Di Federica Gaspari ![]() Paese: Stati Uniti Anno: 2020 Genere: drammatico Episodi: 7 Durata: 46-67 min Regia: Scott Frank Cast: Anya Taylor-Joy, Bill Camp, Marielle Heller, Harry Melling, Thomas Brodie-Sangster Il catalogo di Netflix nel corso del mese di ottobre ha saputo proporre un’offerta estremamente variegata in grado di spaziare da nuove stagioni di successi originali con The Haunting of Bly Manor a remake di grandi cult con Rebecca. In un periodo così ricco di titoli attesissimi, alcune produzioni meno promosse o discusse a livello mediatico rischiano di passare inosservate. Questi lavori meno “fortunati” includono senza dubbio La regina degli scacchi, adattamento in forma di mini-serie dell’omonimo romanzo del 1983 di Walter Trevis. Nemmeno la presenza della stella nascente Anya Taylor-Joy nei panni di un giovane prodigio degli scacchi sembra aver assicurato, infatti, un trattamento speciale per questo racconto in sette episodi. Gli scacchi sono forse un materiale poco appetibile per il grande pubblico di abbonati? Forse, con qualche pregiudizio, si potrebbe inizialmente pensare che sia così. Dopo la visione di questa incredibile miniserie, tuttavia, è impossibile non cambiare prospettiva sulla scacchiera e sulle sue strategie. Lo sguardo attento di Scott Frank, showrunner e regista della serie, puntata dopo puntata si avventura tra i capitoli salienti della vita di Beth Harmon (Anya Taylor-Joy) che, rimasta orfana all’età di cinque anni, in tenera età scopre di avere un vero talento innato per gli scacchi. Essere un’orfana geniale negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta, tuttavia, significa affrontare costantemente ostacoli sia a livello sociale che professionale. Rapporti e relazioni complesse e conseguenze di un passato traumatico, inoltre, travolgono quotidianamente Beth, gettandola in una spirale di dipendenze, inquietudini e paure. La regina degli scacchi è una creatura imprevedibile quanto le possibili mosse del cavallo sulla scacchiera. Inoltre, proprio come il gioco di cui la protagonista è un prodigio, lo show si muove in generi e territori ampiamente esplorati coniugando i toni da canonico dramma a quelli del più classico racconto di formazione e correndo rischi altissimi ad ogni mossa. La strategia vincente di questa partita a episodi però è senza precedenti e si chiama Anya Taylor-Joy: la strepitosa interprete classe 1996 con la prova più convincente della sua promettente – e già validissima – carriera dona forma e sostanza a un personaggio memorabile nella sua complessità. Attraverso semplici sguardi, gesti e pose, l’attrice statunitense dona la giusta chiave di lettura per una protagonista che nel tempo ha costruito una superficie inscalfibile e indecifrabile per nascondere tutte le sue fragilità ma anche tutti i suoi più vivi desideri. Intrecciando la riflessione sulla figura femminile del genio con una visione lucida e acuta del desiderio di indipendenza e autonomia in un’epoca incatenata da regole e ipocrisie, questa serie Netflix posiziona tutte le sue pedine nelle caselle giuste grazie a un cast di supporto – da una sorprendente Marielle Heller a un ritrovato Thomas Brodie-Sangster - altrettanto eccezionale. Una scrittura sofisticata ed elegante, invece, è l’ossatura di una narrazione solida e mai discontinua che trova fluida anche grazie a una colonna sonora calzante.
Senza troppe incertezze, La regina degli scacchi, dando scacco matto a tante rivali ben più quotate sulla carta, è tra le serie imperdibili di quest’anno. Immagini tratte da: www.netflix.com
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di Salvatore Amoroso
I predatori mette in mostra la voglia di lavorare una materia sempre meno sgrezzata dal cinema italiano, il grottesco. Lo fa a tratti con consapevolezza e a tratti aderendo a un’estetica fin troppo facile. Nel complesso l’esordio di Pietro Castellitto non è privo di interesse, ma si dimostra confusionario. Presentato e premiato, un po’ generosamente, nella sezione Orizzonti di Venezia. ![]()
Genere: Grottesco
Anno: 2020 Regia: Pietro Castellitto Durata: 109 min. Sceneggiatura: Pietro Castellitto Cast: Massimo Popolizio (Pierpaolo Pavone), Giorgio Montanini (Claudio Vismara), Pietro Castellitto (Federico Pavone), Manuela Mandracchia (Ludovica Pensa), Dario Cassini (Bruno Parise), Anita Caprioli (Gaia) Fotografia: Carlo Rinaldi Montaggio: Gianluca Scarpa Produzione: Fandango Distribuzione: 01 Distribution Paese: Italia
Nonostante gli esempi di Michele Placido, Sergio Rubini, Valeria Golino e altri, quando un attore passa alla regia lo spettatore è solitamente scettico e il critico cinematografico mette metaforicamente mano alla pistola. Per giunta, Pietro Castellitto, regista e interprete de I predatori, alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti è figlio d’arte, dell’affermatissimo Sergio Castellitto, a sua volta attore e regista, e della ex attrice, scrittrice e sceneggiatrice Margaret Mazzantini.
Come in altre riuscite commedie, da Ferie d'agosto di Paolo Virzì a Come un gatto in tangenziale di Riccardo Milani, la gente di periferia incrocia casualmente i borghesi intellettuali di città per dar vita a situazioni tragicomiche. Ne I predatori da una parte abbiamo la famiglia Vismara, della provincia di Roma, che fa capo a Claudio (Giorgio Montanini, esilarante e caustico stand-up comedian) e Carlo (Claudio Camilli), gestori di un'armeria (come un protagonista di Ferie d'agosto), assoggettati al feroce zio Flavio (Antonio Gerardi), pregiudicato. Sono dei fascisti puri, con tanto di tatuaggi con croce celtica, ritratti di Mussolini, canzoni di estrema destra, poligono di tiro con bandiere nere. Le loro mogli (Giulia Petrini, Liliana Fiorelli) sognano appartamenti di lusso in centro. Dall’altra parte c’è Federico Pavone (lo stesso Pietro Castellitto) venticiquenne studente in filosofia ossessionato da Nietzsche e vessato dal suo professore universitario. Occhi chiari e grande naso, Federico è impacciato, intelligente, bizzarro e con una vis polemica che ricorda il Nanni Moretti degli esordi. Il padre Pierpaolo (Massimo Popolizio) è un medico, la madre Ludovica (Manuela Mandracchia) una regista affermata che sta girando un film storico. Il suo motto è “Tutti hanno un piano finché non ricevono un pugno in faccia” (Mike Tyson). Su un mobile dell’appartamento, nella zona più chic della capitale con cameriere filippino in livrea, campeggiano 5 David di Donatello. C’è una certa dose di ironica autobiografia da parte del giovane regista cresciuto in un ambiente privilegiato. Papà Pierpaolo, infine, è amante di Gaia (Anita Caprioli), moglie del suo amico e collega Bruno (Dario Cassini). C’è anche un misterioso personaggio, il venditore di orologi (un cameo di Vinicio Marchioni), che compare all’inizio e alla fine.
Sono sufficienti le prime inquadrature per rendersi conto del livello tutt’altro che modesto delle ambizioni di Castellitto: tanto il piano-sequenza che vaga di personaggio in personaggio per le strade del lungomare di Ostia quanto l’incontro in casa tra il misterioso uomo interpretato da Vinicio Marchioni e la madre dei Pavone, fascistoni dediti al culto (e allo smercio sia legale che illegale) delle armi dimostrano le velleità autoriali del regista, la sua volontà ferrea di sfuggire alle grinfie della produzione media nazionale. Il suo film posiziona la macchina da presa là dove molti suoi coetanei non penserebbero neanche di poterla fissare, gioca con stacchi di montaggio che passano da primi piani stretti a totali in penombra, utilizza la steadycam per donarsi la massima libertà, più di movimento che espressiva. I predatori è un’opera che gronda di desideri solo in parte espressi di uccidere i padri, tanto biologici quanto ideali: in qualche misura il personaggio di Federico, che non a caso interpreta proprio il regista appare come una proiezione diretta dell’esordiente, come lui deciso a far saltare in aria il sistema e allo stesso modo altrettanto confuso, e dunque impossibilitato a mettere davvero in pratica quel che teorizza. Se lo scoppio della lapide nietzschiana non porterebbe in ogni caso a niente, tanto meno a “far fuori” la famiglia borghese del protagonista, le pur apprezzabili traiettorie grottesche e la messa in scena non di prammatica per la produzione nazionale, sia chiaro non possono far saltare il banco di un cinema accomodatosi nelle agiate poltrone della borghesia. Non è casuale che Castellitto contrapponga da un lato l’agio annoiato e ritorto su se stesso della classe intellettuale romana.
Particolarmente riuscita la scena in cui la famiglia Pavone è seduta a cena con amici e parenti per celebrare il compleanno della nonna, li possiamo ammirare uno straordinario e pittoresco assolo della sorella del regista. L’intenzione di Castellitto è di mostrare tutti come dei predatori in una giungla, ma il regista guarda con malcelata simpatia all’umanità seppellita in fondo al cuore di Claudio, nonostante addestri il figlio di dodici anni a sparare e venda al protagonista Federico una notevole quantità di esplosivo per ventimila euro. Il finale inverosimile strizza l’occhio a Favolacce, ma siamo molto distanti dal piccolo capolavoro dei fratelli D'Innocenzo perché I predatori non si prende davvero sul serio. Prodotto da Domenico Procacci e Laura Paolucci per Fandango con Rai Cinema, I predatori sarà distribuito in Italia da 01 il 22 ottobre, mentre le vendite internazionali sono curate da Fandango Sales.
Link Immagini:
Locandina: MyMovies Immagine1: MyMovies Immagine2: Coming Soon Immagine3: La Biennale di Venezia di Federica Gaspari ![]() Genere: commedia, sentimentale, fantasy Anno: 2020 Regia: Max Barbakow Attori: Andy Samberg, Cristin Milioti, Peter Gallagher, J.K. Simmons, Camila Mendes, Tyler Hoechlin Sceneggiatura: Andy Siara Fotografia: Quyen Tran Produzione: Limelight Productions, The Lonely Island Paese: Stati Uniti d’America Durata: 90 min I salti e i loop temporali sono escamotage narrativi a cui è impossibile resistere, soprattutto sul grande schermo. La storia del cinema, infatti, è ricca di titoli memorabili che hanno saputo affascinare il grande pubblico giocando con generi anche molto diversi tra loro. Se, quando si parla di viaggi nel tempo, riaffiorano immagini e sequenze di Ritorno al futuro, nel caso dei loop e delle ripetizioni temporali l’immaginario pop si nutre inevitabilmente delle situazioni narrate in Ricomincio da capo di Harold Ramis. Quest’ultimo sottogenere cult, tuttavia, si prepara ad accogliere nella sua leggenda un gioiellino che arriva direttamente dall’edizione 2020 del Sundance Film Festival. Le fredde ambientazioni che nel 1993 vedevano protagonista Bill Murray lasciano allora spazio a un racconto frizzante che si snoda a ripetizione in un resort: è il momento di correre al cinema per gustare Palm Springs! Quelli che, all’apparenza, potrebbero sembrare dei banali festeggiamenti in una lussuosa location di Palm Springs si trasformano in una sorprendente esperienza surreale che ha inizio quando, al ricevimento del matrimonio della sorella Tala, Sarah (Cristin Milioti) incontra fortuitamente Nyles (Andy Samberg), disilluso ed eccentrico ragazzo della testimone di nozze della sposa. Entrambi si ritroveranno intrappolati in un loop temporale che li costringerà a rivivere costantemente il giorno del matrimonio di Tala. Una fotografia dai colori accesi, un trailer frizzante e uno spunto narrativo sempre accattivante sono i tre elementi che stuzzicano senza dubbio la curiosità dello spettatore. Non sono, tuttavia, quelli che potrebbero fare la differenza rendendo cult un film tra tanti. Palm Springs, basandosi su questi solidi punti di partenza, trova la formula perfetta per uscire dal circolo vizioso di semplice film “carino” e diventare un gioiellino cinematico imperdibile che si colloca senza esitazione tra i migliori film dell’anno. Il collaudato ma esplosivo Samberg e la rivelazione Milioti compongono una coppia protagonista inedita che stravolge archetipi e convenzioni del genere della commedia romantica, coniugando le intuizioni originali di una sceneggiatura brillante con un ritmo incalzante che cattura sin dal primo minuto. l film d’esordio di Max Barbakow, tuttavia, non si accontenta di essere un racconto divertente e appassionante: dietro a un’apparenza scanzonata e irriverente, si nasconde infatti una riflessione sorprendente e acuta sulla necessità di crescere, di uscire dagli schemi e dai propri sistemi di convinzioni. Con uno sguardo agrodolce e malinconico, Palm Springs sceglie di osservare sotto un punto di vista diverso la condizione di solitudine – fisica e non – di un’intera generazione figlia di questo presente. Proprio grazie a questa forte connotazione legata a doppio filo con l’attualità, questo racconto riesce a essere in definitiva ancora più efficace del suo predecessore Ricomincio da capo, andando oltre l’iniziale presupposto di una visione nichilistica della realtà. Non rischiate di rimanere intrappolati nel loop quotidiano: correte al cinema per rimanere stupiti davanti a uno dei migliori film dell’anno! Immagini tratte da: www.hulu.com
di Matelda Giachi
La recensione
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Genere: Commedia
Anno: 2020 Episodi: 10 Durata: 30 min circa Cast: Lily Collins, Philippine Leroy-Beaulieu, Ashley Park, Lucas Bravo, Samuel Arnold, Camille Razat, Bruno Gouery Produzione: Darren Star Productions, MTV Studios Distribuzione: Netflix Paese: USA Ideatore: Darren Star
Nel periodo che stiamo vivendo più che mai, chi non sente il bisogno di leggerezza, di risate senza pensieri… Di ricordare e sentire addosso il lato gioioso della vita. In questo contesto si inserisce, o vorrebbe inserirsi, perfettamente una serie come Emily in Paris, originale Netflix di ultimo rilascio, che ha per protagonista una giovane Lily Collins trasferitasi per lavoro nella capitale francese, dove ovviamente la aspettano romanticismo, realizzazione e avventure. Il tutto confezionato in episodi di 20 o 30 minuti, la durata ottimale per una fugace pausa; a pranzo, in un pomeriggio di studi o a fine di una giornata di lavoro. Ma da leggerezza a superficialità il passo è breve.
Le prime critiche a Emily in Paris sono arrivate dai francesi stessi ed è difficile stupirsene. La serie porta in scena tutti i tipici clichè sull’arroganza e la supponenza parigina. Va detto, chi è stato a Parigi lo sa, che “accogliente” è un aggettivo che si può accostare a tante cose ma non a un parigino e che più o meno chiunque può riconoscersi in Emily quando, al più cordiale dei sorrisi mentre si impegna a chiedere un pain au chocolat in una boulangerie, riceve in tutta risposta un’alzata di sopracciglio e due parole nel francese più carico di disprezzo possibile. Ma va detto anche che gli sceneggiatori si sono lasciati un po’ prendere la mano.
Emily si trova a Parigi per offrire a Savoir, agenzia di marketing appena acquisita dall’azienda per cui lavora, il punto di vista americano. Lo scontro culturale è inevitabile quanto potenzialmente interessante e soprattutto divertente. Di fatto però la sceneggiatura dipinge, neanche tanto velatamente, i francesi (e con loro tutti gli europei) come snob, antiquati e anche un poco lavativi (no, non è un riferimento al bidet ma alla voglia di lavorare) mentre l’America, incarnata nel personaggio di Emily, è “smart” (qui l’inglesismo si rende necessario al fine di rendere a pieno il concetto) e proiettata verso il futuro. Un futuro che mira ad abbassare l’eccellenza ad un livello standard medio fruibile dalla massa, piuttosto che a produrre elevazione. In questo contesto si parla di moda ma il concetto, applicato su larga scala, ha un che di terrificante.
Parliamo di Emily; ha il sorriso di Lily Collins, ma la simpatia che proviamo per l’attrice non riesce a salvare il personaggio. Poco più che ventenne (22anni secondo la Collins, 25 secondo Netflix), le affidano un compito di rilievo in cui riesce alla grande vincendo difficoltà solo apparenti, a Parigi la adorano tutti, tranne ovviamente la sua capo, perché la regola dell’empatia filmica vuole che ci sia qualcuno a mettere i bastoni tra le ruote al protagonista. E per tutti intendiamo tutti, colleghi, uomini, donne, e soprattutto stilisti capricciosi che non considerano neanche il presidente, ma lei la invitano a prendere a cucchiaiate la crosta caramellata della crème brulée nei momenti di stress. Emily trova anche l’unica casa di Parigi accessoriata col bidet e il vicino belloccio che le sistema la doccia. E un lucano. Va bene, forse quest’ultimo punto (ci riferiamo all’amaro, ovvio) può contenere tracce di invidia, sta di fatto che si cerca per 10 puntate di far passare per genio una che si affaccia alla finestra e, per esprimere quanto sia felice di essere a Parigi, dichiara di sentirsi come Nicole Kidman in Moulin Rouge. Qualcuno le spieghi che il personaggio interpretato dalla Kidman faceva la prostituta, la sua vita non era di sua proprietà e tanto felice non era.
Ambientato in una Parigi che non esiste neanche nei film della Disney, quando la città vera è un oceano di bellezza quanto anche però di disagio che lascia sempre meno spazio al romanticismo per cui è famosa, Emily in Paris esagera in tutto e il troppo… Stucca. Vorremmo poter dire che almeno il guardaroba fa sognare ma, eccezion fatta per alcuni outfit di tutto rispetto, Emily sembra spesso uscita dall’armadio de’ La Bella e la Bestia mentre si difende dall’attacco del contado guidato da Gaston. Serena Van Der Woodsen e Blair Waldorf non erano certo esempi femminili troppo educativi… ma che guardaroba!
Ci dispiace ma, questa volta, stiamo con i francesi. Voto: 4/5
Immagini tratte da:
www.imdb.com www.ciaoradio.com www.insider.com www.euroweekly.com www.metro.co.uk Si può rimanere intrappolati nell’impervia rete della rete? Decisamente si! Questa è la recensione di Imprevisti digitali, irresistibile commedia a sfondo sociale di Benoit Delepine e Gustave Kervern che punta il dito contro l’informatizzazione che ha fagocitato le nostre esistenze. di Salvatore Amoroso
Non è sempre facile trattare al cinema il tema della comunicazione digitale e dei possibili danni collaterali di internet. Molti autori ci hanno provato: da The Social Network di Fincher a Pulse di Kiyoshi Kurosawa passando per Lo and Behold di Herzog e Disconnect di Rubin, il tentativo è sempre stato quello di analizzare una delle caratteristiche del mondo del web provando a coglierne gli aspetti problematici e le conseguenti ricadute sociali. Solitamente la direzione che questi film intraprendono, seppur con stili e sensibilità differenti, è quella dell’artificiosità dei rapporti telematici, descritti come falsi, disumanizzanti e talvolta pericolosi (soprattutto per le nuove generazioni che si lasciano facilmente irretire nelle maglie della social-comunicazione).
Da questo punto di vista, Imprevisti digitali di Benoit Délepine e Gustave Kervern si muove in una direzione opposta ma complementare. Il film racconta con i toni riflessivi della commedia francese la vita di tre vicini di casa: Marie (Blanche Gardin), Bertrand (Denis Podalydès) e Christine (Corinne Masiero). Marie è una madre disoccupata che cerca di riallacciare i legami con il proprio figlio adolescente e che, dopo una serata particolarmente movimentata, viene ricattata con un sex tape da un giovane ragazzo con il quale ha fatto l’amore; Bertrand, invece, cerca di difendere la figlia tredicenne vittima di cyberbullismo inondando Facebook di raccomandate e proteste e, nel corso della storia, si innamora della voce di una centralinista di un call-center delle Mauritius; Christine, infine, è un’autista freelance che dopo aver visto il proprio matrimonio fallire a causa della sua dipendenza dalle serie tv, tenta in tutti i modi di aumentare il proprio rating digitale ormai stabile a una stella su cinque. In questo film, dunque, i protagonisti non sono adolescenti problematici o geni informatici in cerca di successo, bensì tre vicini di mezz’età che vivono in un qualsiasi sobborgo della provincia francese e che entrano in contatto con le insidie e i problemi del mondo digitale in maniera accidentale. I protagonisti, infatti, non conducono una vita particolarmente smart o tecnologica, ma vengono comunque intrappolati dalle insidie di internet: accettare illeggibili cookie, inserire i codici captcha, cercare di vendere il mobilio online o ottenere finanziamenti vantaggiosi sul web, solo solamente i primissimi passi iniziatici che i personaggi compiono verso un mondo che percepiscono come altro e di cui non conoscono le regole. Questo perché la loro amicizia, per quanto precaria e fragile, è fatta di strette di mano, di birre stappate, di viaggi in macchina, di favori, confidenze, abbracci e parole. Niente social, niente e-mail o notifiche: Marie, Bertrand e Christine sono uomini e donne che pulsano di una vitalità e di un’ingenuità d’altri tempi che non emerge attraverso i tweet, ma con l’abusiva e scanzonata occupazione di una rotonda sulla principale superstrada della cittadina– magari rispolverando il vecchio gilet jaune della protesta con tanto di slogan e cartelloni. Un altro aspetto originale del film è l’attenzione che Délepine e Kervern dedicano al tessuto socio-economico e all’estrazione proletaria dei tre vicini di casa. Marie e Bertrand, infatti, pur essendo sommersi dai debiti e non riuscendo a pagare le bollette, si lasciano comunque raggirare dai call center, dalle presunte offerte telefoniche e il mondo di internet, anziché divenire l’Eldorado dell’emancipazione economica, si trasforma in un luogo impervio e incomprensibile dove tutti sono pronti a derubarti con piccoli stratagemmi e inganni. Lontano dall’essere uno strumento di realizzazione personale e lavorativa, il web tratteggiato in Imprevisti digitali è uno stato di natura artificiale dove il più competente, il più seguito e il più apprezzato approfitta del debole e dell’ignorante. Poco importa se nemmeno una stramba “divinità” che sfrutta l’energia eolica per produrre bitcoin riesce a risolvere il problema e aiutare i deboli: alcuni algoritmi, come sperimenteranno Marie e Bertrand sulla loro pelle, vanno oltre le buone intenzioni. Nel complesso, il film di Délepine e Kervern è un’opera fresca e originale che sfrutta i toni comici della commedia per affrontare il vasto e complesso tema del mondo digitale partendo dalle esperienze e dai vissuti di tre vicini disfunzionali che, alla fine, tornano a comunicare nell’unico modo efficace che conoscono: senza fili.
Immagini tratte da:
- Locandina da IlFattoQuotidiano.it - Immagine1 da Blog.il giornale.it - Immagine2 da ScreenMovie.it - Immagine3 da Madmass.com Di Federica Gaspari
Il titolo di nuovo maestro del gothic-horror sofisticato porta con sé un carico di aspettative e conseguenti responsabilità che possono mettere in seria difficoltà anche l’artista più esperto. Dopo l’esplosivo – e in parte inaspettato – successo di Hill House, Mike Flanagan era stato insignito proprio di questa carica. La sua capacità di stregare il pubblico attraverso brillanti intrecci psicologici e brividi di terrore, tuttavia, sembrava aver perso parte della sua efficacia dopo il discusso Doctor Sleep. Il regista e ideatore della serie antologica The Haunting of Bly Manor con il ritorno della sua serie antologica su Netflix ha tuttavia avuto un’altra occasione per tuffarsi nello sterminato universo dell’horror gotico. Questi nove nuovi episodi hanno saputo lasciare il segno stupendo ancora una volta il pubblico? Nei nove nuovi episodi una narratrice misteriosa, davanti ad un caminetto acceso di un’elegante abitazione, racconta la storia di un’istitutrice, Dani (Victoria Pedretti), che negli anni Ottanta cerca lavoro in Inghilterra dopo essersi trasferita dagli Stati Uniti. La grande occasione sembra arrivare rispondendo a un annuncio di lavoro per la ricerca di una giovane insegnante per due bambini nella tradizionale casa di campagna della famiglia Wingrave. Sin dai primi istanti, però, la ragazza nota piccoli dettagli sospetti, atteggiamenti ambigui e, soprattutto, avvenimenti sospetti tra le stanze di Bly Manor. Mike Flanagan torna nell’universo delle haunted houses rielaborando un grande classico, un titolo che nei passati decenni ha già ispirato decine di titoli tra piccolo e grande schermo: Il giro di vite di Henry James. Un romanzo così saccheggiato nel mondo dell’intrattenimento comportava rischi ancora più grandi di quelli presi con l’adattamento de L’incubo di Hill House. Tuttavia The Haunting of Bly Manor sa perfettamente sin dal primo minuto come proporre una versione innovativa ed estremamente complessa del grande classico della letteratura. Scegliendo un’ambientazione temporale molto precisa e giocando con l’intreccio narrativo, la serie riesce ad avventurarsi con un fascino invidiabile nelle vite di ogni personaggio e ognuno di questi è caratterizzato alla perfezione grazie alla preparazione di bagagli di esperienze e traumi estremamente articolati. I picchi di qualità, di virtuosismo alla regia e di emotività della prima stagione sono oggettivamente irraggiungibili. Tuttavia, il cast che popola le stanze in penombra di Bly Manor non fa rimpiangere troppo i precedenti personaggi. Tornano in scena infatti alcuni attori tra cui Carla Gugino, Oliver Jackson-Cohen e soprattutto Victoria Pedretti che qui da protagonista dimostra di essere ben più di un semplice fenomeno passeggero. La new entry T’Nia Miller, già eccezionale nella serie Years and Years, è l’altro nome in grado di fare la differenza, sorreggendo una delle storyline più complesse che esplora il significato di ricordi, rimorsi e incomprensioni nella vita di ogni personaggio. Nonostante un ritmo meno incalzante e una ridotta coesione tra la moltitudine di personaggi, The Haunting of Bly Manor lascia il segno e cattura con tutta la sua malinconica e inquietante poesia giocata sulle personalità – tutte da esplorare come le stanze della casa infestata - piuttosto che su jump scare o escamotage tipici del genere horror.
Immagini tratte da: www.netflix.com di Enrico Esposito Grande successo per la serata di premiazione dei cortometraggi selezionati per il FIPILI Horror Festival 2020 che si è tenuta ieri sera a Livorno presso il Cinema - Teatro Quattro Mori. La cerimonia è stata presentata dai direttori del FIPILI Alessio Porquier e Ciro Di Dato, che hanno voluto ringraziare gli addetti i lavori, i collaboratori e lo staff grazie ai quali è stato possibile realizzare la nona edizione di un appuntamento culturale consolidato all'interno del panorama italiano e internazionale. Prima di procedere alla nomina dei vincitori, il palco ha accolto la performance MISE EN ABYME di danza eseguita dalla ballerina Elena Zagaroli all'interno del progetto . Cinex. .Cinex è un progetto collettivo sotto la supervisione della fotografa Giulia Barini che attraverso la testimonianze di immagini e filmati provenienti dal passato intende celebrare la storia del cinema e dei cinema, come dimostra l'allestimento di una mostra all'interno del Cinema Quattro Morti finalizzata a porre in luce lo status di sale cinematografiche dismesse e teatri abbandonati in Italia. Al termine dell'emozionante esibizione, alla presenza dei membri delle giurie è iniziata la premiazione dei vincitori delle quattro sezioni previste dal concorso di quest'anno: 1) Selezione FIPILI Horror Weird, 2) Selezione Opere internazionali; 3) Categoria Fantastico e Fantascienza; 4) Categoria Horror e Thriller. La prima selezione celebrata è stata la FIPILI Horror Weird, che ha visto in lizza trenta titoli sottoposti alle valutazioni di una giuria composta dagli studenti della Laurea in Discipline dello spettacolo e della comunicazione dell'Università di Pisa, rappresentati da Lorenzo Pari. Il premio come miglior cortometraggio weird è andato a "Che gita di merda!" di Roberto Albanesi. La seconda categoria presa in esame è stata quella delle Opere internazional e ha visto salire sul palco i Licaoni Francesca Detti e Alessandro Bruno in qualità di portavoci della giuria. Tra i dieci film presentati il successo finale è andato al musical svedese "Live forever" per la regia di Gustav Egerstedt. Successivamente è stato il turno della selezione di cortometraggi all'insegna del fantastico e della fantascienza. Il riconoscimento di miglior cortometraggio è stato attribuito a "N" diretto da Iacopo Di Girolamo, che era presente in sala e ha ricevuto gli elogi da parte di due tra gli insigni componenti della commissione valutatrice, ossia il critico e giornalista cinematografico Federico Frusciante, fondamentale pilastro del festival, e la new entry Dalia Colli, apprezzatissima truccatrice insignita di tre David di Donatello nel corso della sua importante carriera. Gli stessi giurati sono stati chiamati ad incoronare in chiusura il primo classificato della categoria Horror e thriller, dichiarando il trionfo della pellicola horror di Andrea Corsini "Ferine". Immagini tratte da foto dell'autore di Vanessa Varini ![]() Titolo originale: "Alexandra Ehle" Paese di produzione: Francia Scritta e creata da: Elsa Marpeau Interpreti e personaggi: Julie Depardieu (Alexandra Ehle); Bernard Yerlès (Antoine Doisneau); Xavier Guelfi (Théo Durrel); Sophie Le Tellier (Ludivine Moret); Sara Martins (Diane Dombres); Quentin Baillot (Louis Pincé) Alexandra Ehle è la patologa forense dell'istituto medico-legale di Bordeaux, ha un carattere tosto, un po' strambo ed è ossessionata dal suo lavoro (a volte si addormenta persino sul lettino dove pratica le autopsie). Oltre a fare la patologa e a preferire la compagnia dei cadaveri a quella dei vivi, la donna è convinta che i corpi dicano sempre e solo la verità, quindi s'intromette di continuo nelle indagini del comandante della polizia Antoine Doisneau, che è suo fratello, ma spesso indaga anche da sola per rendere giustizia alle vittime. Ad aiutarla c'è il giovane e un po' imbranato stagista Théo Durrell, segretamente innamorato di lei. Siete appassionati di serie di genere crime e ne state cercando una consigliata anche "ai deboli di stomaco" e condita con un pizzico di ironia? Allora la serie francese "Alexandra Ehle", ideata da Elsa Marpeau, è quella che fa per voi. Qui le autopsie si fanno ma non si vedono, sono presenti arti mozzati, organi vari, corpi e teschi ma non fanno impressione. Nei panni della stravagante Alexandra c'è la talentuosa Julie Depardieu, vincitrice di tre Premi César, gli Oscar Francesi, due nell'edizione del 2004 e uno dell'edizione del 2008 e figlia del celebre Gérard Depardieu con il quale ha recitato in diversi film. Antoine Doisneau, il fratello poliziotto di Alex, invece, è interpretato dall'attore teatrale belga Bernard Yerlès e Théo Durrel, l'assistente patologo, è impersonato da Xavier Guelfi. Questo improbabile trio dovrà risolvere casi molto complicati e talvolta macabri (ad esempio in un episodio vengono ritrovati due corpi diversi uno attaccato all'altro), ma alla fine i colpevoli verranno arrestati proprio grazie al grande intuito di Alexandra. Oltre ai casi investigativi la serie mostra anche la vita sentimentale dei protagonisti: Alexandra è separata, trascura gli uomini per il lavoro ma alla fine s'innamora di un imbalsamatore di animali, Antoine scopre di avere una figlia adolescente di nome Iggy (anche lei molto eccentrica, ha un look dark come l'analista forense Abby Sciuto di "NCIS") e Théo è invaghito di Alexandra ma lei non lo considera. La serie va in onda ogni mercoledì alle ore 21:10 su Giallo (il Canale 38 del Digitale Terrestre) ma si può anche guardare su Sky al canale 167 e tutti gli episodi si possono riguardare in streaming, gratis, su DPlay, la piattaforma streaming di Discovery.
PER GUARDARE GLI EPISODI CLICCARE QUI https://it.dplay.com/giallo/alexandra/ FOTO TRATTE DA: https://nospoiler.it/ https://m.programme-tv.net/ https://nospoiler.it/ https://telescoop.tv/ Di Federica Gaspari ![]() Genere: horror, commedia Anno: 2020 Regia: Oz Rodriguez Attori: Jaden Michael, Gerald W. Jones III, Gregory Diaz IV, Coco Jones Sceneggiatura: Oz Rodriguez, Blaise Hemingway Fotografia: Blake McClure Produzione: Broadway Video, Caviar Paese: Stati Uniti d’America Durata: 86 min L’alba del mese di ottobre coincide alla perfezione con l’inizio delle celebrazioni cinematografiche e non dedicate all’arrivo di Halloween, festa che più di ogni altra ha intrecciato tradizione popolare con immaginario d’intrattenimento. In tempi eccezionali e già abbastanza inquietanti per la settima arte, in sala mancano i nuovi capitoli di routine di saghe orrorifiche collaudate. Proprio in uno scenario inedito come questo, Netflix ha inserito nel suo catalogo un titolo perfetto per l’occasione in grado di coniugare la migliore tradizione del genere con una narrazione urgente ma non per questo meno divertita e divertente. Vampires vs. the Bronx con tutto il suo irriverente potenziale è pronto a conquistare il pubblico di ogni età. Sul Bronx avanza nell’ombra una minaccia misteriosa e surreale pronta a cambiare per sempre il destino del quartiere e delle famiglie che ci abitano. L’ambigua Murnau Properties, infatti, sta acquistando decine e decine di immobili per costruire nuovi luccicanti locali che tuttavia non sembrano rispondere alle vere necessità degli abitanti del luogo. Miguel (Jaden Michael) è un teenager che nonostante la giovane età ha a cuore la situazione del Bronx, motivo per cui si impegna in prima linea anche contro questa nuova agguerrita società che ricopre di promesse e illusioni una delle zone più povere di New York. Il ragazzo, tuttavia, scoprirà presto che dietro a questa minaccia sociale si nasconde qualcosa di ancora più inquietante con i denti a punta e la sete di sangue: un gruppo di assetati vampiri. La nostalgia degli anni Ottanta e Novanta è stata ormai certificata come cardine collaudato di buona parte delle nuove narrazioni di formazione su piccolo e grande schermo. Il primo lungometraggio di Oz Rodriguez si inserisce alla perfezione nel filone inaugurato da Stranger Things con tanto di biciclette colorate guidate da un gruppo di ragazzini un po’ nerd in cerca di un’avventura in stile Goonies. Tuttavia, la lunga esperienza del regista nel regno della satira statunitense, il Saturday Night Live, riesce a regalare a questo film per ragazzi – e non solo! – l’intuizione in più che riesce a fare la differenza. Coniugando, infatti, i più ammiccanti riferimenti alla pop culture del genere con le più irriverenti rappresentazioni vampiresche di sempre, Rodriguez e un giovane cast entusiasta si scatena per le strade del Bronx trasformando un racconto di mistero a tinte comedy in una rappresentazione divertente e allo stesso tempo perentoria dell’attualità delle periferie a stelle e strisce. Habitat fervente e dinamico di nuove generazioni le cui speranze rischiano di rimanere schiacciate da illusioni e inganni, il Bronx diventa così il palcoscenico di un’intera comunità che si unisce rivendicando il diritto di scrivere in autonomia il proprio futuro, secondo i propri sogni ma anche errori.
In un panorama in cui è più che raro trovare una narrazione autentica quanto urgente, questo film distribuito da Netflix è una ventata d’aria fresca in grado di dare una svolta a una visione solo all’apparenza disimpegnata. Immagini tratte da: www.netflix.com di Matelda Giachi
“Senza amare se stessi non è possibile amare neanche il prossimo, l’odio di sé è identico al gretto egoismo e produce alla fine lo stesso orribile isolamento, la stessa disperazione” Hermann Hesse
The Boys in the Band nasce come dramma teatrale. Scritto da Mart Crowley, debutta a New York nel 1968, supera le mille repliche e diventa per la prima volta un film nel 1970, con il titolo di Festa di Compleanno del caro Amico Harold, per la regia di William Friedkin; è uno dei primi film a parlare apertamente di omosessualità. La versione 2020 prodotta da Ryan Murphy e distribuita da Netflix, si basa sul revival della pièce andata in scena a Broadway nel 2018, che ne celebra il cinquantesimo anniversario e vince il Tony Award come miglior revival di un’opera teatrale. Siamo a New York, nel 1968, e un gruppo di amici omosessuali si ritrova insieme per festeggiare il compleanno di uno di loro. La festa sembra decollare con leggerezza finché il sopraggiungere inatteso dell’ex compagno di college del padrone di casa non inizia a sconvolgere una serie di equilibri. Il gruppo finisce imbrigliato in un gioco sadico: telefonare all’unica persona che pensano di avere mai amato per dirglielo. Struttura prettamente teatrale, che ricorda un po’ il nostro Perfetti Sconosciuti, o Carnage diretto da Polanski, ma soprattutto Chi ha Paura di Virginia Wolf? di Edward Albee. Un ambiente ristretto ospita un apparentemente gioioso ritrovo di persone che però finisce in una sorta di gioco al massacro, in cui riemergono emozioni represse e non affrontate. E’ l’accettazione il tema centrale; non solo da parte della società ma anche e soprattutto da parte di sé. Questo gruppo di amici cerca insieme di fuggire il senso di solitudine che li attanaglia ma ciascuno vive completamente a modo suo il proprio dramma interiore, prigioniero in un doloroso autoisolamento. La trasposizione cinematografica conserva la regia e il cast della versione teatrale e mantiene immutata l’ambientazione originale, da cui il testo non può prescindere. Ci sono temi che sicuramente restano attuali, che trascendono perfino limiti di genere o di orientamento e che accomunano chiunque viva quel dissidio dato dal bisogno di appartenere ad un gruppo in contrasto con la necessità di affermare il proprio io individuale. Ma The Boys in the Band è soprattutto la fotografia di un determinato momento storico e della cultura e dello spirito di quel periodo, la fine degli anni ’60. Il cast è ovviamente ciò che regge un’opera di questo tipo: Zachary Quinto, col suo imperturbabile Harold, si impossessa della scena ogni volta che viene inquadrato. Ma è Jim Parson, lo Sheldon di The Big Bang Theory, il protagonista assoluto, nel suo riuscire a rappresentare perfettamente l’ambiguità di Michael, il suo essere diviso. A lui l’autore ha affidato la battuta che racchiude in sé tutta la sceneggiatura: "Se riuscissimo a imparare a non odiare noi stessi in modo così implacabile" Voto: 7,5 |
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Giugno 2023
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