La Recensione
di Matelda Giachi
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Genere: Drammatico
Anno: 2019 Durata: 122 min Regia: Michael Engler Cast: Hugh Bonneville, Laura Carmichael, Jim Carter, Brendan Coyle, Michelle Dockery, Kevin Doyle, Joanne Froggatt, Matthew Goode, Robert James-Collier, Allen Leech, Phyllis Logan, Elizabeth McGovern, Sophie McShera, Lesley Nicol, Penelope Wilton, Maggie Smith, Imelda Staunton Sceneggiatura: Julian Fellowes Fotografia: Ben Smithard Montaggio: Mark Day Produzione: Carnival Film & Television, Focus Features Distribuzione: Universal Picture Paese: Gran Bretagna
A quasi tre anni dalla chiusura della serie tv, si torna a Downton Abbey. Siete tutti invitati.
Non una nuova serie ma un film destinato al grande schermo. Se ne è vociferato a lungo, finché, in un attimo, non è diventato reale. Per la gioia dei fans nostalgici ma forse anche di un cast che non vedeva l’ora di ritrovarsi. Per riunire di nuovo tutti sotto l’ampio tetto di Downton serviva una buona idea; una scusa. Ed è così che, con una lettera, le loro maestà di Inghilterra annunciano alla famiglia Crawley che avranno l’onore (e l’onere) di averli come ospiti per una notte. Un espediente narrativo per riprendere quello che la serie ha sempre saputo fare in maniera eccellente: raccontare l’intrecciarsi di rapporti umani e sociali a diversi livelli della scala sociale. Uno studio antropologico meticoloso e raffinato.
La sceneggiatura è semplice ed è un pregio. Troppo spesso oggi ci si convince del fatto che un film, per essere bello, debba essere intellettualmente contorto, difficilmente comprensibile ai più e magari indurre anche almeno tre diverse sfumature di sofferenza sennò non siamo abbastanza profondi. Downton Abbey ci ricorda invece il gusto di farsi raccontare una storia, il piacere del cinema come forma d’arte e amore per la bellezza. Dramma e ironia; profondità e leggerezza sono in perfetto equilibrio tra loro. L’eleganza non è solo nei cambi d’abito tra un pasto e l’altro delle sorelle Mary ed Edith, ma in ogni aspetto della realizzazione.
Da un punto di vista attoriale, un’opera di gruppo in cui ognuno ha il suo momento. Tornano tutti ad eccezione di Lily James, si aggiunge invece Imelda Staunton, la Dolores Umbridge di Harry Potter, nella vita moglie di Jim Carter. Un cast tra i cui membri la sintonia è tangibile, facendo da valore aggiunto a delle interpretazioni impeccabili che rispecchiano una formazione teatrale di alto livello e tra le quali è quasi impossibile indicare un più bravo. Forse solo all’intramontabile Maggie Smith possiamo riconoscere il merito di svettare su tutti mentre, con la sua lingua tagliente, nei panni di Lady Violet, è responsabile della gran parte delle risate in sala.
Un’opera densa di romanticismo con quel po’ di nostalgia nei confronti di un tempo passato che però non è rivolto tanto al cosa veniva vissuto quanto al come. In particolar modo all’onore e all’orgoglio con cui ognuno viveva il proprio ruolo, indistintamente dal lord al domestico. All’amor proprio e al rispetto di sé. Al valore di uno sguardo, di un gesto, uno scambio di sorrisi, un bacio.
Ma soprattutto Downton Abbey è un trionfo di estetica: ogni fotogramma è come una fotografia o un dipinto d’autore che compete solo con l’accuratezza nella ricostruzione dei costumi. La musica, una cornice. “Perfect perfection” è la definizione che qualcuno ha dato in conferenza stampa a Roma all’esecuzione del film. Definizione che Jim Carter, interprete dell’integerrimo e un po’ burbero dal cuore grande Mr. Carson, ha sposato e a cui noi ci accodiamo. Voto: 9
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Marzo 2023
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