di Fabrizio Matarese
Un gruppo di ragazzi di etnie ed estrazioni sociali differenti si muove tra le strade di Parigi. Giovani donne e uomini che si scambiano occhiate cariche di sentimento sulla metropolitana, scattano strane fotografie nei tunnel sotto la città, salgono fino ai piani in costruzione dei grattacieli e gettano gli smartphone nei cestini pubblici con nonchalance.
C’è molto mistero e pochi dialoghi nei primi minuti di Nocturama, sesto controverso film del regista, sceneggiatore e compositore francese Bertrand Bonello. La macchina da presa segue i movimenti dei personaggi come se li stesse pedinando. Le azioni dei ragazzi, a un primo sguardo incomprensibili, hanno una strana precisione sembrano addirittura pericolose. L’aria di tensione sale sempre più: si intuisce che c’è un piano comune nascosto dietro tutti questi sotterfugi e che non porterà a niente di buono. Ciò che traspare dalla prima parte del film, oltre alla suspense e alla voglia di vedere a cosa portano queste operazioni sotto i radar, è l’alienazione, la solitudine della vita metropolitana di questi ragazzi, disillusi e pronti a tutto per ribellarsi alla vita che gli è stata imposta. Tutti questi intrighi e cospirazioni portano a una serie di attentati che colpiscono, in varie zone, il cuore di Parigi. Nello stesso istante, in vari punti della città scoppiano delle bombe: nel palazzo del Ministero dell’Interno, davanti la sede della borsa, al 29° piano di un grattacielo. Anche la statua dorata che raffigura Giovanna D’Arco viene data alle fiamme. Fuoco e fiamme, orrore e panico per la città.
E mentre la nazione è sotto shock il gruppo improvvisato di attentatori si barrica in un grande magazzino.
Al dinamismo frammentario della prima parte ambientata in esterni si sostituisce l’isolazionismo misto a paranoia e orrore della seconda. I ragazzi, barricatisi in un enorme centro commerciale, attendono il loro destino senza opporre resistenza. Sono tutti più o meno consapevoli di aver attraversato un punto di non ritorno, e questo genera soddisfazione in alcuni, noia e disperazione in altri. Così, mentre le autorità del governo francese li proclamano non terroristi ma “nemici dello stato” (lasciando intendere che non ci sarà nessuna trattativa) il gruppo di ragazzi inscena una sorta di carnevale individuale dentro le enormi sale del grande magazzino. Vogliono distruggere il sistema, eppure sono affascinati e conquistati dal potere delle merci. E così, a gruppi di due a due, si cambiano d’abito scegliendo tra le infinite possibilità dei vestiari esposti, prendono cibo dagli scaffali e taccheggiano gioielli e orologi di lusso. Nello spazio simulacrale del grande magazzino va in scena un ultimo ballo funebre prima del gelido blitz dei reparti speciali. Girato tra il 2014 e il 2015, a ridosso degli attentati di matrice islamica che hanno colpito Parigi, il film di Bonello è stato rifiutato al festival di Cannes. Il titolo originale era Paris est une fête ma è stato scartato successivamente poiché il titolo del libro di Hemingway era diventato, per tutti i parigini, uno slogan di resistenza agli attentati del 13 novembre 2015.
Uno degli elementi più disturbanti del film risiede nel fatto che non c’è un ideale, un sistema di pensiero comune che lega questo giovane drappello di bombaroli, gli attentati non vengono rivendicati in nessun modo e ciò che sembra averli mossi non è tanto una forma di attivismo politico, quanto un sentimento baudelairiano di ennui, una noia mostruosa e diabolica, che si trasforma in alienazione, nichilismo, distruzione.
La storia di Nocturama sta al di là di ogni analisi geopolitica o sociale. La violenza fiammeggiante prodotta dal commando di ragazzi ha un sapore ambiguo, vago e disilluso. E per questo risulta molto più angosciante, perché nonostante non ci siano motivazioni esplicite tutto ciò che viene mostrato del film poteva accadere, anzi, come dice un’attentatrice nel centro commerciale, “doveva accadere”. Immagini tratte da: www.filmcontent.com www.gazzettadinapoli.com www.sentieriselvaggi.it https://ombrecinema.wordpress.com
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Il nostro ultimo recap del Festival più cinefilo d’Italia. Vi racconteremo gli ultimi due giorni trascorsi dove abbiamo ammirato due opere fantastiche in concorso: il francese Nos Batailles e il danese Den skyldige (The Guilty). di Salvatore Amoroso ![]() É sempre doloroso doversi separare dal festival di Torino. Ogni anno ci ripromettiamo che passeremo due o tre giorni in più ma alla fine la vita chiama e siamo costretti a lasciare questa bellissima oasi per appassionati e non. Vi parleremo della giornata di domenica e lunedì trascorse tra la sezione After Hour, sala stampa e il sempre caro Reposi. Domenica la nostra giornata è iniziata più tardi del solito, (dovevamo smaltire la Notte Horror) per la categoria After Hour abbiamo visto L’ultima notte di Francesco Barozzi. Un noir tratto da un fatto di cronaca relativamente recente (si parla del 2012), ambientato nelle campagne modenesi. Bea, in crisi esistenziale e amorosa per i rapporti difficili con la sua compagna, torna nella casa di famiglia dove vivono il fratello e la sorella per risolvere un trauma vissuto nel passato. Fin dall’inizio l’atmosfera è lugubre e decadente e Bea può constatare da subito l’ostilità dei suoi consanguinei, in particolare del fratello che l’accusa di averlo tradito e abbandonato a un padre violento che abusava di lui. Purtroppo l’opera di Barozzi, al suo terzo lungometraggio, non convince soprattutto per mancaza di coraggio, un vero peccato perchè il soggetto non era niente male. Subito dopo, sempre al Reposi, abbiamo visto Relaxer, il lato oscuro di Ready Player One. Mentre fuori incombe l'Apocalisse del Millennium Bug, un ragazzo (Joshua Burge, un viso a metà tra Buster Keaton e Marty Feldman) è inchiodato sul divano a giocare a Pac Man per via di una scommessa fatta col fratello sadico. Il nuovo film del Joel Potrykus (Buzzard e The Alchemist Cookbook) è strambo, psicotico, demenziale, spaventoso e anti-sistema di sempre. Ci ha sconvolti, fatto ridere e indignato ma una cosa è certa: Relaxer non è un film banale. La serata domenicale si è conclusa con il film più atteso della regista Claire Denis, il chiaccherato High Life. Spazio profondo. Oltre il nostro sistema solare. Monte e sua figlia Willow vivono insieme a bordo di un veicolo spaziale, in completo isolamento. Nel corso degli anni Monte, attraverso la figlia, sperimenta la nascita di un amore onnipotente. Willow cresce diventando una ragazza, poi una giovane donna. Insieme, soli, padre e figlia si avvicinano alla loro destinazione: il buco nero in cui tutto il tempo e lo spazio cessano di esistere. Un carcere nello spazio, un prigioniero votato alla castità, una dottoressa che insegue segnali di vita: il primo film di fantascienza e in inglese di Claire Denis (L’amore secondo Isabelle, TFF35) è un inno all’amore in una realtà che dell’amore non ha più neppure il ricordo. Inclassificabile e coraggioso, e visivamente folgorante. Con Robert Pattinson e una magistrale Juliette Binoche. Musica del sodale Stuart A. Staples, vocalist dei Tindersticks. Nella mattinata di lunedì invece siamo riusciti a vedere due delle pellicole più belle ed eleganti in concorso, parliamo di Nos Batailles e Den skyldige (The Guilty). Nel primo il celebre attore Romain Duris è Olivier, padre, marito, sindacalista. Quando un mattino la moglie Laura abbandona la famiglia senza lasciare alcuna traccia di sé, Olivier si vede costretto dall’oggi al domani a ripensare la quotidianità cercando di non venir meno al suo dovere lavorativo, al suo impegno politico ma anche, e soprattutto, al suo ruolo di padre. Un dramma intenso, sincero e profondamente umano che segna il ritorno in concorso del regista Guillaume Senez vincitore del TFF33 con Keeper. L’opera di Senez è elegante, delicata, commovente, uno di quei film che fa bene al cuore e all’anima. Noi de IlTermopolio abbiamo votato per lui. Gustav Möller con il suo Den Skyldige (The Guilty) confeziona un’opera elegante che affascina e conquista: confinato al pronto intervento telefonico per un’indagine interna, un poliziotto di Copenhagen riceve una chiamata da una donna che sostiene di essere stata rapita: dovrà gestire la situazione rimanendo sempre vicino al telefono. Un thriller tesissimo, in tempo reale, capace di avvincere e di ragionare su realtà e apparenza mettendo in scena un personaggio e un unico ambiente dal primo all'ultimo minuto. Grande prova d'attore del protagonista Jakob Cedergren. Immagini tratte da:
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Secondo giorno di Festival all’insegna dell’orrore. Allo scoccare della mezzanotte La Notte Horror ha fatto capolino a Torino, inoltre trovate tutte le curiosità su gli otto film visti nella giornata di sabato.
di Salvatore Amoroso ![]()
Il nostro secondo giorno trasuda cinema da tutti i pori dato che abbiamo visto ben otto pellicole in ventiquattro ore. Per fortuna siamo riusciti a incastrare tutti i film in mezzo al vastissimo e variegato programma di quest’edizione del Torino Film Festival 36, ma andiamo per ordine.
La nostra giornata è partita al Cinema Classico con la proiezione stampa di Pretenders di James Franco, sempre più regista, che si avvale di un cast giovane e talentuoso composto da Jack Kilmer, Shameik Moore e Jane Levy, protagonisti di un’appassionata storia dove il cinema e i film vengono utilizzati come educazione sentimentale. Due amici di college che s'innamorano della stessa ragazza e per quasi un decennio, dalla fine degli anni Settanta, si trovano, si perdono, si cercano e si ritrovano tra New York e l’Europa. Ogni riferimento al cinema del passato è voluto. Tra spezzoni di film e vita quotidiana che imita quello che scorre sullo schermo. Purtroppo Franco non ci ha convinto né coinvolto come l’anno scorso con The Disaster Artist, film banale e confusionario ma ottima prova del giovane trio di protagonisti.
Subito dopo abbiamo preso un volo diretto per Hong Kong per poter vedere First Night Nerves, diretto da Stanley Kwan. Nel teatro City Hall si prepara il debutto di uno spettacolo; c’è grande attesa per il ritorno sulle scene di una stella da tempo lontana dal palcoscenico. Accanto a lei, oltre all’autore/regista trans, una giovane attrice già resa famosa dal cinema. Un rompicapo di rivalità e ricordi, che ragiona sull’identità (sentimentale, umana, artistica) dei personaggi. Lo smagliante ritorno di uno dei maestri del cinema di Hong Kong, Stanley Kwan, che unisce stile fiammeggiante e animo mélo, è stato molto apprezzato in sala. Ironia e buoni sentimenti fanno di First Night Nerves una pellicola da vedere.
La mattinata era passata tranquilla, forse fin troppo. Franco ci aveva deluso, Kwan ci aveva rimesso di buon umore ma non sapevamo a cosa stavamo per andare incontro. Il folle genio di Peter Strickland, con il suo In Fabric, ci ha trascinato in una storia macabra che ci ha rapiti e ci ha fatto tanto ridere. Un grande magazzino di lusso espone un sontuoso abito rosso che commesse sofisticate drappeggiano addosso alle clienti, invogliandole all'acquisto. Chi lo compra e lo indossa ne paga le conseguenze. Sornione come sempre, Strickland (in concorso a TFF32 con The Duke of Burgundy) lavora su colori e atmosfere da giallo all'italiana e sulla struttura dell'horror a portmanteau stile Amicus, mescolando con ironica eleganza sette demoniache e perversioni segrete.
Dopo il bizzarro siamo passati al catastrofico Happy New Year, Colin Burstead diretto da Ben Wheatley. Eu de massacre n 5 da camera per l'autore di Kill List, High-Rise e Free Fire: Colin, il protagonsita, ha affittato una villa di campagna, dove ha invitato la sua vasta famiglia allargata a un party di Capodanno. Ma non tutti i parenti si (e lo) amano. Racchiuso nelle stanze della magione e nelle poche ore che precedono la mezzanotte, un serratissimo scambio di ripicche, insulti, confessioni, ritorsioni, con grande finale accorato. Cast eccezionale dove spicca Charles Dance, che interpreta il pittoresco zio Bertie, Sam Riley nei panni dell’ospite a sorpresa David e Bill Paterson, il vecchio capofamiglia caduto in disgrazia.
Con grande frenesia siamo giunti al Massimo dove abbiamo ammirato il tanto atteso e discusso Mandy di Panos Cosmatos. La serenità di una coppia isolata nei boschi è spezzata da una setta dedita all’occulto: niente sarà più come prima. Dal regista di Beyond the Black Rainbow, un horror lisergico che si sviluppa sinuoso come un disco suonato al contrario. Ma è anche un indiavolato tour de force del protagonista, un Nicolas Cage splatter che sbrocca come non ha mai sbroccato. Sorprendente e sanguinoso: uno dei film dell’anno. Con Andrea Riseborough. Inutile dirvi che ci ha conquistato. Immensa fotografia e colonna sonora firmata dal compianto Jóhann Jóhannsson.
E allo scoccare della mezzanotte finalmente abbiamo intrapreso il lungo cammino della Notte Horror, per concludere una giornata ricca di cinema di ogni genere. Il tema di quest’anno è Maniac. Siamo partiti con Incident in a Ghostland di Pascal Laugier, film che vede una donna e le sue figlie che vengono assalite da due maniaci, durante il trasferimento nella nuova casa della defunta zia. Sedici anni dopo, Beth ritorna in quella casa. Trine e merletti vestono bambole vive e di porcellana: ci si può giocare, si possono svestire e smembrare, mentre nella casa e nel tempo si aprono varchi comunicanti. L’autore di Martyrs non ha paura di osare e costruisce un horror morboso e disturbante che omaggia lo scrittore H. P. Lovercraft.
A seguire Il capolavoro maledetto Peeping Tom – L’occhio che uccide, tanto estremo da stroncare la carriera di Powell: un giovane operatore, tra un set e l’altro, gira il suo film, sul fascino dello sguardo e della morte. Opera seminale, un canto angosciante sull’ossessione del riprendere e del guardare, cult istantaneo in Francia, poi in tutto il mondo. Carl Bohem è il silenzioso, inquietante protagonista, Moira Shearer la comparsa che balla l'ennesima danza di morte, Powell il padre scienziato negli home movies.
E per chiudere alle quattro del mattino abbiamo visto Piercing di Nicolas Pesce. Un padre di famiglia fa check-in in un hotel e chiama una prostituta: ma le sue intenzioni non sono esattamente scontate. Dal regista di The Eyes of My Mother, tratto da un romanzo di Riû Murakami, uno spietato gioco sadomaso dove i ruoli di vittima e carnefice si ribaltano più volte senza soluzione di continuità, stemperato da un’ironia bislacca e imprevedibile. Con Christopher Abbott (Tyrel) e Mia Wasikowska (Solo gli amanti sopravvivono).
Immagini gentilmente concesse Ufficio Stampa TFF
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di Matelda Giachi
“La speranza è il vizio più bello che si possa avere, il seme di ogni rivoluzione. La speranza diventa fiducia, la fiducia diventa fede e con la fede, anche quella in se stessi, si può creare qualunque cosa e scrivere il proprio destino”.
Sono le parole della stessa Pina Turco in conferenza stampa a Roma, per la tredicesima edizione della festa del cinema, dove il film è stato anche premiato. Pina Turco, diretta dal marito Edoardo De Angelis (Indivisibili, presentato alla 71^ Mostra del Cinema di Venezia), è Maria, una donna che vive alla giornata, senza conoscere sogni né desideri. Difficile sentire questi primordiali moti dell’anima a Castel Volturno, rifugio di peccatori in terra campana. Case abbandonate, pochi controlli, l’orizzonte e il profumo del mare. È la terra degli ultimi, di chi vuole nascondersi o ricominciare.
Ma anche in questo contesto la vita fa il suo corso e Maria che, al servizio di una donna ingioiellata traghetta donne incinte, si trova lei stessa ad aspettare un bambino. È con la gravidanza, il rischio a essa correlata per via di traumi passati e la paura che il figlio le venga portato via appena nato, che la protagonista scopre la speranza; la speranza di una vita diversa.
È la forza che mette in moto il cambiamento e anche tutto il film, spingendo verso quel messaggio universale, mistico, spirituale che il regista voleva dare col suo lavoro. Talmente forte come intento da trasformare, involontariamente, la pellicola in una parabola in cui fioccano i riferimenti a una religiosità cristiana, a volte fin troppo diretti, a partire dai nomi degli stessi personaggi.
Pina Turco è bellissima, anche sotto i molteplici segni della sofferenza della sua Maria. Una recitazione più fisica che parlata, perché la volontà, le emozioni, si manifestano poi attraverso il corpo.
Un tipico film da festival ma estremamente calibrato: drammatico ma mai eccessivo. In una storia popolata principalmente da donne, cane compreso, la violenza di un contesto difficile non è tanto visiva quanto psicologica. “Tutto ciò che resta immobile muore. Ciò che si muove, vive. Per chi ha la forza di resistere, il premio è il miracolo del mondo che nasce.” (Edoardo De Angelis)
Immagini tratte da:
www.mymovies.it www.e-duesse.it www.cinema.icrewplay.com Foto dell’autore di Federica Gaspari
A poche settimane dall’uscita di Venom, fortunatissimo al box-office quanto discusso dalla critica, un thriller fantascientifico approda nelle sale italiane con spunti narrativi molto simili a quelli del celebre simbionte di casa Marvel. Leigh Whannell, al suo secondo lungometraggio e con un curriculum da attore e sceneggiatore, porta sul grande schermo una pellicola ibrida che si avventura tra diversi generi, proponendo un equilibrio tra la tradizione del cinema di genere e la contaminazione della tecnologia. Upgrade, dopo aver appassionato il pubblico di grandi festival come Sitges e South by Southwest, si prepara al confronto nelle sale con i titoli più attesi della stagione in un weekend ricco di proposte. L’uscita all’alba del periodo cinematografico più affollato dell’anno forse non aiuterà questo titolo che, però, ha tutte le carte in regola per essere uno dei più interessanti di questa stagione. Grey Trace (Logan Marshall-Green) è un meccanico che vive insieme all’amata moglie Asha (Melanie Vallejo) in una realtà in cui le più avanzate forme di tecnologia e, in particolare, di intelligenza artificiale si sono integrate alla perfezione con la quotidianità senza risultare troppo appariscenti. Questa larga diffusione pone questioni non indifferenti sul confronto tra umanità e infallibile razionalità. Se queste due caratteristiche si fondessero trovando un punto comune? STEM, un chip progettato da un bioingegnere cliente di Grey, sembra trovare la risposta a questo dubbio: se impiantato nel corpo umano, questo strumento elabora informazioni e azioni come un cervello ausiliario che promette risultato a un’efficienza senza precedenti. Le implicazioni di questa invenzione, però, non tardano a rivelarsi… L’intelligenza artificiale e i suoi risvolti etici sono da sempre tra i temi che più affascinano l’immaginario cinematografico fantascientifico. Negli ultimi decenni le pellicole che hanno voluto approfondire questo aspetto sono state numerose ma ben poche hanno saputo lasciare il segno nella memoria dei cinefili. Tra queste, senza dubbio, vi è Videodrome di Cronenberg, uno dei principali esponenti della corrente del body horror anni Ottanta che tanto ha influenzato nei temi e nell’estetica Upgrade. L’ibrido uomo-macchina e l’ossessione del sopravvento della tecnologia senza empatia è il nodo cruciale di questo film che si rivela come una delle migliori sorprese di quest’annata. Se è innegabile il legame con la tradizione, l’influenza di storie e pellicole più recenti è altrettanto evidente. Titoli come Tau e Venom, seppur molto distanti fra loro, si avvicinano molto all’animo del lungometraggio di Whannell che, tuttavia, si distingue per la sua grande capacità di coniugare – senza rivelare troppi dettagli sulla trama - una messa in scena affascinante ed estremamente curata con una narrazione lineare e coerente ricca di colpi di scena e spunti di riflessioni. Il mix tra fantascienza e thriller con un pizzico di humor cupo si dimostra vincente anche grazie a un cast composto principalmente da interpreti poco noti ma perfettamente in parte. Un ottimo protagonista, disilluso e sarcastico, regge splendidamente l’intera narrazione appassionando lo spettatore con un ruolo equilibrato. Upgrade è la scelta giusta per una serata al cinema inaspettata, in cui un film senza troppe aspettative riesce a stupire e a incantare molto più di altri rinomati titoli. Immagini tratte da:
www.film.it www.cinecinephile.com
Via al Torino Film Festival, 36ª edizione con "The Front Runner" alla presenza del regista Jason Reitman.
di Salvatore Amoroso
Il Termopolio è sbarcato per il secondo anno consecutivo al 36° Torino Film Festival. La serata inaugurale tenutasi presso il Multisala Cinema Massimo è iniziata alle 19:30 con la proiezione a inviti del film d’apertura "The Front Runner", svoltasi alla presenza del regista del film Jason Reitman e introdotta da Lucia Mascino, madrina di questa edizione del Torino Film Festival, da Emanuela Martini, direttore artistico del Festival, e da Sergio Toffetti, presidente del Museo del Cinema. “The Front Runner”, con Hugh Jackman e Vera Farmiga, racconta la vicenda che nel 1988 vide protagonista il senatore americano Gary Hart. Candidato democratico alla presidenza nella primavera del 1987, emerse come favorito quasi incontrastato. Il suo intelligente e carismatico idealismo e la capacità di galvanizzare le folle sembravano farne il candidato ideale per la Casa Bianca, destinato a realizzare un nuovo capitolo della storia americana. Ad aprile, Hart aveva un ampio vantaggio nei sondaggi. Tre settimane più tardi, a seguito di uno scandalo che lo fece cadere in disgrazia, si ritrovò definitivamente estromesso dalla corsa per le presidenziali. The Front Runner esplora il momento dell’improvvisa caduta di Hart intendendolo come spartiacque per la storia del paese. Nel pomeriggio abbiamo visto inoltre il primo film in concorso, ovvero WILDLIFE di Paul Dano, che esordisce come regista e sceneggiatore, ispirandosi al romanzo Incendi di Richard Ford. Nel Montana degli anni Sessanta, un adolescente è il testimone dello sgretolamento del matrimonio dei suoi genitori (Jake Gyllenhaal e Carey Mulligan). Il padre perde il lavoro e decide di unirsi ai volontari che cercano di domare un incendio che devasta le montagne. L’aria poco serena del Midwest è messa in scena con mano sicura. Mettendo a fuoco le dinamiche familiari, gli slittamenti degli affetti e soprattutto gli “incendi” emotivi. La serata è continuata alle 22.00 con un cocktail a inviti che si è tenuto all’interno della Mole Antonelliana. Alla serata inaugurale hanno preso parte alcuni artisti della giuria internazionale Torino 36: Jia ZhangKe, Marta Donzelli, Miguel Gomes, Col Needham e il regista del film di apertura, Jason Reitman, insieme a molte altre personalità del mondo dello spettacolo e della cultura. Immagini gentilmente fornite dall'Ufficio stampa Torino Film Festival
di Fabrizio Matarese ![]()
Titolo: The Other Side of the Wind
Paese di produzione: USA Anno: 2018 Durata: 122 minuti Genere: Drammatico, commedia, grottesco Regia: Orson Welles Sceneggiatura: Orson Welles, Oja Kodar Produttore: Frank Marshall Distribuzione: Netflix Fotografia: Gary Graver Montaggio: Orson Welles, Bob Murawski Musiche: Michel Legrand Cast: John Huston, Peter Bogdanovich, Oja Kodar, Robert Random, Lilli Palmer, Edmond O'Brien, Cameron Mitchell, Mercedes McCambridge, Susan Strasberg, Norman Foster, Paul Stewart, Dennis Hopper, Joseph McBride
Parlare di un lavoro di Orson Welles è come entrare in qualche luogo di culto: è necessario abbassare la voce, sussurrare quasi, se non vogliamo disturbare gli spiriti che lo abitano.
Pochi registi hanno inciso il loro nome con tanta profondità nel cinema del Novecento (e ancora prima nel teatro e nella radio: una trasmissione radiofonica del 1938, La guerra dei mondi, getta nel panico numerosi ascoltatori, che credono a un reale sbarco di extraterrestri su territorio statunitense), eppure pochi cineasti hanno avuto tante difficoltà a trovare finanziamenti per i propri progetti.
Dopo Quarto Potere nel 1941, considerato unanimemente un capolavoro assoluto del cinema mondiale che continua a piazzarsi alle prime posizioni di classifica dei film migliori di tutti i tempi, Welles ebbe un rapporto fortemente conflittuale con Hollywood e nel 1948 lasciò la California per trasferirsi in Europa dove visse in una sorta di esilio per vent’anni. Al termine dei quali tornò a Hollywood per girare il suo ultimo film, che rimase incompiuto: The Other Side of the Wind.
Le riprese durarono per sei anni (1970-76) e il montaggio si protrasse con difficoltà e impedimenti fino alla morte del regista avvenuta nel 1985. Dopo più di trent’anni, grazie al lavoro di ricostruzione filologica di Peter Bogdanovich (che ha anche un ruolo da attore nel film) e alla distribuzione di Netflix, quest’ultima incredibile, frammentata, radicale opera di Orson Welles è finalmente disponibile per il pubblico. Nel film ci sono due piani narrativi, due storie diverse che corrono in parallelo: da un lato c’è la storia dell’ultimo giorno di vita del grande regista Hannaford (interpretato da John Houston ma che è un alter ego di Welles) che sta ultimando il suo film, l’omonimo The Other Side of the Wind. Per il suo settantesimo compleanno viene data una festa a cui partecipano la troupe, il mondo di Hollywood e la stampa, che avrà un primo accesso a delle proiezioni del girato.
Il secondo livello narrativo corrisponde al film che Hannaford sta girando, inventandosi le scene giorno per giorno, cambiando idea e sceneggiatura di continuo, cercando gli imprevisti che possono rendere una scena magica, proprio come faceva Welles durante la lavorazione dei suoi film. Un modo di lavorare che non andava molto a genio agli Studios.
Le scene del film nel film sono contraddistinte da un diverso formato e da una fotografia più cinematografica e vedono un uomo e una donna (Oja Kodar, compagna di Welles nella vita reale) inseguirsi nel deserto, in città abbandonate, dentro edifici semidistrutti, senza storia, senza dialoghi, solo la magia del desiderio e il potere seduttivo delle immagini.
Le altre scene, invece, quelle nel party per Hannaford sembrano girate da molti obiettivi diversi in contemporanea, mischiano colori e bianco e nero (con le riprese in b/n che mostrano i retroscena della festa catturati dalla stampa) e sembrano il risultato di una ricostruzione documentaristica di un evento che non è mai accaduto.
Mentre le scene del film nel film sembrano una ripresa e un superamento del cinema europeo d’avanguardia degli anni ’60, le immagini della festa a casa di Hannaford sono una rappresentazione ironica e surreale dello star system condita da free jazz e chiacchiericcio. Si alternano primissimi piani di Hannaford e degli altri membri del cast che discutono di politica, società, cinema e sesso, il tutto ripreso ossessivamente dai numerosi giornalisti presenti all’evento. I piani narrativi si intrecciano, le voci si sovrappongono i dialoghi si dissolvono in una sequela di battute, scherzi e nonsense. Ci sono molti temi che questa opera finale porta alla luce: il rapporto di amicizia tra Hannaford e Brooks (interpretato da Bogdanovich), suo amico, discepolo e collega regista (che richiama il rapporto tra Orson Welles e Peter Bogdanovich nella vita reale) e che viene riassunto da una meravigliosa battuta del regista: “amicizie e film, questi sono misteri”.
Ma c’è un altro rapporto indagato nel film, quello che si viene a creare tra regista e attore: e nella fattispecie quello che c’è tra Hannaford e Dale, il suo attore protagonista che è fuggito lasciando il film incompleto e il vecchio regista pieno di rimorso.
Realtà e finzione, da sempre uno dei temi prediletti nella cinematografia di Welles, si chiamano l’un l’altra, si confondono, cercano di imitarsi e nel finale del film sembrano arrivare a coesistere tramite il mistero del cinema. The Other Side of the Wind è un film estremamente complesso, che ha attraversato un iter produttivo travagliato e lunghissimo e nonostante questo enorme ritardo si presenta ai nostri occhi in gran forma e con una veste inedita. Un’opera ibrida, sperimentale anche ostica in alcuni passaggi, che si serve del linguaggio della tv e del reportage giornalistico alternando il tutto a purissimi attimi di grande cinema, in cui la perfezione della composizione dell’immagine si fonde con la potenza del sonoro per anticipare decenni e decenni di film a venire.
Rispettivamente John Huston, Orson Welles e Peter Bogdanovich
di Matelda Giachi
Secondo capitolo della saga creata da J. K. Rowling per il cinema, “Animali Fantastici: i Crimini di Grindelwald” ci riporta nel mondo dei maghi, in tempi in cui neanche Lily e James Potter erano ancora nati, alla fine degli anni ’20.
Dopo un primo film dai toni leggeri, che è stato quasi una parentesi a se stante, con I Crimini di Grindelwald ci si ricollega invece in maniera esplicita agli eventi accennati in Harry Potter e i toni si tingono subito di scuro, immergendo lo spettatore in un’atmosfera dark, vicina a quella degli ultimi capitoli della saga. Un film corale in cui il protagonista non è più il solo Newt Scamander (Eddie Redmayne) ma l’intero panorama di personaggi che si presentano sullo schermo. La regia è ancora una volta di David Yates che, da “l’Ordine della Fenice” sembra aver stretto un inspiegabile patto di sangue con la Rowling e la Warner bros. Inspiegabile perché a Yates riconosciamo un grande merito: quello di essere visivamente incredibile. Riesce a creare delle scene di una bellezza e di una carica emotiva senza pari. Ma come storyteller non riesce mai ad essere esaustivo e si perde tra le stesse trame della propria narrazione. Arriviamo dunque al grande difetto de’ “i Crimini di Grindelwald”: sulla scena si affastellano uno dopo l’altro numerosi personaggi tra vecchie conoscenze, alcune provenienti dalla precedente pellicola, altre che invece avevamo incontrato più in tarda età nel mondo di Harry Potter, e nuovi protagonisti. Ognuno ha la sua storia, il suo ruolo da giocare, ma spuntano come margherite in un prato al primo caldo, in un pullulare di rivelazioni di portata tale che ti aspetti spunti Raffaella Carrà urlando “carramba, che sorpresa!” alternate a momenti di suspance da “Maria apri la busta”. Un incessante susseguirsi di colpi di scena, quando poi di fatto tutto è affrontato in maniera superficiale; lo spessore umano, che è quello che poi ha reso J. K. Rowling grande molto più che tutto il contorno magico, viene a mancare. Una Rowling sempre politica, che sa trovare una spiegazione magica dietro ad ogni fatto reale, in un intreccio di fantasia e storia. Come in ogni prequel che si rispetti, non mancano i momenti nostalgia, quelli che ti fanno vibrare a tradimento tutte le corde più sentimentali. Ed ecco che sulle note della musica tintinnante più famosa, l’inquadratura si sposta sulle mura di Hogwarts, penetra fra le sue aule…ed è subito amore. Eddie Redmayne sempre dolce ed estremamente espressivo. Molta era l’attesa di vedere Jude Law nei panni di Albus Silente e finalmente possiamo dire che li veste con grande classe. Del futuro preside, ha già nello sguardo un discreto bagaglio di esperienze non raccontate. Sicuramente il migliore in campo tra le new entries, ma anche la fiducia di J. K. Rowling in Johnny Depp (interprete del leggendario avversario di Silente, Grindelwald) è stata ben ripagata; la sua interpretazione è efficace, scevra dei soliti fronzoli e promettente per il futuro. Ezra Miller in attesa di rivelarsi completamente nel prossimo film. Tantissima carne al fuoco tra idee molto buone e oserei dire intriganti (mi limito a fare un nome: Nagini) e altre superflue usate per allungare una storia già tanto ricca da riempirci un pensatoio; per un risultato senza infamia e senza lode. Immagini tratte da: www.cineavatar.it www.ew.com www.deejay.it www.wallpapercan.com
di Vanessa Varini
Paese: Italia, Regno Unito Anno: 2017 Genere: serie tv drammatica, storica, in costume Stagione: 2 Episodi: 8 Durata: 55 min (episodio) Ideatore: Frank Spotnitz, Nicholas Meyer Regia: Jon Cassar e Jan Michelini Fotografia: Vittorio Omodei Zorini Musiche: Paolo Buonvino Scenografia: Francesco Frigeri Costumi: Alessandro Lai Effetti speciali: Fabio Traversari, David Serge, Ghost SFX, Stargate Studios Malta Cast: Daniel Sharman (Lorenzo de' Medici detto il Magnifico); Bradley James (Giuliano de' Medici); Alessandra Mastronardi (Lucrezia Donati); Matilda Lutz (Simonetta Vespucci); Matteo Martari (Francesco de' Pazzi); Synnøve Karlsen (Clarice Orsini); Aurora Ruffino (Bianca de' Medici); Sean Bean (Jacopo de' Pazzi); Raoul Bova (Papa Sisto IV); Filippo Nigro (Luca Soderini); Sebastian de Souza (Sandro Botticelli)
Lorenzo figlio di Piero de' Medici e di Lucrezia Tornabuoni, è un giovane banchiere non ancora a capo della famiglia fiorentina più importante della città. Dopo un agguato in cui viene ferito suo padre Piero che successivamente si ammala, Lorenzo deve gestire gli interessi della famiglia e scopre che la banca è in grave pericolo in quanto Giangaleazzo Sforza, Duca di Milano, non riesce a ripagare il debito contratto dal padre. A ciò si aggiunge la rivalità politica ed economica con un'altra famiglia fiorentina, i Pazzi (con a capo Jacopo de' Pazzi interpretato da Sean Bean del "Trono di Spade"). A complicare ulteriormente la situazione Bianca, la sorella di Lorenzo, ha una relazione segreta con Guglielmo de' Pazzi.
Al termine di un' attesa lunga due anni, finalmente torna una delle serie Tv più seguite di sempre, "I Medici" (la prima stagione ha raggiunto picchi di 8.000.000 telespettatori). Purtroppo in questo sequel, i fan dell'affascinante Richard Madden che interpretava Cosimo de' Medici hanno dovuto dire addio al suo personaggio, mentre Annabel Scholey, alias Contessina, é presente in qualche flashback. Per il resto il cast è nuovo con protagonisti idoli dei teenager e pensato per un target di giovani. Infatti il protagonista è Daniel Sharman (che ha interpretato il giovane licantropo Isaac Lahey di "Teen Wolf" e lo stregone Kaleb Westphall di "The Originals") nei panni di Lorenzo de' Medici, nipote di Cosimo, conosciuto nei libri di storia con il soprannome de Il Magnifico, amante dell'arte e della cultura, grande sostenitore di Sandro Botticelli. Mentre suo fratello Giuliano, ribelle e seduttore, è interpretato da Bradley James (Artù in "Merlin"). Ma questa seconda stagione non catalizza il pubblico solo per bellezza degli attori ma anche per la sua dinamicità, è molto più veloce e movimentata della precedente, ricca di scene d'azione e soprattutto più concentrata sulle vicende personali dei protagonisti. Lorenzo si sposa con Clarice Orsini ma ama la poetessa Lucrezia Donati (Alessandra Mastronardi), sposa di un mercante. Giuliano invece è innamorato ricambiato della "Venere" di Botticelli cioè Simonetta Vespucci, la donna più bella di Firenze già sposata con Marco Vespucci e musa ispiratrice di Botticelli, una storia d'amore impossibile che legherà i due giovani non solo nell'amore ma anche nella morte (entrambi il 26 aprile, lei nel 1476, lui nella Congiura dei Pazzi nel 1478). E anche la famiglia Pazzi è innamorata: Guglielmo ha un storia alla Romeo e Giulietta con Bianca de' Medici e Francesco de' Pazzi (nipote di Jacopo), si sposa con Novella Foscari, figlia di un nobile veneziano, una Merida del Rinascimento dai capelli rossi e ricci e che tira con l'arco, un amore messo in contrasto dallo zio di lui per l'alleanza di Francesco con i Medici. Il risultato è una serie più improntata sul romanticismo e meno sulle vicende storiche, con storie vere in parte romanzate, con alcune inesattezze storiche ma esteticamente perfetta splendidi i costumi, bellissime le scenografie e la colonna sonora, "Revolution Bones", di Skin è da brividi!). E ora non ci resta che guardare il finale di stagione in onda martedì 13 novembre su RaiUno che si preannuncia già molto emozionante! Immagini tratte da: http://www.ilreporter.it/ https://staticr1.blastingcdn.com/ https://www.bitculturali.it/ https://www.ciakgeneration.it/ 11/11/2018 Lucca Comics & Games 2018 - Anteprima del Primo episodio di NARCOS Messico e incontro con i protagonistiRead Now
di Matelda Giachi
Uscita: 16 novembre 2018 Genere: Drammatico Anno: 2018 Ideatori: Carlo Bernard, Doug Miro Cast: Michael Peña, Diego Luna, Matt Letscher, Alyssa Diaz, Teresa Rulz Paese: USA Produzione: Gaumount International Television Durata: 50’ È un perfetto episodio pilota, quello alla cui proiezione abbiamo potuto assistere, al Lucca Comics & Games 2018, il giorno 3 novembre, grazie a Netflix. Nuova realtà, il Messico, nuovi protagonisti, Michael Peña e Diego Luna. Uno dei maggiori pregi della serie Netflix è sempre stato quello di non rimanere attaccato al passato, di non guardarsi indietro. Così non ha mai perso smalto quando ha dovuto salutare, per ovvie ragioni, il suo primo protagonista Wagner Moura (Pablo Escobar) e spostarsi sul cartello dei fratelli Herrera e così non sembra avere intenzione di fare adesso che il cambiamento è ancora più netto. Il primo episodio è di tipo introduttivo; la situazione messicana non vanta la fama del cartello di Escobar. Il momento in cui ci avviciniamo sono gli anni ’80 quando, nel mondo del traffico della droga, si verifica la trasformazione da contado disorganizzato a impero, a opera di Felix Gallardo. Le vicende non ruotano intorno a un carismatico capo di un cartello ma al poliziotto Kiki Camarena, quello che potremo definire come l’iniziatore della guerra messicana alla droga. Interpretato da Michael Peña, Camarena appare come un uomo quieto nel quotidiano, ma quando è a lavoro sul suo volto si manifesta una rabbia repressa per un ambiente poco concludente ma anche poco proattivo. Ed ecco che quell’uomo apparentemente tranquillo si mette in gioco in prima linea, con comportamento quasi felino. Introspettiva, intensa l’interpretazione da parte di Peña.
Ha il volto dolce, Diego Luna; piccolino, il fisico mingherlino. Non esattamente come immagineremmo un boss della droga. Eppure è sua la parte di Gallardo. Come in Dirty Dancing Havana Nights aveva dimostrato di poter avere un’enorme carica sensuale pur senza la presenza e la fisicità di Patrick Swayze, oggi sfodera un’interpretazione sfrontata, riempie il suo personaggio di carattere. Come Peña, promette grandi cose.
In conferenza Michael Peña è sorridente ma un po’ nervoso, quasi timido, tiene un basso profilo. Diego Luna, che si avvicina ai quaranta anni, potrebbe sembrare ancora un ragazzino. Golfino da bravo ragazzo come gli si vede indossare spesso, è spigliato, scherza, gioca. Entrambi ci parlano delle difficoltà relative alla costruzione dei propri personaggi. Per il primo rendere giustizia a un uomo che ha vissuto poco, che ha una famiglia, sull’essere il più veritiero ma anche efficace possibile. Per il secondo, originare un’interpretazione sulla base di pochissime informazioni: pare che Gallardo fosse un uomo estremamente riservato. “Era chiamato The Businessman, conosceva le regole del business e la prima è di essere discreti”. Ma anche riscoprire un Messico vissuto da bambino e attraverso il filtro protettivo del padre. La grande forza della serie, oltre a una scrittura eccellente, è quella di non raccontare i fatti in maniera edulcorata né di assumere un punto di vista univoco ma anzi di avere una visione a 360 gradi, per cui si è sempre parlato di guerra della droga e non semplicemente di guerra alla droga. Le parole di Diego Luna confermano che anche Narcos Messico procede in questa direzione. “Quello che scopriremo con questa serie è che i cattivi non sono semplicemente quelle persone che vengono messe in prigione sperando che non scavino un tunnel e scappino. E che quindi poi il problema sia risolto. Ci sono un sacco di altri criminali là fuori, che indossano un abito, prendono decisioni e di cui non si parla. Perché questo sistema coinvolge tutti i livelli di potere. Ed è questo il grande argomento che si affronta in questa stagione: come tutti siano coinvolti nel far funzionare questo mercato: politici, businessmen, polizia, militari, da entrambi i lati della frontiera. E poi c’è il mercato vero e proprio a giro per tutto il mondo.” Un intento di invito alla riflessione quello della serie e di Luna: “Solo quando avremo capito che questo sistema riguarda tutti quanti noi avremo una reale possibilità di sistemare la questione. Ma prima dobbiamo accettare la cosa. Non c’è semplicemente un poliziotto che insegue un criminale, non è così semplice. Perfino i narcos, che sembrano comandare tutto, in realtà rispondono a qualcun altro. C’è sempre qualcun altro più in alto.” Un primo episodio che promette una grande stagione, per la quale non resta che aspettare il rilascio da parte di Netflix sulla piattaforma questo 16 novembre. Immagini tratte da: - www.zayzay.com - www.looper.it - www.badtv.it - Foto dell’autore |
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Giugno 2023
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