Nella sua nuova pellicola Paolo Genovese guida gli spettatori in un viaggio senza freni nelle profondità della psiche umana.
Dopo il grande successo di "Perfetti sconosciuti" (premiato con il David di Donatello come "miglior film italiano del 2015"), il regista romano Paolo Genovese torna al cinema con una nuova pellicola che scava all'interno delle nevrosi e dei buchi neri della mente umana. "The place" è il titolo scelto per raccontare una storia noir dagli accesi toni drammatici che ispira il suo soggetto a "The Booth at the End", serie tv nordamericana andata in onda per due stagioni nel biennio 2010 - 2012 sull'emittente via cavo Fx (in Italia la prima stagione è stata trasmessa da Netflix, la seconda è ancora inedita).
"The place" dà il nome a un ristorante in una via non ben precisata della Capitale in cui ogni giorno un uomo sconosciuto (Valerio Mastandrea) siede allo stesso tavolo e trascorre la giornata intera al servizio di altre persone. Egli è munito soltanto di uno strumento, una pesante agenda dalla copertina nera all'interno della quale consulta degli appunti già scritti oppure ne aggiunge dei nuovi mentre ascolta le confessioni dei suoi interlocutori. Le persone si recano da lui perché hanno saputo di poter ottenere un aiuto per i problemi più disparati e irrisolvibili. L'Uomo (d'ora in avanti lo identificheremo così, come del resto avviene nei titoli di coda finali), di cui inutilmente i clienti provano a chiedere nome e altre informazioni, risponde che il suo compito è "offrire possibilità", soluzioni che prevedono però un prezzo durissimo da pagare. Un prezzo non legato a un compenso economico per l'Uomo, bensì un compromesso estremo da parte dei clienti, che vengono messi di fronte alla scelta di compiere o meno alcune azioni che il più delle volte affondano nell'immoralità e nell'orrore. L'Uomo si sente dare quotidianamente del "mostro", dell' "essere meschino e senza cuore", perché a turno propone alle persone di rapire una ragazzina, di piazzare una bomba, di commettere uno stupro. Dopo aver ascoltato le vicende e le richieste di ciascuno, senza batter ciglio egli apre l'agenda, si ferma un attimo a scrutare una o due pagine e seleziona la "controfferta" necessaria per far si che il cliente ottenga quanto desideri. L'Uomo non obbliga chi chiede il suo aiuto ad accettare forzatamente la sua offerta, ma ricorda anzi che esiste sempre la possibilità di rifiutare l' "accordo", e soprattutto ci siano altre strade parallele percorribili per conseguire i propri scopri. A una giovane suora (Alba Rohrwacher), che si presenta al suo tavolo per chiedergli come poter ritornare a sentire Dio dentro di lei, egli le riserva la "missione" estrema di rimanere incinta, ma frattanto le ricorda che la fede può essere riottenuta anche in qualche altra maniera. A un padre (Vinicio Marchioni) disperato, pronto a fare di tutto per liberare il figlioletto malato di cancro, l'Uomo ha in ballo una prova molto sconveniente, che consiste nel sequestrare una bambina. Malgrado la richiesta immorale che gli viene rivolta, il padre acconsente ma più di una volta, come altre persone nella stessa condizione, cambia idea, vorrebbe recedere dal patto, e arriva a mettere quasi le mani addosso all'Uomo, a perdere completamente le staffe. Durante queste situazioni di spannung, che nel prosieguo della trama aumentano rapidamente, l'Uomo non soltanto non perde la sua proverbiale calma, ma di norma veste ancora di più i panni di uno psicologo dell'animo umano, e in special modo viaggia nei meandri più nascosti di uomini e donne incompleti e incapaci di farei conti con la realtà dei fatti oppure con la loro incapacità di agire. Talvolta, come nel caso del meccanico (Rocco Papaleo), che sogna di avere una notte d'amore con la diva da calendario del momento, basterebbe tirare fuori un minimo di coraggio, di intraprendenza per raggiungere l'obiettivo, o ancor peggio basterebbe finalmente maturare, crescere per arrivare a mutare radicalmente la vita nella sua interezza. Come detto in precedenza, l'Uomo non abbandona mai la sua posizione tra le quattro mura di "The place", Lo troviamo il primo mattino a bere caffè, a pranzo a mangiare un piatto d'insalata, e di sera tardi a vuotare il bicchiere di vino. Capita anche di vederlo addormentarsi alla fine della giornata, sempre più stanco per le fatiche del suo "mestiere". Ma nessuno non può davvero non sfuggire alla considerazioni di altri esseri umani, e dunque anche l'Uomo si imbatte all'improvviso in una donna, Angela (Sabrina Ferilli), dalla tristezza evidente e dalla curiosità corrosiva, che caparbiamente tenta di entrare dentro di lui, di abbattere il velo che lo avvolge alla pari di una divinità o di un depositario di segreti sovrannaturali. Grazie anche al suo intervento, per l'Uomo si prospetteranno delle giornate molto lunghe, in cui diverrà testimone delle evoluzioni diverse cui andranno incontro le personalità dei suoi clienti. Il suo polso, la sua consolidata imperturbabilità saranno messe a loro volta in discussione, alla pari della sua identità. Con "The place", Paolo Genovese confeziona un romanzo nero dalle pieghe drammatiche, governato dall'importanza centrale del potere della parola, del dialogo e dell'ascolto. I clienti riescono a portare in superficie veleni e beatitudini dinanzi a un essere ignoto, che non fa nulla per metterli a gioco, non sorride, né si profonde in gesti di cortesia. L'Uomo semplicemente ha la pazienza di ascoltare, di restare seduto a disposizione dei bisogni degli altri, forse perché colpevole nella sua storia precedente della stessa predisposizione agli eccessi. Immagini tratte da: Immagini 1 e 3 da https://www.facebook.com/THEPLACEILFILM/?fref=ts Immagine 2 da www.mymovies.it
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DATA USCITA: 25 dicembre 2017
GENERE: musical, biografico ANNO: 2017 REGIA: Michael Gracey CAST: Hugh Jackman, Michelle Williams, Zac Efron, Zendaya, Rebecca Ferguson, Keala Settle, Paul Sparks SCENEGGIATURA: Jenny Bicks, Bill Condon FOTOGRAFIA: Seamus McGarvey MONTAGGIO: Joe Hutshing COLONNA SONORA: John Debney, Benj Pasek, Justin Paul PRODUZIONE: Lawrence Mark Productions, Chernin Entertainment DISTRIBUZIONE: 20th Century Fox PAESE: Stati Uniti DURATA: 105’
Nel periodo natalizio anche il cinema non resiste allo spirito festivo. I titoli più impegnativi e le pellicole dei più rinomati festival del settore lasciano spazio a film e storie che si avventurano con spensieratezza nel mondo della fantasia per un pubblico di tutte le età. Al cinema, a fianco dei consueti e vituperati cine-panettoni, approdano quindi alcuni prodotti dalla confezione scintillante, colorata e vagamente retrò. Uno di questi è The Greatest Showman, musical dalle atmosfere classiche che ripercorre l’ascesa al successo nel mondo dello spettacolo del visionario Phineas Taylor Barnum, statunitense divenuto noto per aver fondato il Ringling Bros. e Barnum & Bailey Circus. Al tramonto del XIX secolo questo statunitense non inventò semplicemente uno spettacolo ma diede vita a una nuova concezione d’intrattenimento basata su ritmi e strumenti completamente nuovi per l’epoca. Sul finire del 2017, un affiatato gruppo di australiani e statunitensi porta in scena questo grande spettacolo, tra note e passi di danza.
Al suo esordio alla regia, Michael Gracey, artista digitale ed esperto di effetti speciali, cura un esplosivo musical biografico in cui musiche, colori e immagini sono veri e propri personaggi sulla scena insieme a Hugh Jackman che, nei panni del protagonista realmente esistito, mette alla prova le sue abilità di cantante e ballerine a cinque anni dal successo di “Les Miserables”. Ideato nel 2009, The Greatest Showman vede la luce del proiettore solo quest’anno raccontando, in forma romanzata, la più classica ma sempre affascinante parabola del tanto inseguito American Dream.
Il piccolo P.T. Barnum, di umili origini, può fare affidamento solo sulla sua fantasia più libera e senza freni: figlio di un modesto sarto, non può godere delle anche più essenziali comodità. A casa di un cliente del padre, il ragazzo incontra la coetanea Charity con cui instaura subito un legame unico. La loro relazione, ostacolata dalla benestante famiglia della ragazza, si rafforzerà anno dopo anno fino a portarli a diventare una famiglia a New York, luogo dove tutto è possibile nonostante le difficoltà. È proprio nella più cosmopolita delle metropoli che nasce e si sviluppa l’idea rivoluzionaria di intrattenimento del circo. Questa intuizione si concretizzerà grazie a decisioni contro corrente e a incontri con persone che, all’epoca, erano considerate semplici freaks, additati ed evitati da chiunque.
Il 2017 si è avviato sulle note del contagioso entusiasmo di La La Land e si chiude ora con un altro musical, non rivoluzionario quanto il primo, ma altrettanto coinvolgente. La firma musicale, però, è la stessa: il duo Pasek e Paul, infatti, ha confezionato gli 11 brani originali di questa ultima pellicola, canzoni e motivi avvolgenti come This Is Me che, interpretato da Keala Settle che nel film veste i panni della ‘donna barbuta’, portano con loro messaggi importanti e valori da non sottovalutare. Se, infatti, la storia non brilla per particolare originalità nelle svolte o nella costruzione dei personaggi, il messaggio del film omaggia la diversità in ogni sua forma, esaltandola a valore aggiunto nella vita di ciascuno di noi. Ogni sottotrama, dai singoli freaks alla storia d’amore tra il collaboratore di Barnum interpretato da Zac Efron e l’acrobata mulatta Zendaya, ha tale obiettivo. Questo significato di fondo ben si coniuga con i colorati e imponenti numeri musicali che scandiscono l’avanzare della storia, valorizzando ogni interprete e le relative abilità.
A pochi mesi dalla fine del circo Barnum, Gracey con un esaltante Hugh Jackman celebra questa leggenda americana lasciando intravedere anche le sue più aspre controversie pur senza approfondirle. Uno spettacolo dentro lo spettacolo, perfetto per emozionarsi con il più semplice dei trucchi!
Immagini tratte da:
Immagine 1: www.impawards.com Immagine 2: www.laineygossip.com Immagine 3: www.bestscreenwallpaper.pro Immagine 4: www.vogue.com
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Titolo: Assassinio sull'Orient Express
Paese di produzione: Stati Uniti d'America Anno: 2017 Durata: 114’ Genere: giallo Regia: Kenneth Branagh Sceneggiatura: Michael Green Produttore: Ridley Scott, Mark Gordon, Simon Kinberg, Kenneth Branagh, Judy Hofflund, Michael Schaefer Fotografia: Haris Zambarloukos Colonna Sonora: Patrick Doyle Costumi: Alexandra Byrne Cast: Kenneth Branagh (Hercule Poirot); Penélope Cruz (Pilar Estravados); Willem Dafoe (Gerhard Hardman); Judi Dench (Natalia Dragomiroff); Johnny Depp (Samuel Ratchett); Josh Gad (Hector MacQueen); Derek Jacobi (Edward Henry Masterman); Leslie Odom Jr. (Dr. Arbuthnot); Michelle Pfeiffer (Caroline Hubbard); Daisy Ridley (Mary Debenham); Lucy Boynton (Helena Andrenyi); Sergei Polunin (Rudolph Andrenyi); Olivia Colman (Hildegard Schmidt). Gerusalemme, anni 30. Il detective belga Hercule Poirot (Kenneth Branagh) risolve un furto alla chiesa del Santo Sepolcro e decide di concedersi una vacanza a Istanbul, ma deve tornare inaspettatamente a Londra per un altro caso. Il suo amico Bouc, direttore dell'Orient Express, gli offre una cabina sul suo treno, ma non tutto il viaggio scorre in modo tranquillo. Samuel Ratchet (Johnny Depp), un gentiluomo americano, viene pugnalato nel suo scompartimento. Inoltre, il treno rimane bloccato dalla neve e tra i presenti si fa largo il sospetto che l'assassino non abbia mai lasciato il treno e si nasconda ancora tra i viaggiatori dell'Orient Express. Hercule Poirot deve indagare e trovare il colpevole.
Dopo il film Assassinio sull'Orient Express del 1974, diretto da Sidney Lumet con Albert Finney, Ingrid Bergman e Lauren Bacall, Kenneth Branagh interpreta, dirige e co-produce una versione più moderna (con effetti digitali) e più appariscente; con un Hercule Poirot sempre geniale ma eccentrico (nei modi ma anche nel look, con baffoni extralarge) e con strani personaggi che affollano il treno: il misterioso (Johnny Depp), la fanatica religiosa (Penelope Cruz), la seduttrice (Michelle Pfeiffer), la dolce maestrina di geografia (Daisy Ridley), la rigida principessa russa (Judi Dench), il dottore discriminato per il colore della pelle (Leslie Odom Jr).
Quando avverrà l'omicidio di Ratchet i personaggi si riveleranno per ciò che sono realmente; crescerà la suspense e lo spettatore resterà con il fiato sospeso fino alla fine, quando scoprirà chi è l’omicida. Inoltre, resterà stupito dalle inquadrature. Infatti, Branagh mitiga l'ambientazione "claustrofobica" (cabine e corridoi stretti) utilizzando sia riprese dall’alto, che mostrano le carrozze e il corpo martoriato dalle coltellate di Ratchet, sia riprese dei corridoi in lungo, seguendo da destra o sinistra e mostrando anche una carrellata esterna del treno. Oltre alle inquadrature si rimane colpiti dalle splendide sequenze panoramiche, dalle scene d'azione (un inseguimento tra le strutture di un ponte) e dal cast, composto da famose stelle di Hollywood: Johnny Depp compare per dieci minuti entrando finalmente nelle vesti di un uomo "normale", dopo i personaggi sopra le righe interpretati precedentemente.
Michelle Pfeiffer torna dopo anni sul set ma la sua bravura è rimasta intatta, Daisy Ridley é un'ottima scoperta e Kenneth Branagh é perfetto nei panni dell'estroso Poirot a cui conferisce anche delle sfumature drammatiche. Tutti i passeggeri sono sospettati e la fine, che viene mostrata attraverso degli eleganti flashback in bianco e nero, è sconvolgente perché emerge dal passato una storia inquietante che fa venire i brividi. Assassinio sull'Orient Express è un film che consigliamo a tutti, soprattutto a chi non ha letto il libro o visto il film del 1974 perché ne rimarrà piacevolmente colpito.
Foto tratte da:
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PAESE: Canada
ANNO: 2009 GENERE: storico, drammatico DURATA: 77’ REGIA: Denis Villeneuve SCENEGGIATURA: Jacques Davidts (con la collaborazione di Denis Villeneuve e Éric Leca) CAST: Maxim Gaudette, Sébastien Huberdeau, Karine Vanasse COLONNA SONORA: Benoît Charest PRODUZIONE: Maxime Rémillard, Don Carmody, Karine Vanasse
Un bianco e nero tagliente che ci mostra le fattezze di una grande sala, gremita di studenti intenti a riordinare appunti e fotocopiare rapidamente pagine e pagine di materiale. Le operazioni si susseguono meccaniche, segno di una routine che pare immutabile. Poi accade l’impensato. Spari d’arma da fuoco. Una ragazza in primo piano, china sulla fotocopiatrice cade a terra. Urla, sangue, panico. In un attimo la sala si trasmuta in un caos di corpi terrorizzati, alla ricerca disperata di un riparo.
Polytechinque è il terzo lungometraggio di Denis Villeneuve, regista canadese che negli ultimi anni ha firmato la regia di titoli del calibro di Prisoners, Sicario, Arrival e perfino del proibitivo remake Blade Runner 2049.
Il film canadese è stato prodotto nel 2009, sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti al dramma che ha avuto luogo il 6 Dicembre 1989 nella scuola politecnica di Montréal, quando il venticinquenne Marc Lépine uccise a colpi d'arma da fuoco quattordici studentesse, per poi togliersi la vita. Dopo l’incipit dirompente del momento della violenza, la narrazione fa un passo indietro e ci mostra il malessere dell’assassino. Mediante un suo monologo, trascritto su una lettera prima della strage e narrataci dalla sua voce fuori campo, veniamo a conoscenza dei motivi di un tale gesto, che sono da ricondursi alla questione femminista. Le ragioni del massacro risiedono dunque, nelle parole dell’assassino, in un tentativo di difendersi dal femminismo imperante.
La linea temporale del racconto è spezzata, intreccia i vari momenti del dramma, le sue premesse e le sue conseguenze senza una linearità definita.
Così conosciamo Valerie, studentessa di ingegneria meccanica, che deve lottare con una rete di pregiudizi che vorrebbe tale professione un’occupazione non adeguata alle donne, e che vive sulla sua pelle le frustrazioni della discriminazione: emblematico il colloquio con il datore di lavoro.
Jean-Francois è un altro personaggio centrale, uno studente che ha assistito in prima persona alla strage e che si è salvato soltanto perché maschio. Il ragazzo, che pure ha cercato di aiutare i feriti, è attanagliato dai sensi di colpa.
In questa differenza esistenziale, in quell’abisso che scorre fra Valerie e il killer si snoda il racconto di Polytechinque. Mostrandoci le atrocità delle azioni omicide e soprattutto le difficoltà e i sensi di colpa dei sopravvissuti al dramma, la difficoltà di ricominciare e l’impossibilità di dimenticare. Il film è asciutto, crudo, duro. Mostra la violenza senza compiacimento, con un taglio quasi documentaristico.
Polytechnique è un film essenziale, coraggioso che va a sondare i lati oscuri della modernità occidentale, svelandoci la misoginia latente che si annida dove nessuno osa pensare e fornendo qualche elemento di riflessione sull’egemonia culturale che gli uomini ancora infliggono alle donne. Perché come dice Valerie in una scena del film”. Se avrò un bambino gli insegnerò ad amare. Se avrò una bambina le dirò che il mondo è suo”.
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PAESE: Regno Unito, Stati Uniti
ANNO: 2017 GENERE: storico, drammatico STAGIONE: 2 EPISODI: 10 DURATA: 51 - 61 min IDEATORE: Peter Morgan REGIA: Philip Martin, Benjamin Caron, Philippa Lowthorpe, Stephen Daldry SCENEGGIATURA: Peter Morgan, Amy Jenkins, Tom Edge CAST: Claire Foy, Matt Smith, Vanessa Kirby, Eileen Atkins, Jeremy Northam, Jared Harris, Alex Jennings, Matthew Goode, Anton Lesser, Michael C. Hall, Jodi Balfour MUSICHE: Hans Zimmer, Rupert Gregson-Williams PRODUZIONE: Left Bank Pictures, Sony Picture Television Production UK
I cancelli dorati e le decorate porte di Buckingham Palace si riaprono accogliendo nel labirintico e controverso mondo della monarchia britannica tutti gli appassionati ma anche semplici curiosi. La regina, quella per antonomasia, torna a essere assoluta protagonista in quell’affollato ma fortunato palazzo che si chiama Netflix. Lo scorso 8 dicembre, The Crown è approdato sulla piattaforma statunitense di streaming con la sua seconda stagione portando con sé eleganza, precisione e un fascino invidiabile, estremamente raro quanto irresistibile. Ideata da Peter Morgan nel 2014, questa serie, con un insolito mix tra dramma, storia e anche un pizzico di intrigo, ha saputo conquistare anche gli spettatori meno avvezzi a questo genere.
Il primo capitolo di questa saga regale ha narrato i primi passi di Elisabetta II, le inattese svolte della linea di successione e gli eventi che hanno scritto il suo destino. Intorno a lei, però, è cresciuta appassionando una splendente costellazione di personaggi secondari: ognuno con le sue ambizioni e paure. Nella seconda stagione viene esplorato il secondo decennio del regno di Elisabetta con nuovi personaggi, avvenimenti e problemi. La grande sfida, però, rimane la stessa: coinvolgere e appassionare raccontando un passato che spiega il presente e il futuro.
Più ombre che luci per una monarchia, una classe politica e un’intera nazione che tra gli anni Cinquanta e Sessanta vivono una profonda crisi. L’impero britannico non possiede neanche più l’ombra della leggendaria potenza di un tempo e le tensioni internazionali tra paesi ex-alleati minano ulteriormente la solidità di un’istituzione secolare. Si parte, quindi, con la forte tensione per il controllo del canale di Suez e si conclude con lo scandalo Profumo, attraversando un’epoca storica di forti cambiamenti per ogni aspetto della società.
The Crown, tuttavia, pone un forte accento sulle ripercussioni di questi diversi eventi sul lato privato di Elisabetta (Claire Foy), continuamente attaccata, anche in modo veemente, per le sue scelte e i suoi atteggiamenti, spesso conditi da pura ingenuità. La sua crescita viene scandita da incontri illustri che spesso si tramutano in veri e propri confronti sul piano personale. Iconica la visita dei Kennedy a palazzo: la figura versatile e fresca di Jackie Kennedy è contemporaneamente una minaccia e uno stimolo per una pensierosa regina.
Il più grande pregio di questo secondo capitolo, oltre a una cura e qualità impressionanti a livello tecnico, è una sceneggiatura coerente e fluente capace di dare respiro a ogni voce della storia, mostrando non solo la prospettiva della regina ma soprattutto quella, spesso contrastante, dei personaggi a lei vicini. Si distinguono, in particolare, Matt Smith e Vanessa Kirby, nei panni di Filippo di Edimburgo e della principessa Margaret, due figure cruciali che vengono ampiamente approfondite in questa stagione. Ottima anche la new entry Matthew Good, volto del primo marito di Margaret, ammaliante con il suo fascino ribelle e anticonformista. La narrazione, quindi, lascia più spazio ai comprimari ma non per questo penalizza una Claire Foy strepitosa che trasmette tutto il suo conflitto emotivo con piccoli e semplici sguardi ed espressioni. Meritatissima la sua nomination ai prossimi Golden Globes.
Le ultime sequenze indugiano malinconicamente su una coppia e una famiglia di interpreti che ha emozionato il pubblico del piccolo schermo negli ultimi due anni. Il testimone, per le prossime stagioni, passa a nuovi attori, tra cui la promettente Olivia Colman nei panni della regina. Sapranno reggere il peso delle responsabilità della corona? Foto tratte da: Immagine 1: www.showbizjunkies.com Immagine 2: www.showbizjunkies.com Immagine 3: www.fashionista.com
Rian Johnson riporta l’equilibrio nella galassia Star Wars con il suo coraggioso episodio VIII, approdato nelle sale italiane il 13 dicembre. ![]()
Titolo originale: Star Wars: The last Jedi
Paese di produzione: USA Anno: 2017 Durata: 152’ Genere: fantascienza, azione Regia: Rian Johnson Sceneggiatura: Rian Johnson Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures Fotografia: Steve Yedlin Montaggio: Bob Ducsay Effetti speciali: Chris Corbould Colonna Sonora: John Williams Scenografia: Rick Heinrichs Cast: Mark Hamill (Luke Skywalker); Carrie Fisher (Leia Organa); Adam Driver (Kylo Ren); Daisy Ridley (Rey); John Boyega (Finn); Oscar Isaac (Poe Dameron); Andy Serkis (Leader Snoke)
Avevamo lasciato la nostra Rey (Daisy Ridley) fissare con uno sguardo carico di speranza gli occhi di un Luke Skywalker (Mark Hamill) invecchiato e scarno. In passato, il leggendario guerriero aveva tentato di rifondare i Cavalieri Jedi ma, in seguito alla tragedia che ne è derivata, decide allontanarsi dalla galassia e di stabilirsi sul pianeta Ahch-To per condurre un’esistenza umile. L’incontro con la giovane eroina della saga scatenerà in lui qualcosa, il vecchio eroe dovrà fare una scelta e dovrà farla alla svelta, visto che il Primo Ordine, capitanato dal malvagio Leader Supremo Snoke (Andy Serkis), è pronto a liberarsi una volta per tutte della Resistenza e del Generale Leia Organa (Carrie Fisher).
Rian Johnson, con Gli ultimi Jedi, secondo capitolo della terza trilogia di Star Wars, che arriva finalmente in sala dopo un’attesa di due anni, ha diretto un film molto coraggioso. Un film che spiazza e rompe tutti i taboo della mitologia Starwarsiana, sia con un umorismo non sempre opportuno, sia con il totale rovesciamento di alcuni personaggi considerati iconici, come appunto il nostro Luke, che per gran parte della pellicola preferisce ostacolare Rey. Lo stesso attore Hamill ha dichiarato di aver apprezzato molto l’originale scelta del regista e di aver avuto non poche difficoltà a calarsi nei panni del nuovo Luke, un personaggio che non finisce di stupirci. In questo nuovo capitolo della saga ci troviamo di fronte a dei protagonisti che devono fare diverse scelte per compiere il proprio destino. Il coraggio, la paura e il desiderio di libertà si fondono in un mix di emozioni davvero inaspettato. Possiamo sicuramente affermare che tra i capitoli precedenti questo è quello che si avvicina senza dubbio di più all’Impero colpisce ancora.
Un episodio più intenso, più maturo, dove le scene d’azione sono sapientemente centellinate per fare spazio ai sentimenti dei protagonisti. Non si può non parlare della performance di Adam Driver nei panni del villain Kylo Ren. Il cattivo ragazzo che ha ucciso il padre Solo fa i conti con il suo passato e sceglie la strada della maturità. Il tentativo di emulare Darth Vader scade miseramente, l’età adulta prende il sopravvento, il lato oscuro sceglie la via della consapevolezza e Johnson sfrutta al meglio le doti attoriali di Driver. Contemporaneamente possiamo ammirare la crescita di due personaggi: Finn (John Boyega) e Poe Dameron (Oscar Isaac). Il primo sembra trovare il suo ruolo all’interno della resistenza e ce la mette tutta per far trionfare il bene, mentre il secondo accetta a caro prezzo che a volte il coraggio non basta. Bisogna fare i conti con la responsabilità e il senso del dovere, ogni vittima pesa maledettamente in questo episodio. Poe sarà guidato da una grandissima Carrie Fisher. Il film è un omaggio all’attrice che ci fa ridere e commuovere, la principessa Leia non è mai stata così bella. Da segnalare il dialogo tra quest’ultima e Luke quasi alla fine del film, un'esplosione di emozioni che non lascerà indifferenti i veri fan. Molti fan storceranno il naso, altri rimarranno delusi a causa dei tanti quesiti non ancora svelati, ma questo Star Wars Episodio VIII ci ha convinto.
Il regista traccia una linea con il passato e ci introduce a un nuovo tipo di saga: la galassia è in fermento e sta inevitabilmente cambiando. Nonostante un ritmo non sempre veloce e dinamico il film è diretto bene, ottimo i nuovi innesti all’interno del cast ed è inutile dare un giudizio agli effetti visivi: semplicemente pazzeschi. Sinceramente non vediamo l’ora di vedere il capitolo IX per comprendere e lasciarci affascinare dalle molteplici vie della forza.
Foto tratte da:
Locandina: cineblog.it Immagine 1: Disney.it Immagine 2: tgcom24 Immagine 3: TheGamesMachine.com Immagine 4: Phaidon.com
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Genere: Commedia,
Anno: 2016 Regia: Makoto Shinkai Attori: Ryûnosuke Kamiki, Mone Kamishiraishi, Ryô Narita, Aoi Yuki, Nobunaga Shimazaki Sceneggiatura: Makoto Shinkai Musiche: Radwimps, Yō Yamada Produzione: Comix Wave Films Distribuzione: Nexo Digital Paese: Giappone Durata: 107’
Il grande contenitore dell’animazione cinematografica si può dividere in due macrocategorie: da una parte ci sono quei film che si basano sull’innovazione tecnologica e sulle ultime meraviglie digitali che permettano di plasmare un mondo di poligoni in tre dimensioni sempre più vicini alla realtà sensibile; dall’altra parte troviamo quelle opere che non fanno niente per nascondere il loro legame col disegno e con le arti pittoriche, utilizzando i frame del video come fossero singole tele da dipingere. Your Name, l’ultimo lavoro di Makoto Shinkai, rientra a piena regola nella seconda specie.
Uscito in Giappone nel 2016, il film ha riscosso un successo incredibile tanto che in molti hanno voluto accostare il suo autore niente meno che a sua maestà Hayao Miyazaki. La trama è incentrata su uno scambio di anime e corpi. Mitsuha una ragazza che vive a Itimori, un paesino di montagna, sogna di essere un ragazzo che abita a Tokyo. Taki, studente di liceo che lavora come cameriere in un ristorante di Tokyo, sogna di essere una ragazza che vive in un piccolo centro in montagna, nei pressi di uno splendido lago. Dopo poco i due capiscono che i propri sogni sono reali e iniziano a lasciare le tracce l’uno nella vita dell’altra, scrivendo appunti su pezzi di carta o note sul cellulare.
Questo “scambio” prosegue fino a che Taki non riesce più a scambiare il suo corpo con Mitsuha e allora decide cercarla, senza sapere dove abita, basandosi solamente sulle immagini dei luoghi percepiti nei sogni. Tutto ciò mentre una cometa sta per raggiungere il punto di maggior vicinanza con la terra e la sua scia luminosa sarà ben visibile da tutto il Giappone.
È uno stile raffinato e insieme potentissimo quello elaborato da Makoto Shinkai, che ci permette, tramite un piccolo movimento nella postura o il lieve mutare di un’espressione, di empatizzare con i personaggi, di capire i loro tormenti e di farci provare emozioni forti.
La narrazione delle varie sequenze non procede linearmente e il continuum spazio temporale è frammentato dallo stile del racconto. Il montaggio intreccia tempi diversi in un'unica trama in accordo col concetto di tempo presentato all’interno del film: un “tessuto” che accoglie diversi fili che si aggrovigliano e si staccano e si ricongiungono in misteriose configurazioni.
Per concludere: Your Name è una storia d’amore che parte da una situazione già vista ma si sviluppa in maniera unica, con dei personaggi che hanno un corpo e un’anima nonostante siano disegnati. Ma oltre la storia di Taki e Mitsuha questo film è un grande affresco del Giappone, in grado di farci percepire la sua bellezza, le sue contraddizioni e i suoi misteri. Il tutto in una veste stilistica grandiosa, in grado di lasciar trasparire la vita sotto il disegno.
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Regia: Stefano Alpini
Cast: Luca Lionello, Sergio Albelli, Francesco Turbanti, Guenda Goria, Ludovica Bizzaglia, Lorenzo Alessandri, David Riondino, Paolo Benvenuti, Paolo Cioni, Cristina Gardumi, Sergio Sarubbi Sceneggiatura: Paolo Serbandini, Giovanna Massimetti, dal romanzo omonimo di Giuseppe Pontiggia Fotografia: Antonio De Rosa Montaggio: Marco Guelfi Scenografia: Elvira Todaro Costumi: Lucia Castellana Produttore: Stefano Alpini, Maria Elena Bianchi Bandinelli, Francesco Monceri Produzione: Polis, con il contributo del MiBACT, con il sostegno di Toscana Film Commission Distribuzione: Ambi Media Italia [Italia] Paese: Italia Anno: 2016 Durata: 100'
Un clima guardingo e di sospetto pervade Il giocatore invisibile di Stefano Alpi, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Pontiggia. Interamente girato a Pisa, tra la Scuola Normale e le strade della cittadina toscana, al centro della vicenda troviamo il professor Nari (Luca Lionello), docente di letteratura comparata, verso il quale è indirizzato un articolo anonimo all’interno della rivista accademica Ateneo.
L’affermato professore è oggetto di un attacco nei confronti del suo “elogio al tradimento” in cui un autore anonimo, probabilmente un accademico, prende in esame l’errata interpretazione de Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard da parte del docente. Il regista francese si ispirò infatti all’omonimo romanzo di Alberto Moravia (1954) per realizzare un’opera filmica, del tutto indipendente dalla prima. Del film, attraverso i propri studi, il professore realizza una esegesi che però tradisce il senso dell’opera nella sua trasposizione filmica in italiano. Da qui, l’interessante espediente di far spazio a un concetto lato di tradimento, che non investe esclusivamente il piano della ricerca e della fedeltà all’opera, ma che attiene la sfera reale e le relazioni umane che attraversano l’orizzonte entro cui l’uomo è inserito. Atmosfere inquiete e sospettose in uno dei pochi film italiani in cui si guarda al mondo accademico, alle complesse e molto poco meritocratiche dinamiche interne e alla vita apparentemente irreprensibile di un fascinoso cattedratico. Costretto dagli eventi ad abbandonare la sicurezza della torre d’avorio della propria cattedra, Nari intraprende un percorso di ricerca in solitaria per dare un volto alla penna che ha minato il proprio prestigio e la credibilità di affermato docente.
Un mondo spietato, quello accademico, in cui nessuno sfugge al dubbio e al sospetto e un itinerario in cui, incontrando molti personaggi, Nari inciamperà sempre e solo in se stesso e nella propria solitudine. Spazi ampi e dilatati nelle splendide inquadrature dall’alto della città che fa da sfondo allo smarrimento emotivo del professore, ingoiato in un vortice di confusi sospetti che spogliano l’effimera apparenza delle relazioni umane che, annoiato, trascina nel tempo.
Un film molto parlato, in cui alcune scene avvengono su mezzi di trasporto come l’autobus o il treno: tutto cambia, scorre, si muove e in fondo l’unica certezza è di essere sempre traditi o traditori, degli altri e di se stessi, delle proprie idee, dei propri valori. Un senso di sottile e impotente insoddisfazione aleggia nel corso della pellicola, pervasa da un’atmosfera noir, quasi un giallo, merito anche delle musiche realizzate da Manfred Giampietro, direttore d’orchestra dell’ateneo pisano. Una pellicola che si conclude in modo inusuale, con l’inserimento di uno spezzone documentaristico in cui Godard fornisce un’insolita interpretazione sociologica del senso della parola SMS: in un’epoca in cui conta la brevità del messaggio, lo short message è un grido di aiuto, il cui senso è salva la mia anima. Il film low budget è stato realizzato grazie al finanziamento della Direzione Cinema del MiBacT (film riconosciuto d’interesse culturale) e del Fondo Cinema della Regione Toscana. Attualmente in concorso al NICE New Italian Cinema Events Festival di Russia e Usa, ha ottenuto numerose onorificenze come Miglior Film al Salento International Film Festival 2016, lo Special Jury Award al WorldFest di Houston 2016 e il Nice International Film Festival 2016.
Vi raccontiamo dell’incredibile e affascinante documentario disponibile su Netflix dal 17 novembre. Un viaggio nella folle performance di Jim Carrey che interpreta il mitologico comico Andy Kaufaman.
Jim e Andy (Jim & Andy: The Great Beyond – Featuring a Very Special, Contractually Obligated Mention of Tony Clifton) è un documentario diretto da Chris Smith e incentrato sul dietro le quinte della straordinaria performance di Jim Carrey in Man on the Moon, sontuoso biopic di Milos Forman del 1999 in cui l’attore diede vita a un appassionato e sfrenato ritratto dell’irriverente comico statunitense Andy Kaufman. Il documentario è stato realizzato integrando immagini d’archivio e interviste allo stesso Jim Carrey con diverse ore di backstage del sopracitato film, che testimoniano l’impressionante livello di immersione raggiunto dall’attore, che ha messo letteralmente da parte se stesso per la durata delle riprese per diventare il personaggio da lui interpretato. Jim e Andy è stato presentato fuori concorso alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed è disponibile su Netflix a partire dal 17 novembre.
Più che un backstage di un memorabile e sottovalutato film, Jim e Andy è il bizzarro, sorprendente e a tratti commovente racconto della totale metamorfosi di Jim Carrey in Andy Kaufman, capace di spiazzare e indispettire gli altri addetti ai lavori e di sconvolgere lo stesso attore, che racconta tutti i suoi turbamenti e le difficoltà nel ritrovare la propria reale personalità dopo un’opera di tale dedizione. Il regista Chris Smith si mette da parte, rinunciando a qualsiasi svolazzo o pretesa autoriale per lasciare che a raccontare siano le parole di Jim Carrey e le immagini della lavorazione di Man on the Moon, che con il passare dei minuti diventano un vero e proprio trattato sul mestiere dell’attore e in particolare del comico, costantemente a rischio di perdere la propria identità fra le varie maschere che è costretto a indossare.
Assistiamo così allo sconcertante e grottesco lavoro di Jim Carrey, che ha scelto di vestire i panni di Andy Kaufman e del suo alter ego Tony Clifton non solo davanti alla macchina da presa, ma anche e soprattutto nelle pause e nelle lunghe sessioni di trucco, disorientando, provocando e importunando i propri colleghi come era solito fare il defunto comico, in un parallelo fra vita e imitazione che assume connotazioni sempre più sorprendenti e a tratti inquietanti, fra le risate delle truccatrici e la disperazione del regista Milos Forman, incapace di comunicare e dare direttive anche solo per pochi minuti al reale Jim Carrey.
Jim e Andy non è soltanto il racconto di una sorprendente storia di cinema e di professionalità, ma anche una toccante discesa nei meandri più nascosti della personalità del Jim Carrey interprete e uomo, che si concede con grande sincerità e trasparenza alla discreta telecamera di Chris Smith. Non mancano infatti incisivi excursus sui passaggi più significativi dell’attore. Jim e Andy è un appassionante e travolgente documento sulla stupefacente lavorazione di una strepitosa pellicola come Man on the Moon, ingiustamente lasciata cadere nel dimenticatoio dal pubblico e da buona parte della critica, ma anche una struggente testimonianza dell’evanescente limite fra la realtà e la finzione che Jim Carrey riesce a piegare alla sua volontà, al punto da rendere impossibile capire dove finisce la sua personalità e comincia quella dell’istrionico Andy Kaufman o del suo arrogante alter ego Tony Clifton. Un reperto imperdibile per ogni cinefilo, lasciato in naftalina per quasi 20 anni dalla Universal per timore di rovinare l’immagine del film, ma fortunatamente riportato alla luce dal coraggio e dall’amore per il proprio pubblico di Netflix.
Link Immagini: Locandina: www.filmtv.com Immagine 1: www.indiewire.com Immagine 2: www.Variety.com Immagine 3: TheHollywoodReporter.com Immagine 4: NewOk.com
Paese: Regno Unito
Anno: 2012 – in produzione Genere: drammatico, in costume Stagioni: 6 Episodi: 51 Durata: 60 min (episodio) Ideatore: Heidi Thomas Interpreti e personaggi: Jessica Raine (Jenny Lee), Miranda Hart (Chummy Browne), Bryony Hannah (Cynthia Miller), Helen George (Trixie Franklin), Jenny Agutter (Suor Julienne), Pam Ferris (Suor Evangelina), Laura Main (Suor Bernadette/Shelagh Turner), Judy Parfitt (Suor Monica Joan), Cliff Parisi (Fred), Stephen McGann (Dottor Turner), Ben Caplan (Peter Noakes), Max Macmillan (Timothy Turner), Victoria Yeates (Suor Winifred), Jack Ashton (Tom Hereward), Emerald Fennell (Patsy Mount), George Rainsford (Jimmy), Dorothy Atkinsona (Jane Sutton), Leo Staar (Alec Jesmond), Jake Bailey (Jack Smith), Vanessa Redgrave (Jenny Lee anziana\Narratrice). Anni 50. Nel quartiere East End, povero e devastato dalla guerra, arriva per lavorare nel convento Nonnatus una nuova levatrice, Jennifer Lee, ragazza fresca di diploma da ostetricia, abituata alla vita borghese e piuttosto introversa. La ragazza stringe sin da subito un legame con le sue colleghe: Trixie, ragazza carina, ma svampita, Cynthia, ribelle ma timida e Chummy, ragazza goffa e anch'essa nuova. Jenny fa anche la conoscenza di tutte le suore che si troveranno a collaborare con lei e si scoprirà che la ragazza non si è trasferita per la mancanza di lavoro, ma per una delusione d’amore. Subito si scontrerà con l'ambiente povero e poco igienico della zona, ma la passione per il suo lavoro l'aiuterà a superare molti ostacoli.
L'amore e la vita - Call the Midwife è una serie TV britannica prodotta dalla BBC; attualmente le stagioni sono disponibili su Netflix (ad eccezione della sesta, reperibile in streaming). La serie si basa sulle memorie di Jennifer Worth raccontate nel libro "Chiamate la levatrice", primo volume di una trilogia con aggiunta di nuove vicende basate su fonti storiche. Se amate i medical drama come Grey's Anatomy e i serial in costume come Downton Abbey non perdetevi Call the Midwife! Infatti, questa serie racconta in modo realistico, meticoloso, scientifico ed esplicito la maternità; le levatrici intervengono spesso in situazioni sfavorevoli. All'epoca le condizioni di vita delle donne erano molto difficili, non si fidavano della medicina e non gradivano le visite a casa per preparare l'ambiente al parto. Non manca però l'ottimismo e la dolcezza delle levatrici che spesso riescono a smontare le reticenze delle partorienti e ad aiutarle nel lieto evento.
A volte, però, non tutte le storie hanno un lieto fine. La maternità è affrontata sotto tutti gli aspetti: dal concepimento alla gestazione fino al parto, dove i bambini nascono in modo molto realistico (alcune scene sono forti). A proposito di realismo, anche l'ambientazione, i costumi e il contesto storico sono rappresentati in maniera perfetta, si apprendono i progressi non solo in campo medico dell'Inghilterra del Dopoguerra ma anche la tortuosa strada che porterà all'emancipazione femminile e, nelle stagioni successive, verrà affrontata anche la violenza sulle donne. Facile bollarla come una serie femminista e rivolta esclusivamente a un pubblico femminile, tuttavia, Call the Midwife è rivolta a un pubblico eterogeneo, curioso di scoprire un mondo diverso dal nostro nonostante non sia così lontano nel tempo e pronto a emozionarsi e a commuoversi per delle storie vere. Questo accade grazie ai personaggi della serie, interpretati magnificamente da tutto il cast, dalla protagonista Jessica Raine a Miranda Hart che interpreta Chummy (per quella sua interpretazione ha vinto svariati premi), per non parlare di Judy Parfitt nel ruolo di Suor Monica, donna di fede poco dedita alle regole. È una serie tv da non perdere!
FOTO TRATTE DA: https://i.pinimg.com/ http://www.discorsivo.it/ http://www.bestserial.it/ |
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Marzo 2023
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