Nelle sale dal 24 novembre distribuito da Lucky Red, È stata la mano di Dio racconta la parte più dolorosa della vita di Paolo Sorrentino. Ecco la nostra recensione sul film che l'Italia ha scelto per rappresentarla agli Oscar.
di Salvatore Amoroso ![]() Genere: drammatico Anno: 2021 Durata: 130 min. Regia: Paolo Sorrentino Sceneggiatura: Paolo Sorrentino Fotografia: Daria D’Antonio Scenografie: Carmine Guarino Musiche: Paolo Sorrentino Montaggio: Cristiano Travaglioli Casa di produzione: The Apartment, Fremantle Distribuzione: Netflix, Lucky Red Paese: Italia Cast: Filippo Scotti (Fabietto Schisa); Toni Servillo (Saverio Schisa); Teresa Saponangelo (Maria Schisa); Luisa Ranieri (Patrizia); Massimiliano Gallo (Franco); Enzo Decaro (San Gennaro); Lino Musella (Marittiello); Ciro Capano (Antonio Capuano).
È stata la mano di Dio si apre con una ripresa aerea del golfo di Napoli, una distesa di un azzurro selvaggio, libero, senza costrizioni. Il mare è uno dei simboli che torna maggiormente nel film: è al mare che ‘’Fabietto’’ vive alcuni dei suoi momenti più sereni, insieme alla famiglia che si immerge e ride insieme. È al mare che Fabio chiede un po’ di ristoro quando la tragedia si è ormai insinuata nella sua quotidianità. Ed è ancora contro il ruggito del mare, in un’alba che sembra in realtà un tramonto, che il ragazzino è chiamato a diventare adulto, tutto in un solo colpo. Perché il mare chiede attenzione, divora le tue aspirazioni e ti costringe a lottare per rimanere a galla. È stata la mano di Dio è il nono film di Paolo Sorrentino e arriva in sala il 24 novembre distribuito da Lucky Red per poi approdare su Netflix il 15 dicembre. E’ stata la mano di Dio è forse il film più bello del regista napoletano, il più commovente, il più maturo e il più personale.
Stavolta Paolo si mette a nudo, all’alba dei suoi cinquanta anni, raccoglie la sfida di un suo collega e decide di diventare Fabio. ‘’Ho fatto quello che ho potuto. Non credo di essere andato così male’’. Con la celebre frase di Diego Armando Maradona, sembra che il regista partenopeo ci metta il cuore e battute degne della migliore commedia all’italiana. È stata la mano di Dio è un film sul desiderio, sulla morte, ma anche uno spaccato di un decennio in cui Sorrentino tralascia in parte tutte le costruzioni visivo-ossessive del suo cinema. C’è lo spettro della voce di Fellini, e poi la presenza fondamentale di Antonio Capuano, che lo insulta e stimola, lo guida col suo sguardo solenne. C’è la commedia e il dramma, c’è tutto l’amore per il cinema, sua personale ancora di salvezza. La vera ‘grande bellezza’ è È stata la mano di Dio con attori che danno tutto il meglio tuffandosi in una storia privata, da Toni Servilo, Teresa Saponangelo, Renato Carpentieri e soprattutto la rivelazione Filippo Scotti, che a un certo punto non è più ‘Fabietto’ ma Fabio.
"In un certo momento della vita, scoprire che uno può giocare con una realtà parallela che ti consente di fuggire per alcune ore da una realtà che consideri pesante è stata sicuramente una salvezza". Il cinismo, il tradimento, la tragedia, la solitudine: sono tutti sentimenti che Sorrentino fa scoprire pian piano al suo protagonista, nel quale proietta se stesso e il suo periodo più buio, quello che lo ha portato a scavalcare il divario tra adolescenza ed età adulta in modo brusco, violento, spaventoso. E proprio perché la realtà è scadente, proprio perché nemmeno Maradona può salvare un ragazzo dalla rabbia e dalla tristezza, Fabio decide di inventarsi un proprio modo di raccontare ciò che vede. Proprio perché la realtà non funziona, il ragazzo decide di rifugiarsi in un sogno fatto di celluloide, che ha il nome di cinema. E a distanza di anni diventa un regista applaudito in tutto il mondo, un uomo vincitore del premio Oscar che si commuove quando riceve un premio al Festival di Venezia. Il finale è un personalissimo ‘’amarcord’’ felliniano in cui la musica, che fino a quel momento era stata messa in disparte e che Sorrentino ha sempre utilizzato tanto, assume il ruolo di assoluta protagonista e sottolinea il magico momento che vede Fabio salutare Napoli e non poteva che essere la voce dell’eterno Pino Daniele a benedire con quelle bellissime parole, l’addio a una città dalla mille sfaccettature. Fabio diventa Paolo, che segue il suo destino e va a Roma, il resto della storia la conosciamo e ci sentiamo fortunati ad averla vissuta.
Immagini tratte da:
Locandina -MyMovies Immagine1 - SkyTg24 Immagine2 - Life&People Magazine Immagine3 - ComingSoon
0 Commenti
di Matelda Giachi
![]()
Genere: Biografico, drammatico, Musicale
Anno: 2021 Durata: 163 min Regia: Lin-Manuel Miranda Cast: Andrew Garfield, Alexandra Shipp, Robin De Jesus, Bradley Whitford, Vanessa Hudgens, Judith Light, Joanna P. Adler, Noah Robbins, Joshua Henry, Alex Jennings Sceneggiatura: Steven Levenson Fotografia: Alice Brooks Montaggio: Andrew Weisblum Musica: Jonathan Larson Produzione: 5000 Broadway Productions, Imagine Entertainment Distribuzione: Netflix Paese: USA
Tick... Tick…Boom! Nasce nel 1991 come monologo che il suo autore, Jonathan Larson, eseguiva al pianoforte accompagnato da una rock band. Nell’opera Larson esprimeva tutto il suo disappunto per come erano andate le cose per il suo precedente lavoro, Superbia, un’opera futurista mai andata in scena, a cui aveva dedicato otto anni di vita mentre conduceva un’esistenza precaria e lavorava come cameriere in un diner. Larson è il creatore di Rent e del musical moderno. Non ha mai saputo che i suoi sforzi erano stati ripagati e che il suo sogno si è avverato, perché un aneurisma se lo è portato via, appena trentacinquenne, a pochi giorni dalla prima. Nel 2021 Tick..Tick…Boom! torna in vita approdando prima tre giorni al cinema e poi su Netflix, rielaborato da Lin – Manuel Miranda, che non poteva che scegliere un musical per il suo esordio alla regia.
Tick… Tick… Boom! È il ritmo che scandisce le partiture musicali; è lo scorrere del tempo che passa inesorabile, quello che separa dal soffiare sulla trentesima candelina e di rendere conto di tutto quello che si è costruito nei vent’anni; è il ticchettio di una bomba che sta per esplodere, il suono dell’ansia che sale mentre la tua fidanzata ti chiede di trasferirti fuori città, un’epidemia di HIV sconvolge il mondo del teatro e il tuo migliore amico abbandona i vostri sogni comuni in favore di una vita più agiata e sicura e tu ti chiedi se non sia il caso di fare lo stesso, nonostante la passione sia quasi un’ossessione che ti prende la testa e il cuore.
Con questo film Miranda rende omaggio al padre fondatore del musical moderno con fare quasi riverenziale, che si esprime nella cura messa nella sua regia. Sviluppa due piani temporali che si intrecciano: da una parte Larson sul palcoscenico che tiene il monologo che dà il titolo al film, dall’altra gli eventi che hanno portato alla sua scrittura. I due si alternano continuamente perché, nell’esistenza di un artista, non vi è mai una linea di demarcazione netta tra vita e arte. Ed è con lo stesso principio che Tick... Tick… Boom! si fa biografia quanto opera musicale. Miranda ha trovato in Andrew Garfield il suo protagonista; generoso nella sua ottima interpretazione, Garfield si dà completamente al suo personaggio. Condotto in maniera stilisticamente ineccepibile, al film manca giusto qualche sporcatura emozionale in più che aggiunga allo spartito una nota di cuore.
Voto: 7,5
di Salvatore Amoroso
La recensione di Ghostbusters: Legacy, sequel di Ghostbusters diretto da Jason Reitman, figlio del celebre regista autore dei primi due iconici capitoli. Obbiettivo centrato o flop? ![]()
Genere: azione, fantascienza
Anno: 2021 Durata: 2h 4 min. Regia: Jason Reitman Sceneggiatura: Gil Kenan, Jason Reitman Fotografia: Eric Steelberg Scenografie: Francois Audouy Musiche: Rob Simonsen Montaggio: Dana E. Glauberman, Nathan Orloff Casa di produzione: Columbia Pictures, Ghost Corps. Distribuzione: Warners Bros. Entertainment Ita. Paese: USA Cast: Mckenna Grace (Phoebe), Finn Wolfhard (Trevor), Carrie Coon (Callie Spengler), Paul Rudd (Gary Grooberson)
Molti di voi sentiranno l’urgenza di essere subito rassicurati: ma è brutto come il reboot al femminile del 2016? per fortuna no! Quell’avventato e goffo tentativo di ridare linfa a uno dei franchise più amati di sempre è acqua passata. Allora ci saranno riusciti? Sony e Columbia hanno fatto il miracolo? Non esattamente purtroppo. Oggi a condurre il timone di GhostBusters Legacy è un figlio d’arte, uno che nell’universo degli acchiappa fantasmi c’è proprio nato. Stiamo parlando infatti del regista e cosceneggiatore del film Jason Reitman, figlio dell'originale regista della saga Ivan Reitman. Jason ha respirato Ghostbusters sin da quando era bambino, ma ha costruito una carriera sul cinema indie americano del tutto diversa dai blockbuster (Young Adult e Tully sono due gioielli): non arriva quindi a gestire un grande franchise come tanti suoi colleghi, promosso dalla Marvel di turno per sparire in una macchina più grande di lui. Sa di poterla guidare e sente la responsabilità di doverlo fare. Questa particolarità non può essere ignorata. Allora cos’è andato storto? Cosa non convince in questo nuovo capitolo?
Il film di Jason è pieno di indizi e riferimenti al passato, forse troppi. La legacy, ovvero l’eredità, di cui si parla nel titolo italiano è doppia. È quella dei protagonisti della storia che si trasferiscono nella fatiscente casa ereditata dal nonno nella provincia rurale americana ma è anche quella del regista che porta sulle spalle il peso di una pesante sfida. Reitman ci catapulta in un mondo contemporaneo con forti tinte anni ‘80. Di certo questo lungometraggio è più meditato, segue la continuity della saga e propone un'idea di "omaggio" più affine a quella che si aspetta uno spettatore affezionato allo storico primo capitolo dell’84. Riesce a rinnovare la leggenda degli acchiappa fantasmi trasportandola nel mondo di oggi e creando una forte connessione tra vecchio e nuovo pubblico. É divertente e commovente, pieno di ricordi e azione. Sembra un vero e proprio regalo per il padre Ivan, che pare si sia commosso dopo la prima visione insieme a Jason.
Con un piglio decisamente autoriale riesce inoltre a creare una sorta di ‘’filo di Arianna’’ tra lui e i nuovi protagonisti del film. Paul Rudd è un eccentrico professore e come al solito ci offre un’ottima prova. Ma la vera nota positiva e interessante è il talento della giovane Mckenna Grace che veste i panni di Phoebe, una Spengler rediviva, ironica e sfacciatamente pungente. Un personaggio scritto benissimo che ha una sua personalità ben definita. L’altro protagonista è Trevor, il fratello maggiore interpretato da Finn Wolfhard visto in Stranger Things, serie cult dei nostri tempi che in questo nuovo capitolo della saga è più che citata. Da qui vorrei partire proprio con la critica al Legacy di Reitman. Sarebbe stato impensabile rivivere i fasti e la magia del primo film ma non si può pensare di strutturare un progetto sul fan service più estremo e il ‘’festival’’ del revival anni ottanta. Riesce a gestire bene la difficilissima operazione quando gioca con i propri personaggi, che incarnano il suo percorso creativo, a mano a mano che il film prosegue però le sue nuove idee perdono di vigore e non fanno altro che genuflettersi al passato. I continui rimandi alle atmosfere dei Goonies dopo una certa si fanno stucchevoli e il bisogno di essere benedetti dai protagonisti della ‘’vecchia saga’’ fa traballare il precario equilibrio che era riuscito a trovare. Le intenzioni ci sono, i risultati a intermittenza anche. Il miracolo non riesce. Il miracolo di convincerci che ci sia un vero futuro per questa saga purtroppo a nostro parere non riesce. Certi cult andrebbero lasciati in pace, andrebbero lasciati decantare nella nostra memoria insieme ai bellissimi ricordi impressi nella nostra mente.
Link Immagini:
Locandina: MyMovies Immagine1: Tom’s Hardwer Immagine2: Variety Immagine3: go nagai world di Federica Gaspari ![]() Titolo originale: The Green Knight Genere: fantasy, avventura Anno: 2021 Regia: David Lowery Cast: Dev Patel, Alicia Vikander, Joel Edgerton, Sarita Choudhury, Sean Harris, Ralph Ineson, Barry Keoghan, Erin Kellyman, Kate Dickie Sceneggiatura: David Lowery Musiche: Daniel Hart Produzione: Ley Line Entertainment, Bron Creative, Wild Atlantic Pictures, Sailor Bear Distribuzione: Prime Video Paese: Stati Uniti d’America, Canada Durata: 130 min Esistono poche personalità a Hollywood con una filmografia eccentrica come quella di David Lowery. Regista, sceneggiatore, montatore e produttore classe 1980, Lowery negli ultimi quindici anni si è fatto strada nel mondo indipendente nordamericano diventando una figura di spicco per palcoscenici come Sundance e South by Southwest. Dopo anni in questi ambienti, nel 2016 arriva - un po’ a sorpresa - il balzo nel mondo più commerciale Disney con Il drago invisibile e con la conferma alla regia del prossimo live-action di Peter Pan. Compromessi o netti cambi di rotta? Nella zona grigia di questo percorso che i cinefili più granitici potrebbero disprezzare si ritrova senza dubbio la possibilità di poter finalmente trovare un’eco maggiore anche per gli altri titoli più sperimentali di Lowery, come A Ghost Story del 2018 e, ora, Sir Gawain e il Cavaliere Verde (The Green Knight). Nel 2021, tuttavia, nessun titolo è riuscito a essere immune allo sconvolgimento della settima arte dovuto alla pandemia. Dopo attese alle stelle, anteprime che promettevano uno spettacolo visivo e cinematico senza precedenti, l’ultimo film di Lowery è stato quindi costretto alla dimensione del piccolo schermo nella distribuzione italiana di Prime Video. Questa scelta e la spettacolarità della visione nonostante i limiti nei mezzi lasciano tuttavia l’amaro in bocca al pensiero di quello che avrebbe potuto essere questo film nel buio di una sala cinematografica. Basato sul poema Sir Gawain and the Green Knight, il nuovo film di Lowery segue i passi di Gawain (Dev Patel), nipote di Re Artù (Sean Harris) e cavaliere della tavola rotonda e protagonista di alcuni racconti del ciclo arturiano. Desideroso di farsi strada nella gerarchia dei cavalieri dimostrando il suo valore e costruendo una sua leggenda da narrare, il giovane uomo accetta una sfida fatale nel giorno di Natale: il mostruoso Cavaliere Verde darà in dono la sua ascia a qualsiasi cavaliere in grado di sferrare un colpo contro di lui a patto che lo stesso colpo venga restituito esattamente dopo un anno al cavaliere stesso presso la remota Green Chapel. Inizia così il viaggio-incubo del protagonista, messo a dura prova dopo ogni incontro sulla strada per la sua destinazione che potrebbe essergli fatale. Maestoso o pretenzioso? Visionario o incontenibile borioso? Il confine tra due letture della personalità di un artista è spesso molto molto sottile e talvolta nemmeno tracciabile. Lowery con questo suo ultimo film compone una dichiarazione di intenti che va oltre l’impressione del pubblico che si troverà nettamente diviso davanti a questa visione. A un primo sguardo, infatti, l’ultimo titolo della scuderia A24 sembra “semplicemente” raccontare il viaggio di formazione di un cavaliere, una sorta di coming-of-age epico in salsa arturiana che avanza per episodi surreali, musiche suntuose ed escamotage visivi mozzafiato. Tuttavia, sotto questa apparenza che comunque regala ben più di qualsiasi semplice fantasy cavalleresco degli ultimi vent’anni, The Green Knight riesce a sviluppare una rielaborazione dell’epica e delle sue stesse dinamiche narrative che riescono a rendere il viaggio di Gawain universale e, soprattutto, avvincente nelle sue molteplici chiavi di interpretazione sorrette da un cast in forma scintillante. Mentre il dibattitto su cosa accada realmente o, perlomeno, quale sia la scelta di Gawain alla fine del film accenderà per molto tempo le discussioni tra appassionati, sceneggiatura e montaggio riescono a incasellare una serie di riflessione che, a livello più generale nella figura del Green Knight, si legano ai concetti di libero arbitrio e di uomo contro natura ma che, su un piano più personale e quasi intimo, fanno luce sulle ossessioni del singolo all’interno di una società, sulla costante necessità di dimostrare e raccontare qualcosa, sulla ricerca di ciò che si vuole davvero rincorrere spesso uscendo da binari tracciati e spesso sbagliando peccando con la propria ingenua hybris. Nell’ambiguità di un finale (per molti, codardo), si corona una struttura di significati e suggestioni capaci di risultare allo stesso tempo repellenti e suggestive. In tutto questo risiede la potenza e la bellezza di una visione che scuote e lascia il segno e a cui si perdona anche qualche vezzo eccentrico nella sua seconda parte.
Immagini tratte da: www.rollingstones.com www.medium.com di Matelda Giachi ![]() Genere: Serie Animata Anno: 2021 Episodi: 6 Durata: 15 min circa Cast: Zerocalcare, Valerio Mastandrea Produzione: Movimenti Production, BAO Publishing Distribuzione: Netflix Paese: Italia Ideatore: Michele Rech (Zerocalcare)
“A un certo punto a me m’era venuta voglia, qualche anno fa, di provare a raccontare una storia invece che a fumetti, a cartoni. Un po’ perché mi piaceva l’idea che fosse un linguaggio molto diretto e molto accessibile. Poi mi accorgevo, quando facevo magari i cartoni scemi al volo a casa mia, che un video così veniva molto più guardato rispetto a un fumetto sullo stesso identico tema. Poi, siccome io sono un po’ maniaco del controllo, tendo a mettere, intorno alle vignette i testi di alcune canzoni o la nota musicale per cercare di suggerire quella che dovrebbe essere l’atmosfera o quello che suggerisco di ascoltare mentre si legge quel fumetto. Immagino che uno su un milione avrà ascoltato quella roba lì mentre leggeva il fumetto. Con la serie glielo puoi imporre, puoi praticamente controllare tutta quell’esperienza da quasi tutti i sensi e questa cosa qua mi sembrava figa”.
Così nasce Strappare Lungo i Bordi, la prima serie animata di Michele Reich, meglio noto come ZeroCalcare, distribuita a partire dal 17 novembre su Netflix. Siamo ricorsi alle stesse parole usate dall’autore in conferenza stampa alla Festa del Cinema di Roma, perché, laddove anche la potente Netflix è subentrata solo per fornire mezzi senza intervenire sull’aspetto artistico, usare altre parole che non siano le sue pare quasi una violazione.
Sei episodi, dei primi due dei quali siamo stati fortunati spettatori in anteprima, della durata ciascuno di circa 15 min. Brevi; veloci; pieni. Procedono alla stessa velocità di un flusso di coscienza, prendendone a tratti anche il disordine. Non si fa in tempo a soffermarsi su un dubbio esistenziale o un concetto espresso che siamo già stati travolti da altri dieci, come da un fiume in piena. Il filo conduttore, la linea orizzontale che finirà di delinearsi solo con i successivi episodi, sembra essere un viaggio di cui sono protagonisti Zero con gli amici di sempre, Secco e Sarah. I personaggi sono tutti doppiati dall’autore stesso, l’intento è di rimandare ad un racconto tra amici, in cui si fanno le vocine e le imitazioni. Fa eccezione l’armadillo, a cui presta la voce Valerio Mastrandrea, “perché quello è la mia coscienza, quello che mi va sempre contro, quindi non poteva avere la voce mia”. Guardando Strappare Lungo i Bordi si ride, tanto. Zerocalcare ha esorcizzato i propri disagi, le insicurezze, e li ha tradotti nella propria forma d’arte. Ha fatto dei suoi fumetti una sorta di formula magica: ridendo dei suoi sketch si ride di se stessi perché tutti, fosse anche solo in qualche momento, ci siamo sentiti un po’ fuori posto, strani, incomprensibili per gli altri ma, a volte, anche per noi in prima persona. E in questa esperienza che ci porta a vederci un po’ da fuori, forse tutto appare un po’ meno tragico di come lo pensavamo; forse ci sentiamo un po’ meno soli.
Mentre risponde alle domande dei giornalisti e promuove la sua serie animata, la parlata di Michele è fluida ma lo sguardo è sempre basso; c’è una timidezza che non se n’è andata con il successo. Zerocalcare è uno dei più grandi fumettisti dei nostri tempi, ma è sempre uno di noi, individui imperfetti che cercano di seguire i bordi tratteggiati di questa vita con variabile destrezza.
Voto: 8 {Fine della recensione, parte una sigla musicale: è “Non Abbiam Bisogno di Parole”, di Ron. Guardando la serie capirete}
Immagini tratte da:
www.mymovies.it www.smartworld.it www.rbcasting.com www-projectnerd.it foto dell’autore di Federica Gaspari ![]() Genere: azione, fantascienza, avventura Anno: 2021 Regia: Chloé Zhao Cast: Gemma Chan, Richard Madden, Kumail Nanjiani, Lia McHugh, Brian Tyree Henry, Lauren Ridloff, Barry Keoghan, Don Lee, Harish Patel, Kit Harington, Salma Hayek, Angelina Jolie Sceneggiatura: Chloé Zhao, Patrick Burleigh, Ryan Firpo, Matthew Firpo Fotografia: Ben Davis Montaggio: Craig Wood, Dylan Tichenor Produzione: Marvel Studios Paese: Stati Uniti Durata: 156 min La fase 4 del Marvel Cinematic Universe, la prima dell’era post Endgame, è ormai nel vivo del suo percorso. Dopo la distribuzione dei primi titoli ufficiali tra piccolo e grande schermo a partire dall’inizio del 2021, tuttavia, è spontaneo chiedersi quali tra questi sia davvero da considerare indimenticabile e, soprattutto, quale tra i film rilasciati riesca a introdurre degnamente il potenziale di nuovi personaggi. Tra alti e bassi, infatti, sia Black Widow che Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli non hanno saputo riportare in scena momenti e personalità esplosive come quelle delle precedenti fasi. Come ampiamente annunciato tra convention e comic-con, però, la vera chiave di volta di questo periodo in cui l’MCU avrebbe dovuto reinventarsi sarebbe dovuto essere Eternals, ambizioso progetto cinematografico firmato Chloé Zhao, premio Oscar alla regia nel 2021 per Nomadland. Con l’eco di un nome così prestigioso coinvolto nella produzione, il film è finalmente arrivato nelle sale di tutto il mondo promettendo di accompagnare il pubblico di appassionati e non verso un nuovo scenario. Dall’alba dell’universo, gli Eterni, esseri immortali dai poteri straordinari, vegliano sul corso della storia umana sulla Terra. Secolo dopo secolo e millennio dopo millennio, queste creature hanno assistito ai più grandi conflitti, crisi e disastri senza intervenire, come loro indicato in vista di un’emergenza ben più grande e importante. Degli avvenimenti improvvisi, tuttavia, costringeranno gli Eterni a tornare allo scoperto con i loro poteri dopo un lungo tempo trascorso in incognito tra gli uomini. La gestione di un gruppo di supereroi sul grande schermo richiede grande maestria alla regia e alla sceneggiatura: riuscire ad affidare le scene chiave ai personaggi giusti, scolpendo sequenza dopo sequenza le personalità di questi ultimi, è un’impresa molto delicata. A quasi dieci anni da Avengers, prima operazione di narrazione collettiva a sfondo supereroistico, il pubblico del MCU considera quasi un dato di fatto la possibilità di vedere più personaggi di spicco interagire tra loro con naturalezza, senza alcun tipo di artificio macchinoso. Nel parlare di Eternals è essenziale questa premessa poiché la necessità di introdurre un così ampio numero di supereroi inediti per il pubblico della sala ha portato alla luce tutte le problematiche di un lavoro - e forse di un’intera fase – che fatica a gestire i suoi più grandi protagonisti, soprattutto quando tali figure non sono supportate da interpreti sufficientemente carismatici. L’ultimo capitolo del Marvel Cinematic Universe, a differenza delle aspettative che lo assurgevano a diretto erede di Avengers per il suo ruolo cruciale nel progetto multimediale, si rivela un passo falso dalle promesse non mantenute e dagli sforzi produttivi non ripagati. Un cast stellare ma svogliato evidenzia tutti i limiti di una sceneggiatura che non lascia spazio all’introduzione dei singoli personaggi, cercando solamente di destreggiarsi disperatamente tra un tono solenne imposto dalla nuova componente celestiale dei personaggi e le richieste di una linea editoriale ormai fin troppo omologata e omologante. In un pastiche in cui le diversità vengono schiacciate e non valorizzate, si consuma così una produzione priva di identità, incapace di prendere le redini della sua narrazione e di riuscire a riflettere sulle sue dicotomie umano-sovraumano crogiolandosi in inquadrature sofisticate e compiaciute.
Immagini tratte da: www.cnet.com www.marvel.com
di Matelda Giachi
![]()
Genere: Commedia
Anno: 2021 Durata: 108 min Regia: Wes Anderson Cast: Timothée Chalamet, Saoirse Ronan, Elisabeth Moss, Léa Seydoux, Bill Murray, Willem Dafoe, Christoph Waltz, Tilda Swinton, Benicio Del Toro, Frances McDormand, Rupert Friend, Owen Wilson, Adrien Brody, Alex Lawther, Anjelica Huston, Fisher Stevens, Jeffrey Wright, Jason Schwartzman, Henry Winkler, Lois Smith, Griffin Dunne, Mathieu Amalric, Denis Ménochet Sceneggiatura: Wes Anderson Fotografia: Robert D. Yeoman Montaggio: Andrew Weisblum Musica: Alexandre Desplat Produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Studio Babelsberg Distribuzione: Walt Disney Pictures Paese: USA
Dopo essere stati al Grand Budapest Hotel nel 2014 e sull’Isola dei Cani nel 2018, con un anno di ritardo causa Covid, approdiamo nella fittizia cittadina francese di Ennui-sur-Blasé, alla redazione del French Dispatch, che ha appena perso il suo direttore (Bill Murray) e si riunisce per il necrologio e per un’edizione speciale che raccoglie i pezzi di maggior successo del giornale. Ecco che così il film si articola in quattro episodi: un viaggio in bicicletta attraverso i quartieri più malfamati della città per la cronaca cittadina; la storia di un pittore ergastolano e della sua musa per arte; il racconto di moti studenteschi per la politica e una storia di rapimenti e chef per la rubrica di cucina.
The French Dispatch è Wes Anderson all’ennesima potenza. Nel bene e nel male. Opera di enorme complessità, nasce come celebrazione del giornalismo e del cinema francese. Ma forse sarebbe più corretto dire come ringraziamento all’ispirazione che il New York Times ha fornito in anni e anni di letture, fatto che Anderson cita anche nei titoli di coda. Ma è l’uso libero della parola da parte dei giornalisti di questa redazione, a dispetto di “quello che dovrebbe essere” che è un vero omaggio ad una scrittura giornalistica quasi dimenticata. Esteticamente un trionfo, tra simmetrie studiate al millimetro, la fotografia ai limiti del maniacale, un alternarsi di bianco e nero e di immersione nel colore, rigorosamente in palette dei toni caldi del giallo e dell’autunno in generale, che lascia poi anche spazio a scene di animazione. Ha il suo tipico incedere favolistico, con una voce narrante di sottofondo che introduce i fatti; un’ambientazione eccentricamente quanto deliziosamente vintage.
L’"unica" cosa che uno dei più caratteristici registi del nostro tempo si è lasciato sfuggire in questa sua ricerca di perfezione è l’anima, l’aspetto emotivo. Scritturare un cast di eccellenze e poi non sfruttarne il potenziale è quasi un delitto. Opera come quasi sempre corale, il numero degli attori in campo è talmente ampio che citare nome per nome trasformerebbe la recensione in una lista della spesa. Ma tutto va estremamente veloce, tanto che la maggior parte dei protagonisti appare per poco più di un fotogramma e si distingue più per il trucco che per l’interpretazione, come fosse parte di un quadro piuttosto che di un’opera cinematografica. Poche sono le eccezioni a questo schema, tra le quali spicca sicuramente Benicio Del Toro nei panni dell’artista ergastolano del secondo episodio. Una velocità che si traduce a momenti come una rilettura di un giornale d’altri tempi eseguita con la superficialità del lettore odierno.
Si esce dal cinema ammirati, ispirati, affascinati… ma non emozionati. Voto: 7 di Matelda Giachi ![]() Genere: Drammatico Anno: 2021 Durata: 98 min Regia: Rebecca Hall Cast: Tessa Thompson, Ruth Negga, André Holland, Bill Camp, Gbenga Akinnagbe, Antoinette Crowe-Legacy Sceneggiatura: Rebecca Hall (dal romanzo omonimo di Nella Larsen) Fotografia: Eduard Grau Montaggio: Carol Spier Musica: Devonté Hynes Produzione: Significant Productions, Picture Films, Flat Five Productions, Film4, AUM Group Distribuzione: Netflix Paese: USA
Passing è l’esordio alla regia dell’attrice Rebecca Hall, che ha adattato l’omonimo romanzo del 1929 di Nella Larsen, dopo che il nonno, che era nero, le ha raccontato come abbia passato gran parte della propria vita a farsi passare per bianco. E’ così infatti che le due protagoniste, amiche d’infanzia, si incontrano per caso dopo molti anni, in una sfarzosa sala da tè newyorkese dove sono entrambe entrate fingendosi bianche. Irene è sposata con un medico, ha due figli e conduce una vita non sfarzosa ma comunque agiata ad Harlem e solo di tanto in tanto maschera il colore della propria pelle per muoversi in una New York di fine anni ’20 profondamente razzista. Clare ha invece fatto ricorso allo sbiancamento della pelle per far parte del mondo “proibito”, sposando anche un uomo impregnato di un importante odio raziale e che non immagina chi sia in realtà sua moglie. Ritrovarsi porta la vita delle due donne ad intrecciarsi sempre di più, sconvolgendo gli equilibri di entrambe ma soprattutto di Irene.
Il film in distribuzione su Netflix a partire dal 10 novembre, ha una forte impronta femminile nella sua scrittura e nella sua resa, in cui il non detto prevale nettamente sul detto e si ha una forte componente simbolica, a partire dall’uso della luce. La scelta del bianco e nero non è infatti una scelta solo estetica ma anche e soprattutto dovuta alla sua capacità uniformante che maschera il colore della pelle, tranne in alcune posizioni in cui invece ha l’effetto contrario rivelatorio.
La pellicola ha una forte componente estetica e il punto di forza sta nella sua eleganza: dai costumi, alle scenografie, ai modi dei personaggi fino al movimento della macchina da presa. La recitazione estremamente, troppo contenuta sia di Tessa Thompson che di Ruth Negga toglie invece spessore alle due protagoniste, i cui moti dell’animo sono evidenziati più dalla musica e dal montaggio che dall’interpretazione delle attrici. Non viene resa giustizia alla profonda diversità caratteriale delle due donne, alle scelte diametralmente opposte che hanno fatto nella vita. Con questo film Rebecca Hall, per sua stessa dichiarazione, prende le misure per la propria formazione come regista e rende omaggio al suo grande amore per il cinema e anche alla propria famiglia, che è stata capace di costruirsi un’identità in un mondo che la spingeva invece a perderla e disprezzarla.
Voto: 7
di Salvatore Amoroso
Vincitore come miglior titolo nazionale al Toronto International Film Festival nel settembre del 2019, presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove ha avuto il suo primo passaggio (entusiasta) italiano un mese dopo la proiezione canadese, arriva nelle nostre sale (con colpevole ritardo) la struggente pellicola di Sophie Deraspe. ![]()
Genere: Drammatico
Anno: 2019 Durata: 109 min. Regia: Sophie Deraspe Sceneggiatura: Sophie Deraspe Fotografia: Sophie Deraspe Musiche: Jad Orphée Chami, Jean Massicotte Montaggio: GeoffreyBoulangé, Sophie Deraspe Casa di produzione: ACPAV Distribuzione: Lucky Red, Parthenos Paese: Canada Cast: Nahéma Ricci, Rawad El-Zein, Hakim Brahimi, Rachida Oussaada.
Non è mai semplice confrontarsi con i classici, tanto meno proporne adattamenti in chiave contemporanea che sappiano evitare di incorrere in soluzioni di cattivo gusto. La regista canadese Sophie Deraspe riprende l’omonima tragedia del grande drammaturgo greco, trasfigurando la Grecia di Sofocle nella Montreal dei nostri giorni e quindi aggiornando il canovaccio con i fatti e i temi più controversi e dibattuti della nostra epoca. Anche qui, tanto per cambiare, l’autrice canadese non si inventa nulla di nuovo, se è vero che nella trasfigurazione dei personaggi da ieri a oggi a prendere il posto del sodalizio originale è una famiglia di immigrati mediorientali costretta a espatriare in Canada dopo l’uccisione dei genitori, con ciò che ne consegue in termini di difficoltà d’integrazione nel mondo occidentale da parte dei nuovi arrivati. Manco a farlo apposta a capitalizzare le fortune narrative del film è uno degli schemi più utilizzati (e talvolta abusati) dal cinema contemporaneo, ovvero il rapporto di causa-effetto tra la mancata integrazione degli immigrati e gli episodi di radicalismo islamico a essa collegati. Di quest’ultimi sono accusati, in un rapido rovesciamento di fronte, i fratelli di Antigone, il maggiore dei quali viene ucciso dai colpi della polizia “assassina”, mentre il secondo scatena la pietra dello scandalo nel momento in cui Antigone, grazie a un’abile travestimento, lo fa evadere dal carcere sostituendosi a lui.
Dunque Antigone parte da una doppia riconoscibilità che, da una parte richiama l’aderenza della storia al contesto sociale, politico e culturale dei nostri giorni e alle sue dinamiche, dall’altra si rifà a una delle tragedie classiche più note dell’universo ellenico. Succede però che invece di enfatizzare l’appartenenza dei contenuti alle fonti appena citate, Antigone fa di tutto per rivendicare un’autonomia di sguardo che lavora contemporaneamente in due direzioni. Quella più interessante riguarda la forma e, in particolare, la decisione non scontata a questi livelli di trasgredire la filologia in maniera da riproporne di certo lo spirito di responsabilità della protagonista, evitando però di cadere nella declamazione del testo e della cronologia degli avvenimenti che, quando presenti, vengono mimetizzati all’interno di un plot centrato sull’ostinazione della protagonista nel tenere fede alla responsabilità assunta nei confronti della propria famiglia, ovvero alla risoluzione di addossarsi fino all’ultimo le colpe del proprio atto di fronte alla legge. E poi il fatto di far coincidere la ribellione al sistema di Antigone e dei coetanei che a macchia d’olio decidono di sostenerne la causa con la mancanza di rispetto nei confronti del testo originale e della sua filologia.
Ma il cuore del film, quello che alla fine fa palpitare lo spettatore coinvolgendolo anima e corpo nella vicenda della protagonista è l’appassionata arringa con cui Antigone giustifica il proprio operato. A portala avanti sono le continue astrazione dell’autrice, soprattutto quando si tratta di dare conto della reazione del mondo giovanile agli appelli della protagonista, risolti nel rap visivo di fotografie, video e animazione e sopratutto la struggente interpretazione di Nahéma Ricci, capace di trascendere la tecnica per offrirsi anima e corpo alla volitiva disperazione di chi è disposta a sacrificarsi per la vita degli altri. Lo slogan “me lo ha detto il cuore e non la ragione”, pronunciato dalla ragazza incarna nel migliore dei modi quella presa di coscienza delle nuove generazioni in atto in ogni parte del mondo.
Link Immagini:
Locandina: MyMovies Immagine1: MyMovies Immagine2: SpettacoloMusicaSport Immagine3: MovieMeter |
Details
Archivi
Giugno 2023
Categorie |