzato da nuove tendenze sovraniste e xenofobe, un film che non ha paura di confrontarsi con le contraddizioni del nostro presente attraverso la crudeltà di un passato – l’Europa del ‘800 – che ritorna. Un premio assegnato per il coraggio di riaprire ferite antiche attraverso il linguaggio inesausto del cinema in costume.”

Premio del pubblico Miglior Lungometraggio Internazionale

A Certain Kind of Silence

Michael Hogenauer


- Cortometraggi -


Premio Campari Miglior Cortometraggio

Adalamadrina

Carlota Oms
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“Una storia davvero divertente raccontata cinematograficamente molto bene, con arguzia e serenità – un risultato non facile da ottenere quando si realizza una commedia – a cui si aggiunge una performance di qualità. Non vediamo l’ora di vedere i lavori futuri della regista, così promettente al suo esordio”
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​Menzioni speciali


All on a Mardi Gras Day

Michal Pietrzyk

“Un documentario ben fatto che fa luce su una prospettiva meno conosciuta del Mardi Gras. Un meraviglioso e intimo ritratto di persone e luoghi.”

Pearl

Yuchao Feng

“Una storia commovente e bellissima, realizzata attraverso una forte visione cinematografica e artistica; caratterizzata da una performance immersa totalmente nell’universo del film”.

Premio del pubblico Miglior Cortometraggio Internazionale

Mia Sorella

Saverio Cappiello

Premio dello staff MFF Miglior Cortometraggio Internazionale

Your Last Day on Earth
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Marc Martinez Jordan


Scommesse vinte e prospettive
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La sezione The Outsiders, con i due titoli in anteprima già citati in precedenza, ha sicuramente regalato alla 24esima edizione di Milano Film Festival un respiro ancora più internazionale, aperto a nuovi orizzonti. Non sono mancati inoltre momenti di riflessione e confronto grazie agli incontri della sezione Industry ma anche di Other Natures e Incontri Italiani. Gli appuntamenti di My Screen hanno permesso di aprire le conversazioni anche a tutte le gamme generazionali con protagonisti come Sofia Viscardi, MYSS KETA e Muriel. Le Masterclass hanno infine contribuito all’interazione continuo tra ospiti e pubblico, grazie ai nomi coinvolti del calibro di Margherita Buy, Giulia Michelini, Hannah Woodhead e molti altri.


Gli obiettivi raggiunti in questa edizione, tuttavia, sono le nuove sfide per il prossimo anno, in cui il festival con il suo programma e la sua proposta culturale dovrà nuovamente scommettere su se stesso non solo per confermare le aspettative ma soprattutto per stupire il grande pubblico!

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Immagini tratte da:
www.milanofilmfestival.it

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10/10/2019

Non succede ma se succede…

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Di Federica Gaspari
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​Genere
: commedia
Anno: 2019
Regia: Jonathan Levine
Attori: Seth Rogen, Charlize Theron, O’Shea Jackson Jr., June Diane Raphael, Andy Serkis, Randall Park
Sceneggiatura: Liz Hannah, Dan Sterling
Fotografia: Yves Belanger
Produzione: Good Universe, Point Grey Pictures
Paese: Stati Uniti
Durata: 125 min



Le commedie romantiche sembravano essere ormai un semplice retaggio degli anni Novanta e dell’inizio del terzo millennio. Genere squisitamente d’intrattenimento spesso bistrattato, le rom-com dopo una fase di declino sotto i colpi di grandi produzioni thriller o cine-comic hanno trovato il terreno ideale per la loro rinascita nell’ambiente dei festival di cinema indipendente. In questo ambito piccole produzioni hanno potuto sperimentare nuovi toni e linguaggi ridefinendo i canoni del genere stesso che ora sembra ritrovare spazio anche tra i prodotti di punta grazie alle piattaforme di streaming e ad alcune produzioni attente ai gusti del pubblico.

L’ultima pellicola di Jonathan Levine (50/50) arriva nelle sale italiane dopo questo lungo percorso che intreccia pubblico e critica. Non succede ma se succede… può contare però sulla partecipazione di una coppia di protagonisti insolita: Seth Rogen e Charlize Theron. Davvero due attori dal background così differente possono funzionare insieme al centro della scena?
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​Il presidente degli Stati Uniti Chambers (Bob Odenkirk) sembra essere più interessato al mondo del piccolo schermo che alla politica e al bene della nazione. Per questo motivo comunica al suo segretario di Stato Charlotte Field (Charlize Theron) la sua decisione di non presentarsi per un nuovo mandato e di sostenere proprio lei come suo successore. Inizia così ufficialmente la campagna elettorale di Charlotte che, tuttavia, dovrà scendere a compromessi e cambiamenti della sua immagine per incontrare il favore dell’elettorato. Mentre è alla ricerca di qualcuno in grado di aggiungere un pizzico di ironia ai suoi discorsi ufficiali, Charlotte incontrerà inaspettatamente Fred Flarsky (Seth Rogen), giornalista squattrinato e vicino di casa dei tempi della scuola superiore.

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​La presenza nel cast di Seth Rogen lascia spesso intuire toni da commedia quasi demenziale, dalle sfumature tutt’altro che politicamente corrette. L’inatteso affiancamento a Charlize Theron – un volto quasi inedito nel mondo della commedia – tuttavia sembra trovare un piacevolissimo equilibrio che si rafforza grazie a tematiche e riflessioni tutt’altro che banali affrontate in modo insolito. La sceneggiatura, segnata da ritmi accattivanti e incalzanti, riesce infatti a giocare splendidamente con il ribaltamento dei ruoli, rivoluzionando lo stereotipo per cui nelle classiche storie “presidenziali” la figura maschile ricopra sempre il ruolo di potere. Non si tratta di un superficiale caso di gender swap ma della ricerca di una voce fuori dai soliti schemi in grado di trovare una protagonista femminile valida capace di coniugare eleganza e fascino con innato spirito humour. Nasce così una splendida intesa tra i due protagonisti così apparentemente distanti. E’ proprio questo il punto di forza che distingue questa pellicola da tante altre. Il finale sembra ripercorrere schemi già noti ma non compromette comunque una visione inaspettatamente divertente.
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Immagini tratte da:
www.time.com
www.nerdgate.it

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6/10/2019

Euphoria

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Di Federica Gaspari
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Paese: Stati Uniti
Anno: 2019
Formato: serie TV
Genere: teen drama
Stagione: 1
Puntate: 8
Regia: Sam Levinson, Augustin Frizzell, Jennifer Morrison, Pippa Bianco
Sceneggiatura: Sam Levinson
Produzione: A24 Television, The Reasonable Bunch, Little Lamb, DreamCrew, Tedy Productions
Cast: Zendaya, Maude Apatow, Angus Cloud, Eric Dane, Alexa Demie, Jacob Elordi, Barbie Ferreira

Il genere teen drama è stato rivoluzionato. Se, fino a poco tempo fa, questa etichetta veniva associata a un gruppo sempre più nutrito di prodotti in serie ormai privi di personalità, ora trova nuovo fascino grazie alla sorpresa di questa stagione del piccolo schermo. Euphoria, ultimo gioiellino della scuderia HBO ideato da Sam Levinson, è infatti una creatura completamente diversa da quelle conosciute e seguite fino ad ora. Niente di simile a Tredici, discussissima nel bene e nel male, Elite, troppo soap per essere vera, e infine Riverdale, con un pizzico di troppo di sospensione della realtà.
 
Euphoria, che nasce come remake americano dell’omonima serie israeliana, si avventura con una maestria fuori dall’ordinario tra le dinamiche adolescenziali senza dimenticare quella adulte. Lo show con le sue otto puntate della durata di un’ora, sceglie toni e modalità completamente nuovi per raccontare gli aspetti anche più banali da constatare ma difficili da narrare ad un pubblico eterogeneo.
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In un’anonima località della provincia a stelle e strisce, si consumano rapporti, preoccupazioni e problemi di un gruppo di adolescenti. Il pubblico potrà seguire ogni avvenimento attraverso la prospettiva della protagonista Rue (Zendaya), diciassettenne alle prese con il ritorno alla quotidianità dopo un periodo di recupero dovuto alla sua dipendenza da droghe. I rapporti con i suoi coetanei si riveleranno ancora più complessi del previsto…
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Il primo dettaglio che colpisce lo spettatore è senza dubbio una messa in scena caratteristica, dominata da colori neon che si alternano a scelte registiche tutt’altro che banali per una serie tv. Sam Levinson, dopo solo due lavori da regista sul grande schermo, dimostra tutto il suo talento insieme a collaboratori che gli permettono di realizzare un progetto articolato e complesso anche se strutturato su solo otto episodi. Ogni puntata trova, infatti, la propria voce concentrandosi su un solo personaggio, sviluppandone personalità, rapporti con gli adulti e soprattutto problematiche adolescenziali: incapacità di dialogo intergenerazionale, concezioni tossiche di amore, scoperta della propria sessualità e preoccupazioni sul futuro.
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Tutto questo, però, non sarebbe stato possibile senza un cast di giovanissimi attori pressoché sconosciuti. L’unico nome davvero noto è quello della protagonista Zendaya che in Euphoria dimostra finalmente di essere molto più di un semplice volto sorridente. Tutti gli altri interpreti sono degni di nota e vanno a comporre una squadra davvero promettente di giovani attori.
 
La prima stagione di Euphoria, già rinnovata, è disponibile su Sky Box ed è pronta ad appassionarvi con tutta la sua preoccupante e urgente necessità narrativa.
 
Immagini tratte da:
 
www.hbo.com 

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