Avete mai pensato di poter perdere la memoria selettivamente e di dimenticare soltanto i ricordi legati al cinema degli ultimi dieci anni? Luca Zambianchi lo ha fatto. E intorno all’oblio temporaneo del giovane Luca (interpretato dal regista stesso), ha realizzato Lo spettatore, elegante cortometraggio che segue, in ordine di tempo, Solitudine On demand.
È bastato (si fa per dire!) cominciare a guardare alcune scene della fantomatica pellicola “Il centopiedi umano” per cancellare ogni traccia di ricordo cinematografico. Uno shock che probabilmente non sarebbe capitato a tutti. Ma Luca è un malinconico e forse quel film non avrebbe dovuto guardarlo, “uno deve sapersi escludere per tempo!”
E allora cosa fare? Riacquistare la memoria? Ma poi perché? Per accorgersi di un panorama culturale in decadenza? Sì, perché in Italia, come lo stesso regista riporta ad inizio corto, le sale cinematografiche chiudono davvero. Se ne contano esattamente 1149 in meno, dal 2000 al 2014, perlopiù monosale.
Tra la calma surreale delle strade di Forlì e motivetti raffinati dal gusto retrò, il percorso riabilitativo (ma mica poi tanto), in cui Luca riscopre pian piano la realtà. I cinema chiudono: è uno stato di cose. Tanti i fattori che lo determinano. E a niente serve osannare certi filmetti scadenti riconvertendoli a grandi capolavori da parte una certa critica o, sul fronte opposto, il trincerarsi nella torre d’avorio di una concezione elitaria dell’arte. Il cinema era ed è intrattenimento .
E Luca, che è lo spettatore, ce lo ricorda bene. Seduto, sulla poltrona di un cinema all’aperto dopo aver assistito alla proiezione di una pellicola restaurata, ammette che forse perdere la memoria non è poi una disgrazia. L’importante nella vita resta l’atteggiamento. Bisogna imparare a riconquistare, più che la memoria, quella “sana inconsapevole leggerezza” di cui troppo spesso ci dimentichiamo.
Una riflessione “malincomica” (neologismo coniato dal regista che fonde insieme malinconia ed ironia) sulla condizione della settima arte ai nostri giorni in grado mostrare gli effetti concreti del “mondo che cambia” attraverso lo spettacolo decadente delle saracinesche abbassate e del progressivo assottigliarsi degli spazi di condivisione artistica. Inquadrature spesso fisse mostrano Luca, tra le strade della sua Forlì in un racconto fluido, ricercato ed elegante pur (e forse soprattutto) nella sua semplicità, esito in parte delle scelte registiche (inclini a lasciare libertà interpretativa allo spettatore) ed in parte scelta obbligata (effetto del low budget). Un accattivante connubio di ironia e malinconia che esalta la freschezza di un narrare giovane ma già nostalgico. Una storia che offre lo spunto a delle riflessioni su più livelli di lettura. Abbiamo quindi pensato di rivolgere alcune domande al giovanissimo Luca Zambianchi. Di seguito, la nostra intervista.
Di solito si parla delle aspettative del pubblico rispetto all’uscita delle pellicole. Invertiamo la prospettiva: chi è per te lo spettatore e cosa ti aspetti da lui?
Per fortuna non esiste un solo tipo di spettatore, altrimenti esisterebbe un solo tipo di film… e molto probabilmente non sarebbe il mio! Lo spettatore è parte del film a tutti gli effetti, perché alla fine è colui o colei che darà un significato personale al film… e in questo senso, quindi, esistono anche molte versioni dello stesso film. Ogni spettatore ha la propria sensibilità e il proprio approccio alla visione di un film. In linea generale, io cerco di fare ciò che mi piacerebbe vedere da spettatore, sperando che qualcuno sia simile a me. “Il centopiedi umano” è il film che nel corto ti causa l’amnesia cinematografica. Tenendo presente la scena cinematografica odierna (italiana e non), a quale genere ti consideri più lontano? Credo che l’horror e i film d’azione siano decisamente i più lontani dai miei gusti e dalle mie aspirazioni. Per fortuna in Italia se ne fanno pochi, ma in compenso abbondiamo di commedie ammiccanti alla mediocrità dell’Italiano medio. In generale, non mi piacciono quei film che sottovalutano la mia intelligenza di spettatore. Parliamo di Luca come spettatore. Quali sono i registi e gli attori che ti ispirano o ti hanno ispirato? Sono uno spettatore molto diligente, vado al cinema almeno una volta a settimana e cerco sempre di scoprire autori che non conoscevo… però, quando ritorno da queste “esplorazioni”, mi rifugio sempre in Nanni Moretti, Sorrentino e il Woody Allen presenile. Ho gusti molto ristretti, ma forti. Ne “Lo Spettatore” c’è un forte contrasto tra la calma surreale delle strade in cui ti muovi e un mondo che si evolve rapidamente, il cui riflesso è la chiusura dei cinema. Il tema del mondo che cambia era presente anche in Solitudine On Demand. Come concili la tua sensibilità artistica di giovane regista con una realtà che non sempre cambia in meglio? Insomma, pensi sia meglio vivere il presente o ricordare il passato? Penso che l’ideale sarebbe fare entrambe le cose. Credo che la malinconia sia un sentimento necessario per avere consapevolezza dello scorrere del tempo. In questo senso, il ricordo del passato, spesso partendo dall’infanzia, ci serve per capire che traiettoria esistenziale abbiamo percorso finora e quindi è utile, secondo me, anche per vivere il presente con più consapevolezza. Dai quei pochi cortometraggi che ho fatto, credo che un tema ricorrente sia la diffidenza verso chi vive costantemente al passo coi tempi e giustifica ogni cosa con la frase “il mondo cambia”. Trovo molto più interessanti quelli che incespicano e si sentono sempre un po’ fuori posto. Qual è, secondo te, la ricetta per cercare di non realizzare film banali o scadenti e allo stesso tempo coinvolgere lo spettatore, evitando di cadere in forme snobistiche di autoreferenzialità? Se avessi questa ricetta, la userei più spesso… Come concili la tua vena nostalgica con una realtà accelerata che, pur considerandoi tanti aspetti negativi, facilita la possibilità di sperimentare e mettersi in gioco anche per noi giovani? Pensi che la tecnologia possa effettivamente giocare un ruolo importante rispetto all’emergere di nuovi talenti? La tecnologia è venuta al mondo senza colpa, poi dipende dall’uso che l’uomo ne fa. Nel caso preciso del fare film, il digitale ha permesso a gente come me di fare film eliminando le spese annesse alla pellicola, ma la spesa non è diminuita. Ora i soldi si spendono in carrellate e dolly e rincorrendo una fotografia ultra-patinata, come per far vedere a tutti che “si sta facendo cinema”. Molti cortometraggi che si vedono oggi ai festival vengono girati con 10-20.000 euro di budget, e il contenuto è quasi sempre un pretesto per fare a gara di muscoli nel reparto fotografia. Che va benissimo per vantarsi al bar con gli amici. Nuovi progetti? Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Adesso inizia la fase che preferisco, quella delle idee da setacciare e da scrivere. Non state in pensiero, mi faccio vivo io quando ho fatto qualcosa…
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Il 22 novembre è stato il 25esimo anniversario dell'uscita de "La bella e la bestia" nelle sale americane: vi propongo quindi la recensione della versione de "La bella e la bestia" del 2014 con Vincent Cassel e Léa Seydoux.
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Un ricco mercante un giorno, perde tutte le sue ricchezze in mare e, insieme ai suoi sei figli, si trasferisce oramai ridotto in povertà in campagna. Ma un giorno la fortuna bacia di nuovo la famiglia e il mercante decide di esaudire i desideri delle sue tre figlie: le maggiori, antipatiche e altezzose vogliono abiti, profumi e scarpe mentre la minore, l'innocente ma testarda Belle, vuole solo una rosa. Il mercante, però, prende la rosa nel giardino di un tetro castello e s'imbatte in una spaventosa Bestia che chiede "una vita per la rosa"; solo la pura Belle, che si sente in colpa per aver chiesto il fiore, si sacrifica al posto del padre: ma invece di ucciderla, la Bestia la tiene prigioniera nel suo regno in un castello circondato da un bosco. Belle non si abbatte e vuole scoprire il passato del suo carceriere ed intanto esplora le dimore della sua prigione. Un passato oscuro e triste, purtroppo, si nasconde nella Bestia: Belle è l'unica che può salvarlo; l'unica che può restituirgli la libertà. Questa versione de "La Bella e la Bestia" diretta dal regista Christophe Gans (quello dell'horror "Silent Hill" e de "Il patto dei lupi"), rispecchia l'originale fiaba francese, ma anche il film del 1946 di Jean Cocteau. Gans però ha cercato un nuovo adattamento del racconto, basandosi soprattutto sullo scritto del 1740 di Madame de Villeneuve, molto più esteso della riduzione di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont del 1756, ma aggiungendo molti elementi innovativi. Ad esempio si sofferma molto sul passato della bestia grazie ai flashback, quando il principe era un uomo innamorato di una dama (Yvonne Catterfeld) e dà ampio spazio anche al padre e alle sorelle di Belle (che ricordano molto le scorbutiche sorellastre di Cenerentola). Pregi del film sono gli effetti visivi la bellezza dei paesaggi innevati, visionari e dark (che ricordano le atmosfere di "Edward mani di forbice" di Tim Burton), il bosco che si apre, il roseto, i giganti di pietra. Perfetti nella parte, il cattivo ragazzo (Vincent Cassel) maledetto da un incantesimo ma redento dall'amore di una pura ragazza e la buona e sensuale (Lèa Seydoux).
Da non perdere il loro ballo (scena cult della fiaba de "La Bella e la Bestia") romantico ed emozionante. Ottime le scenografie fiabesche, i costumi indossati da Belle ogni giorno di un colore diverso (bianco, verde smeraldo, rosso, blu) e la realizzazione in motion capture della Bestia dagli occhi azzurri (simile a quello del cartone animato Disney). "La bella e la Bestia" è un film adatto per tutte le età perchè il suo insegnamento è sempre attuale: bisogna giudicare qualcuno per quello che è veramente invece di fermarsi all'espetto esteriore ed inoltre mostra varie sfumature dell'amore, non solo romantico, ma anche paterno. È film perfetto da guardare durante le feste natalizie per sognare e fantasticare ad occhi aperti.
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Perché una sezione interamente dedicata al punk al Festival del Cinema di Torino? La risposta è facile. Il prossimo 26 novembre (data in cui peraltro si chiuderà la kermesse torinese), saranno trascorsi quaranta anni dall’uscita di Anarchy in the U.K., primo singolo dei Sex Pistols, un manifesto del punk anarchico inglese. Tanti i titoli che arricchiranno lo speciale palinsesto: da The Blank Generation (1976) e Jubilee (1978), passando per Rock’n roll High School (1979) e Suburbia (1983), fino a The Decline of western civilization e Il Ritorno dei morti viventi (entrambi del 1985). Ultimo, ma non per importanza, Sid e Nancy di A. Cox, che risale al 1986. A metà strada tra leggenda e biopic, la pellicola ripercorre la storia d’amore e morte del bello e dannato Sid Vicious (Gary Oldman), una delle icone del punk inglese (nonché inventore del pogo), e della sua compagna, la groupie Nancy Spungen (Chloe Webb).
Al di là dei contenuti, in parte romanzati anche a seguito dell’aggiunta di personaggi non realmente esistiti, il film ci riporta alle atmosfere tipicamente punk: periferie povere e degradate, abbigliamento e acconciature stravaganti e anticonvenzionali, canzoni dure e dai ritmi concitati (che peraltro non appartengono ai Sex Pistols) e naturalmente, agli eccessi delle giovani generazioni in quegli anni. Americana lei, inglese lui. L’incontro avviene a Londra nel ‘77, sotto il segno dell’eroina. Sid è già il bassista dei Sex Pistols. È lui stesso ad intercettare la giovane tossica perché vuole acquistare dell’eroina. Un incontro fatale quello con Nancy che condurrà Sid in un vortice mortale di eccessi. I due si piacciono e si innamorano. Un amore tossico il loro, uniti dal bisogno di farsi, anzi di strafarsi, rigorosamente insieme. Vani sono i tentativi di allontanare Sid dalla pericolosa relazione: non basta nemmeno una tournee di un mese in America per separarli. Anche negli States, Sid continua sulla strada intrapresa a Londra, esibendosi strafatto e addirittura realizzando atti masochistici sul proprio corpo. Insanguinato e barcollante, mostra tagli sul torace che riportano il nome “Nancy”. Svenimenti sul palco, crisi di astinenza, ricoveri in clinica. Sid è un peso e la band, stanca di arginare i suoi eccessi, lo scarica. Più nessun ostacolo separa Sid dal suo amore-dipendenza. Sono anni in cui i due girano varie città, prima Parigi, li vediamo in romantiche scene, innamorati, a spasso per la città; poi New York, dove Nancy, sfruttando qualche conoscenza, riesce a far nuovamente suonare il ragazzo, procacciandogli delle serate. Ma è un flop: il pubblico non lo appezza. Tra tentativi vani di uscire dall’eroina e lo sprofondare sempre più nell’abisso della dipendenza, i due giovani perdono qualunque stimolo e qualsiasi progettualità. I giorni si trascinano stanchi e tutti uguali: senza soldi, senza cibo, senza fare l’amore, senza uscire. Senza sogni. Solo l’eroina e l’esausto degrado di due non-vite. Poi, l’estrema promessa: morire insieme. Ma Sid ci ripensa. Non vuole ancora morire. La ricostruzione romanzata di Cox, mostra quello che probabilmente è accaduto la tragica notte del 12 ottobre del 1978 nella camera d’albergo del Chelsea Hotel di New York. Un violento litigio e una coltellata all’addome di Nancy. Ha solo 20 anni quando realizza il desiderio di lasciare la sua non-vita. Sid, uscito su cauzione dal carcere, sale a bordo di un taxi in cui ad aspettarlo c’è la sua amata Nancy. Questo, l’immaginifico finale pensato da Cox che allude alla fine del ragazzo. Morirà il 2 febbraio del 1978, a soli 22 anni, ucciso dalla droga e dall’amore. Più interessato alla storia d’amore che a delineare un quadro ideologico della controcultura, Sid e Nancy è un film senza fronzoli. Valido monito, ieri come oggi, nei confronti di ogni forma di malessere individuale e sociale e del possibile sfociare, nichilistico, in forme di dipendenza difficili da recuperare. Forte, crudo e provocatorio nel mostrare la stagnazione e fedelissimo alla realtà nel riportare in scena alcuni episodi realmente accaduti (come l’esibizione di My Way, con tanto di sparatoria finale). Azzeccatissimi nei ruoli Gary Oldman (dovette affrontare una drastica dieta per il ruolo) e Chloe Webb (era stata pensata per il ruolo Courtney Love, che tuttavia è presente in un ruolo secondario), capaci di rendere la potenza tragica di un amore estremo, votato all’autodistruzione. Immagini tratte da: Immagine 1 da webspace.youbring.com Immagine 2 da lillielle.blogspot.it Immagine 3 da pinterest.com Immagine 4 da thefilmstage.com Immagine 5 da espalhafactos.com Immagine 6 da altscreen.com
Ormai raccapezzarsi all'interno dei cinecomic marvel non è un'impresa facile. Come se non bastasse, con Doctor Strange, uscito in Italia il 26 ottobre, si aggiunge un nuovo tassello al complesso mosaico dei supereroi cinematografici.
Il film riprende fedelmente la storia del fumetto, concentrandosi sulla nascita dello stregone supremo Stephen Strange (personaggio creato da Steve Ditko nel 1963.). Brillante e affermato neurochirurgo, Strange (interpretato da un magistrale Benedict Cumberbatch) perde l'uso delle mani a causa di un incidente stradale. Sul baratro della disperazione a causa della carriera distrutta, si reca in Nepal per cercare di guarire. Contro ogni sua aspettativa, si troverà ad aver a che fare con una congrega di potenti stregoni. Aiutato dall'Antico (una sempre camaleontica Tilda Swinton) e da Karl Mordo (Chiwetel Ejiofor, già candidato all'Oscar per il suo ruolo da protagonista nel bellissimo 12 anni schiavo), Strange imparerà le vie della magia, salvando (come da copione, ormai) il mondo dall'ennesima minaccia soprannaturale e diventando lo Stregone Supremo.
I film Marvel ormai hanno abituato lo spettatore ad un certo modo ben preciso di fare cinema d'intrattenimento. E Doctor Strange non fa eccezione: una trama semplice ma godibile e non troppo scontata, un ritmo incalzante e una buona dose di ironia. Questa volta, molto del fascino del film è dovuto all'interpretazione di Cumberbatch: l'attore britannico è perfetto nella parte di Stephen Strange, chirurgo geniale e infallibile ma borioso e sicuro di sé, un po' Tony Stark e un po' Gregory House. Dispiace un po' non poter godere della versione originale per riuscire a gustarne appieno l'interpretazione (così come quella di Mads Mikkelsen nella parte del cattivo di turno).
In un cameo nel film Stan Lee legge su un autobus le Porte della percezione di Aldous Huxley. Non è una scelta casuale, ma una sorta di dichiarazione d'intenti: Dr Strange si inserisce in un universo nuovo. Abbandonate per un attimo le ambientazioni tecnologiche e futuristiche l'universo Marvel scopre la magia. Il nuovo tema permette alcune trovate visive davvero impressionanti: edifici che si ripiegano su se stessi e si trasformano dando vita ad architetture che ricordano le opere di Escher e strizzano l'occhio ad Inception; armi che compaiono dal nulla e viaggi astrali. Da questo punto di vista il film è riuscitissimo, e sicuramente l'esperienza 3D aggiunge qualcosa in più (finalmente!) alla pellicola. Un po' raffazzonata forse è la descrizione del percorso di crescita del protagonista. Il razionale e cinico dottore in carriera, dopo un'iniziale diffidenza, abbraccia senza troppi problemi il mondo magico, senza farsi tante domande sull'origine dei suoi poteri e sulle varie pillole zen che vengono snocciolate durante il film. Esigenze di sceneggiatura, certo, ma peccato non aver approfondito di più l'argomento.
C'è chi ha scritto che Doctor Strange rappresenta un nuovo inizio per il cinema supereroistico. Sensazionalismi a parte, sicuramente è un film divertente che si distacca per ambientazioni e temi dai suoi predecessori. Le classiche scene dopo i titoli di coda a cui la Marvel ci ha ormai abituato (stavolta ben due) spianano già la strada per un sequel.
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Quando gli occhi di un folle incrociano la targa della tua auto, difficilmente riuscirai a scappare da tutta quella violenza. Il primo lungometraggio Cult di un giovane e acerbo Spielberg recensito per voi da Salvatore Amoroso
Il tranquillo e civile David Mann (Dennis Weaver), innocuo commesso, sta percorrendo la lunga e desolata autostrada del Nevada per motivi di lavoro. Il nostro protagonista lungo il suo tragitto s’imbatte in una grande autocisterna che gli ostacola il cammino e decide così di sorpassarla, non sapendo però che la sua innocua azione gli costerà molto ma molto cara. David vivrà un incubo senza fine in cui dovrà cercare di sopravvivere ai ripetuti tentativi di omicidio dell’autista fuori di testa dell’autocisterna killer. Un folle viaggio fatto di alta velocità, inseguimenti e umiliazioni in un crescendo continuo di altissima tensione.
Tratta da una sceneggiatura del maestro dei serial TV americani Richard Matheson, Duel è un road-movie tra i più famosi nel suo genere. La pellicola negli anni ’70 era stata concepita per la televisione ed è per questo che la produzione scelse un giovane regista acerbo appena venticinquenne, fanatico dell’azione e degli horror a basso costo, un certo Steven Spielberg. Gli addetti ai lavori pare che ripetessero allo stesso Matheson: ‘’non preoccuparti della regia, il giovane è in gamba e si farà’’. Quelli furono i suoi primi passi in un cammino costellato di successi e capolavori che lo renderanno una leggenda dell’universo cinematografico. Il successo di Duel, nato inizialmente solo come un piccolo progetto, fu senza dubbio inaspettato, tanto che portò i produttori a chiedere al giovane Spielberg di aggiungere degli effetti visivi all’avanguardia affinchè potessero portarlo al cinema. Inutile dire che fu un clamoroso colpo di genio che portò Duel verso lo status di vero e proprio Cult di genere, tutt’oggi osannato e ancora citato da milioni di fan. Quella del giovane regista di Cincinnati fu una sfida a tutto tondo, sia grafica che psicologica. Portò le telecamere sugli autoveicoli rendendo le inquadrature dinamiche e assolutamente innovative, addirittura volle osare ancora di più posizionandole fisse proprio sopra le ruote, rendendo il tutto più incandescente e adrenalinico. Basti pensare che lo spettatore a volte può percepire una forte sensazione di nausea quasi come se si trovasse invischiato in quelle furibonde lotte su strada. Che dire poi delle ottime inquadrature (cupe e angoscianti) sul finestrino del pilota o sul muso dell’autocisterna sempre in ombra, quasi come se fosse un oscuro veliero guidato dal demonio in persona. La vera sfida fu anche scegliere un attore abbastanza anonimo come Dennis Weaver, capace di incarnare alla perfezione il mite uomo americano comune, onesto e padre di famiglia, che si ritrova invischiato in una situazione anomala e terrificante. L’attore è bravissimo nell’esternare tutta la violenza psico-fisica che prova il protagonista in tutto il film, il suo equilibrio mentale è costantemente messo a dura prova sia dall’angusto contesto del deserto sia dalle situazioni al limite dell’assurdo, come gli sbeffeggiamenti dei maleducati bambini sullo scuola-bus in panne che rendono il tutto ancora più folle ed esasperante. Apprezzato persino dal maestro Fellini che volle incontrare il giovane ma geniale regista di persona per potersi congratulare con lui. Duel, primo lungometraggio di Spielberg rimarrà per sempre nella storia del cinema. É per questo che IlTermopolio ha deciso di proiettarlo Giovedì 24 Novembre nella sua rassegna dedicata alla storia dei Road-Movie Cult. Se ancora non l’avete visto e avete sempre sognato di farlo noi saremmo lieti di avervi come ospiti per condividere insieme a voi una delle pietre miliari della grande industria dei sogni, che ci piace raccontarvi ogni settiama. Al prossimo appuntamento con una nuova recensione, buona lettura e come sempre buon cinema a tutti voi. Immagini tratte da: Locandina: Cinemalato-Wordpress.com Immagine1: ComingSoon.net Immagine2: VirginMedia.Com Immagine3: MoviePlayer.it Immagine4: Blu-ray.com Immagine5: www.Ciak.it ![]()
Circa una settimana fa, durante l’ottava cerimonia annuale dei Governors Awards presso il Centro Hollywood & Highland a Los Angeles, in California, Jackie Chan ha ricevuto un Oscar alla carriera per "il successo conseguito durante la sua carriera, i suoi contributi eccezionali all’arte di fare film, e grazie alle sue eccellenti interpretazioni". Jackie Chan ha detto "Dopo 56 anni nel settore della cinematografia, facendo più di 200 film, dopo essermi fatto le ossa, questo è mio". Infatti Jackie Chan ha iniziato come stuntman nei film di Hong Kong e poco a poco divenne noto per il suo coraggio e per le sue abilità nelle arti marziali. Ma è stato nei suoi successivi blockbuster “Rush Hour” e “Pallottole cinesi“, che ha raccolto l’attenzione anche del pubblico americano. Molti si sono complimentati con Chan tra cui proprio Chris Tucker suo partner in "Rush Hour" ringraziandolo, ha detto che è stato un onore lavorare con una leggenda vivente! Quindi oggi vi propongo la recensione di "Rush Hour"!
Hong Kong. il detective Lee (Jackie Chan), amico intimo del console Han Solon (Tzi Ma), riesce ad impedire che alcuni preziosissimi manufatti cinesi vengano portati fuori dal paese da alcuni contrabbandieri. Due anni dopo, mentre il console si è trasferito a Los Angeles con la sua famiglia, il boss malavitoso Juntao (Tom Wilkinson) si vendica dell'azione di due anni prima rapendo la sua giovane figlia Soo Yung (Julia Hsu). Non fidandosi dell'FBI, Han chiede aiuto a Lee. tuttavia la polizia locale non vuole assegnare il caso ad un agente estero, e gli affianca il detective James Carter (Chris Tucker). I due insospettabilmente si riveleranno una coppia vincente nonostante siano due persone completamente opposte sia esteriormente che caratterialmente. "Rush Hour" è il primo film dell'avvincente saga "Rush Hour" che vedrà come sequel i film: "Rush Hour: Colpo grosso al drago rosso" del 2001 e "Rush Hour: Missione Parigi" del 2007. Questa saga si basa sulla forza di un duo misto come la famosa serie di film "Arma Letale" dove un coppia black and white indaga regalando momenti di sano divertimento uniti da una vena action. Questa volta i poliziotti sono black and yellow (un cinese ed un afroamericano): il primo caratterizzato da humor orientale, campione di arti marziali e re degli action movies orientali, un nuovo Bruce Lee ma dalla faccia buffa e non minacciosa, il secondo Chris Tucker imita il linguaggio sguaiato che ha reso celebre il comico e attore dalla risata inconfondibile Eddie Murphy.
Il risultato? L'attore afroamericano in compagnia di Chan crea battibecchi divertenti, giocando sulle differenze e gli stereotipi culturali, il tutto unito da scazzottate ed esplosioni. E non dimentichiamoci le scene di combattimento, uniche per la tecnica e per la sua particolare interpretazione, quasi in chiave comica. Dopo i titoli di coda, non perdete gli errori che sono stati compiuti sul set: è un classico nelle pellicole dell'interprete cinese mostrare una lunga serie di battute sbagliate e gli "incidenti" acrobatici avvenuti durante le riprese. Il film diretto dal regista Brett Ratner, ha incassato 245 milioni di dollari e ha raggiunto negli Stati Uniti il settimo posto come miglior incasso del 1998 e inoltre rappresenta il terzo più grande successo commerciale della storia per un film di arti marziali superato solo dal seguito "Colpo grosso al drago rosso - Rush Hour 2" e da "The Karate Kid - La leggenda continua"! "Rush Hour" è buon film d'azione, adatto per passare una serata spensierata.
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In esclusiva per voi cari lettori una speciale intervista agli autori del film del momento Mine, autentica sorpresa del panorama cinematografico europeo. Li ha intervistati per noi Salvatore Amoroso con la preziosa collaborazione del cinema Arsenale di Pisa.
Il 2016 verrà sicuramente ricordato come l’anno in cui un nuovo cinema di genere italiano si sia fatto strada in maniera dirompente nel vasto panorama cinematografico europeo e internazionale. Giovani (si fa per dire) registi come Matteo Rovere, Gabriele Mainetti e Sydney Sibilia hanno rivoluzionato letteralmente il modo di fare cinema in Italia e se non vi aspettavate più colpi di scena vi sbagliavate di grosso. Come un fulmine a ciel sereno è apparso il duo composto da Fabio Resinaro e Fabio Guaglione, amici fin dai tempi del liceo scientifico che condividono una grande passione per il cinema e che hanno recentemente portato sugli schermi l’interessante caso cinematografico dell’anno, ovvero il sorprendente Mine. I due vengono folgorati sul finire degli anni ’90 dalla visione di Matrix ed è proprio da lì che decidono di concentrare tutti i loro sforzi per diventare registi. La loro carriera prima di arrivare al loro primo lungometraggio è vastissima e piena di prodotti validi e molto originali, spaziano dal mondo dei corti a quello dei videoclip, buttandoci in mezzo qualche spot pubblicitario. L’estro, la grande passione e la maniacalità che li contraddistingue sin da subito nelle loro opere finisce per portarli al concepimento dell’emozionante Mine, per chi ancora non l’avesse visto non sveleremo nulla ma per voi ‘’peccatori’’ abbiamo solo una cosa da dirvi: ‘’correte a vederlo, non sapete cosa vi siete persi’’. Mine non è solo un film di genere, è una pellicola adrenalinica, emozionante e davvero illuminante e addirittura un dato che non possiamo non trascurare è che l’opera dei Fabio’s è uno dei film con la copia per sala più alta in assoluto della stagione.
È evidente che una nuova ondata di autori sta finalmente portando una ventata di aria fresca nel nostro cinema nazionale, troppo spesso stantio e colpevolmente povero di idee. Altro fatto non da trascurare è che il pubblico si sente molto più coinvolto da questo tipo di storie e questo fa ben sperare per l’inizio di una nuova era del cinema italiano, non più solo fatto di commedie e drammi ma pronto a rigenerarsi con l’avvento di idee fresche e giovanili che sempre più spesso s’incastrano perfettamente con le passioni e gli interessi del pubblico della generazione ‘’smartphone’’. IlTermopolio con la preziosa collaborazione del cinema Arsenale di Pisa, sempre sul pezzo nel selezionare le pellicole che contano, è riuscito a incontrare i due registi ed è venuta fuori una piacevole chiacchierata sulla realizzazione del film e non solo. Rigraziamo Antonio Capellupo e i due Fabio&Fabio per la grande disponibilità e cortesia e vi lasciamo all’interessante intervista realizzata per noi da Salvatore Amoroso, che ha anche recensito la pellicola Mine, buona lettura e al prossimo appuntamento cinematografico con IlTermopolio.
Come vi siete conosciuti e com’è nata la vostra collaborazione?
L’incontro è stato ‘’obbligato’’ perchè eravamo nella stessa classe. Ci siamo incontrati prima su un terreno fatto di fumetti, altra nostra grande passione, quello che volevamo fare era raccontare delle storie e la cosa più semplice in quel momento era farlo sui banchi di scuola con carta e matita. Siamo sempre stati appassionati di cinema anche se all’inizio il nostro obbiettivo era quello di realizzare un fumetto, l’idea era una saga di mille volumi fantascientifica, purtroppo poi fallito miseramente (ridono). Forse in principio ci eravamo concentrati sul fumetto perchè ancora non avevamo idea di come si realizzasse un corto o un film. Tra l’altro in classe con noi c’era anche l’autore delle musiche di Mine, Andrea Bonini, nostro collaboratore inseparabile.
Quant’è importante per voi la scelta delle musiche nei vostri lavori?
L’importanza per noi è totale. Ti diciamo solo che ad un certo punto abbiamo scoperto che il film sarebbe dovuto essere una coproduzione tra Italia e Spagna, il che voleva dire che avremmo dovuto prendere la maggior parte dei capi reparto spagnoli a eccezione di uno che potevamo scegliere noi. Abbiamo rinunciato a malincuore al nostro direttore della fotografia storico, e tu sai che la fotografia gioca uno dei ruoli più importanti all’interno del set, per avere il nostro collaboratore musicale. Per noi la musica è il terzo linguaggio presente in una pellicola, la musica può farti piangere e può farti ridere. Ci teniamo a dire che Andrea ha lavorato con noi su tutti i nostri lavori dall’inizio, fin dai nostri primi cortometraggi, perchè siamo cresciuti insieme. Tutto questo ovviamente ha reso disperato il nostro direttore alla fotografia storico (ridono) però chiaramente in futuro non mancheranno le occasioni per lavorare insieme a lui.
Quanto sono stati importanti per voi i sedici anni di gavetta? E quanto è importante lo storyboard nelle vostre pellicole?
Alle spalle abbiamo 16 anni di gavetta, abbiamo girato quattro corti di cui alcuni però sono delle epopee da trenta minuti pieni d’effetti speciali, quindi valgono come cinque corti normali e poi dieci-quindici videoclip musicali e anche degli spot. Questo percorso è stato fondamentale per il nostro processo creativo. Noi abbiamo coscienza di tutto il processo del film dal suo inizio alla fine, una coscienza che è nata per necessità in quanto fisicamente abbiamo sempre fatto tutto noi, dato che era l’unico modo per realizzare quello che volevamo fare. Piano piano questo è diventato parte stessa del processo creativo, nel senso che siamo riusciti a massimizzare i piccoli budget che abbiamo avuto a disposizione e portare sullo schermo qualcosa che in realtà ha un messaggio più ampio, proprio perchè li concepiamo dalla scrittura e sappiamo già come li andremo a girare e postprodurre. Stiamo parlando della buona vecchia e sana esperienza, noi ne abbiamo fatto tanta e ci ha permesso di far maturare le nostre conoscenze in ogni ambito. Per noi anche lo storyboard è assolutamente fondamentale, sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista pratico all’interno del set. Quando hai tante cose che ti frullano in testa è fondamentale iniziare a disegnare il film così come lo vedi, perchè la sceneggiatura sono solo parole e quando inizi poi a capire come lo vorrai girare lo metti sui disegni, solo lì inizi veramente a vedere il film. Per questo è importantissimo lo storyboard, è un efficace strumento di lavoro che viene condiviso con tutti i collaboratori sul set, per pianificare tutto quanto e per essere preparati a eventuali imprevisti che possono accadere in fase di realizzazione.
Come siete arrivati a concepire Mine e a cosa vi siete ispirati?
Diciamo che l’idea è nata da un’immagine, che è quella del soldato fermo sulla mina. Non abbiamo capito subito che potesse essere una metafora, ma l’abbiamo vista come una bell’idea su cui ci si poteva costruire un film di genere, un high concept facile da spiegare e che probabilmente era anche facile da produrre. Quando abbiamo capito che quest’idea potesse avere un valore metaforico, cioè l’uomo bloccato in un deserto che fosse eco di un blocco interiore, allora ci siamo accorti che potevamo costruire una narrazione che avesse senso e che avremmo potuto girare. Potevamo sviluppare tutta una poetica coerente coi i lavori precedenti. Tutta la propositività è nata a monte con l’idea di un film che avesse un budget contenuto. Sulle influenze secondo noi pur cercando di essere i più originali possibili, a livello macro i due film che abbiamo tenuto sempre in considerazione sono ovviamente 127 ore e un altro film che secondo noi è insospettabile ovvero Gravity, molto Mine da un certo punto di vista, perchè è un film totalmente esperienziale e noi speriamo di aver ricreato al meglio l’esperienza di uomo che finisce suo malgrado sopra una mina. Anche in quel film c’è una grossa metafora, tu vai in sala pensando di trovarti di fronte a un film che parla di un astronauta alla deriva e invece ti trovi davanti alla storia di una madre che sta rielaborando un lutto e anche in gravity tutti gli elementi sono fortemente metaforici, cosa che ci interessava molto. Poi mentre stavamo lavorando in fase di pre-produzione abbiamo visto The Grey, altro film che ha tante cose in comune con Mine, soprattutto per l’uso che fa del lato onirico coi flashback e abbiamo dichiaratamente cercato di rubare dei trucchi nelle scene notturne. Abbiamo ammirato molto come hanno gestito le scene con i lupi e abbiamo cercato di fare lo stesso con i nostri licaoni. Come mai avete scelto di iniziare con un survival movie? Era la nostra idea di base, uno strumento per creare le condizioni per cui il film fosse fattibile, però in realtà l’abbiamo usato solo come un pretesto per raccontare una storia che non ha niente a che fare con il survivor. Mine racconta molto di più e ci auguriamo che questo messaggio sia arrivato al pubblico.
Abbiamo saputo che all’inizio avevate in mente altri nomi per il ruolo del protagonista, potete svelarci il nome degli altri candidati? Immagino sarete più che soddisfatti della scelta di Armie Hammer...
Noi avevamo in mente dei nomi assurdi e sbagliati (ridono) e adesso non riusciremmo a immaginare nessun altro attore nel ruolo del protagonista. Armie è un attore in ascesa e dobbiamo dire che è stato un vero onore poter lavorare insieme a lui. Onestamente ora non ha senso rivelare i nomi degli altri candidati, siamo soddisfatti della scelta e siamo sicuri che Armie farà tanta strada nel mondo del cinema.
Perchè la scelta delle Isole Canarie? E quanto è stata dura girare in sole 5 settimane? Un vero e proprio record...
Abbiamo scelto Fuerteventura perchè a noi serviva un deserto fatto di dune di sabbia, un ambiente che somigliasse molto al Nord Africa. È praticamente il più grande deserto che c’è in Europa e poi ha dei forti incentivi fiscali presenti sul territorio spagnolo che per il nostro tipo di produzione hanno fatto al caso nostro, inoltre il nostro produttore Peter aveva già lavorato con una produzione spagnola e quindi diciamo che tutti i tasselli erano perfettamente al proprio posto. É stato faticosissimo girare in sole cinque settimane, non riusciamo a trovare altri termini per descrivere il nostro lavoro. Soprattutto per la fase di post produzione perché tutto sommato per quanto la fase di shooting sia stata dura e una lotto contro il tempo, non ha niente a che vedere con l’agonia della fase di post produzione che si è protratta per quasi un anno.
Prima di lasciarci volete anticiparci qualcosa sui vostri prossimi progetti? I vostri fan non vedono l’ora di vedervi di nuovo in azione...
Ci piacerebbe sia scrivere e produrre degli horror a basso costo diretti da altri registi che seguiamo e ‘’tampiniamo’’ ormai da tempo. Stiamo iniziando a pensare alla nostra seconda opera e poi ovviamente ci piacerebbe fare un’incursione nella tv con una serie e stiamo provando a sviluppare altre idee e altri progetti, insomma state certi che faremo di tutto per non deludervi, un caro saluto lettori de IlTermopolio.
Ti sei perso la recensione del film? Recensione Mine
Link Immagini:
Immagine 7: www.Everyeye.it Immagine 9: www.LifestylemadeinItaly.it Altre immagini: Copyright Salvatore Amoroso
Con un piacevole tuffo all’indietro, John Carney (dopo Once e Tutto può cambiare) con Sing Street, ci riporta alle atmosfere dei mitici anni ’80. Recentemente presentato al Festival di Roma 2016, la pellicola è al cinema dal 9 novembre.
Un improvviso cambio di scuola fa piombare bruscamente il quindicenne Conor in un ambiente a dir poco sui generis: un istituto cattolico in cui i preti utilizzano metodi educativi violenti ed in cui non mancano le occasioni per essere infastiditi e picchiati da bulli pazzoidi. Conor, malgrado il matrimonio dei genitori in crisi e il soffocante ambiente scolastico, riesce a convogliare le sue energie verso un progetto ambizioso: formare una rock band. Talentuoso nello scrivere i testi, l’idea della band nasce in lui casualmente. È un po’ come sfidare sé stesso perché in gioco c’è una difficilissima impresa: conquistare il cuore della bella Raphina, enigmatica modella sedicenne, di cui è innamorato.
Sulle note delle canzoni dei Duran Duran, dei Cure e delle citazioni dei Depeche Mode, prende corpo il progetto musicale, attorno al quale sono coinvolti altri teenager e la stessa Raphina, in veste di attrice dei videoclip. Occhi truccati, ciuffi ribelli e lunghi impermeabili per una rock band che si chiamerà Sing Street e che strizza l’occhio (e nemmeno così nascostamente) alla famosissimi Duran Duran. Tutto procede a meraviglia, fino a quando l’indecifrabile Raphina improvvisamente sparisce, per far ritorno poco dopo a Dublino.
Particolarmente interessante il rapporto di Conor con il fratello maggiore Brendan, uno spiantato e allo stesso tempo saggio ventiduenne, dipendente dal fumo di cannabis. Malgrado la vena ribelle e una spiccata sensibilità "problematica", preziosi risultano i consigli che rivolge al fratello in fatto di donne e soprattutto in fatto di musica.
Ambientato nell’Irlanda degli anni ‘80, la pellicola mostra come al tempo Londra e l’Inghilterra in generale fossero viste dagli irlandesi come le terre promesse in cui poter realizzare le proprie aspirazioni, inconciliabili con l’angusto orizzonte dublinese. Prova ne è il finale. Un po’ forzata forse l’idea della tempesta in mare in cui la piccola barchetta di Conor riesce a resistere alle stesse onde provocate dal passaggio del vicinissimo traghetto. Probabilmente la scelta ha più un valore metaforico che realistico. Il viaggio di Conor e Raphina avrebbe potuto svolgersi anche a bordo del normale traghetto, ma avrebbe avuto scenicamente minor impatto.
In alcune scene, specialmente quelle corali, il film può ricordare pellicole musicali come High School Musical; in altre invece è più dialogato; in altri punti, come nel finale, si lascia andare a degli effetti scenici che lasciano un po’ perplessi in quanto non molto in accordo con lo stile della pellicola. Nel complesso, un teen-musical-dramedy godibile che mostra la freschezza di un’età in cui tutto sembra possibile.
Immagini tratte da:
Immagine 1: Thenewswheel.com Immagine 2: Taxidrivers.it Immagine 3: Christianitytoday.com Immagine 4: nytimes.com
James Bond (Daniel Craig) deve trovare un driver che è stato rubato, contenente le identità di tutti gli agenti infiltrati dell’MI6, ma finisce per errore sotto i colpi di un collega e caduto, viene dichiarato morto. L'agente in realtà sopravvive e approfitta della situazione per prendersi un pausa di riflessione dal lavoro ma un grave attentato alla sede dell’MI6 però scuote la coscienza di Bond che torna operativo. Dovrà arrestare il pericoloso e alquanto inquietante criminale Raoul Silva, mettendo a rischio la sua stessa vita. Skyfall, è il 23° film di James Bond, uscito nel 2012 per festeggiare il 50° anniversario della serie più longeva della storia del cinema. È proprio il "tempo" il fulcro di questo episodio che guarda al passato (scoprirete informazioni sull'infanzia di Bond e il passato di M), ma anche il futuro dei nuovi agenti segreti. Ma non è solo questa la particolarità di questo capitolo di 007 diretto da Sam Mendes: dopo un adrenalinico inseguimento e uno scontro su un treno in corsa, Skyfall" si rivela il film di 007 più parlato. Molti dialoghi che però non tralasciano gli elementi cardine della saga di James Bond: l'azione, i bellissimi paesaggi (l'orientaleggiante Turchia, la tecnologica e colorata Shanghai e la grigia e cupa Scozia solo per citarne alcuni), le Bond girl Eve Moneypenny (Naomie Harris), un'agente sul campo prima e segretaria del nuovo M e Sévérine (Bérénice Marlohe) una seducente e misteriosa ragazza.
Aggiungiamoci un pizzico in più di psicologia e il protagonista più umano, fragile, in lotta con se stesso, un Daniel Craig più dark e oscuro che mostra le sue ottime doti di attore e questo capitolo di 007 si dimostra quello più introspettivo e avvincente. Ottimo tutto il cast da Raul Silva (Javier Bardem), un cattivo che con la sua bravura ruba la scena a Daniel Craig, anche grazie alla sua curiosa pettinatura biondo platino, marchio distintivo di questo inquietante e temibile psicopatico. Eleganti le interpretazioni di Ralph Fiennes e Judi Dench giunta alla sua settima interpretazione di M. Bene Ben Whishaw nel ruolo di un giovane e brillante Q. Molto brave, e bellissime, le 2 Bond girl Naomie Harris e Berenice Marlohe. Lode anche alla canzone d'apertura del film intitolata proprio "Skyfall" intonata dalla meravigliosa voce dall'artista britannica Adele. "Skyfall" con tutti questi pregi è diventato uno dei film più premiati nella storia della saga, ricevendo 2 Premi Oscar, un Golden Globe e due Premi BAFTA e si è posizionato al 15º posto nella classifica dei film di maggiore incasso della storia."Skyfall" non è un film adatto solo agli appassionati della serie, ma per chiunque voglia scoprire qualche notizia in più sul misterioso passato di Bond e scoprire un 007 finalmente umano e non solo eroe indistruttibile.
Immagini tratte da: http://pad.mymovies.it/ http://www.uninfonews.it/ http://www.comingsoon.it
Un film tra dramma e action, pieno d’intrighi e colpi di scena con un inedito Ben Affleck, innocuo contabile all’apparenza che sa anche essere un assassino inscalfibile.
Christian Wolff (Ben Affleck), genio matematico affetto da sindrome di Aspergen, più a proprio agio con i numeri che con le persone, lavora sotto copertura in un piccolo studio come contabile freelance per alcune delle più pericolose organizzazioni criminali del mondo. Nonostante la divisione anticrimine del Dipartimento del Tesoro gli stia alle costole, Christian accetta l'incarico in una società di robotica ovvero la ‘’Living Robotics’’ dove una delle contabili junior, Dana (Anna Kendrick), ha scoperto una discrepanza di milioni di dollari nei conti. Ma non appena l'uomo comincia ad avvicinarsi alla verità, il numero delle vittime comincia a crescere. Quella che per la scienza è una sindrome affine all'autismo, capace di trascinare chi ne è colpito nel più misterioso isolamento, per il cinema è fonte inesauribile di superpoteri. E così, dopo aver interpretato Batman e Daredevil, Ben Affleck diventa una specie di mutante che dopo una dura infanzia trascorsa ad addestrarsi per difendersi da chi lo maltratta perché “diverso” (“la diversità spaventa le persone” gli dice il padre), affina una serie di talenti che gli consentono di diventare una persona davvero speciale. Dietro quei tristi completi da contabile e l'impenetrabile corazza si nascondono muscoli scolpiti e l'anima di un uomo dalle mille sfaccettature e dal passato doloroso. Con una recitazione tutta a levare, Affleck, l'attore perfetto in ruoli che non richiedono l'espressione di emozioni forti, è una macchina per uccidere, come Jason Bourne, il pubblico esulta ad ogni sua performance dagli effetti letali. Costruito come un puzzle, il film del regista statunitense Gavin O'Connor (The Warrior, Comfortably Numb) basato sulla sceneggiatura di Bill Dubuque non riesce però a restituire con chiarezza il quadro di insieme. Il plot resta confuso, con molte domande irrisolte per lo spettatore che al termine del film non ha ancora ben compreso chi sia veramente Christian Wolff. Una pellicola che sicuramente poteva dare qualcosa in più, che lascia l’amaro in bocca allo spettatore. Il regista nel tentativo di ampliare sempre di più la portata confusionaria della storia attorno al troppo enigmatico protagonista finisce per creare troppo caos e alla lunga richiede fin troppo alla nostra concentrazione. Accanto ad Affleck troviamo un cast ben assortito, fatto d’attori solidi e risoluti come J.K. Simmons (premio Oscar per Whiplash), John Lithgow , Anna Kendrick e Cynthia Addai Robinson, che hanno lavorato tutti molto duramente con O’Connor e gli sceneggiatori per rendere i loro personaggi ancora più credibili. IlTermopolio vi saluta e come sempre augura a tutti voi un buon Cinema e una buona visione. Link Immagini: - Locandina: www.Movieplayer.it - Immagine1: www.cinemablend.com - Immagine2: www.AMNY.com - Immagine3: www.BollywoodMovieReview.com |
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Giugno 2023
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