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14/6/2020

EMA: la recensione

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di Salvatore Amoroso
Pablo Larraín torna in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con Ema, racconto di una ragazza ai limiti della psicosi e del suo tentativo di costruire una famiglia, anche al di là non solo della società ma del pensiero comune. Frammentato e spezzettato ne viene fuori un racconto più programmatico che sincero, e meno in grado di scavare in profondità nell’umano.
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​Genere: drammatico                               
Anno: 2019
Regia: Pablo Larrain
Attori: Mariana di Girolamo (Ema), Gael García Bernal (Gastón), Paola Giannini (Raquel) Santiago Cabrera (Aníbal), Cristián Suárez (Polo).
Sceneggiatura: Guillermo Calderon, Pablo Larrain, Alejandro Moreno
Fotografia: Sergio Armstrong
Musiche: Nicolas Jaar
Montaggio: Sebastian Sepulveda
Distribuzione: Movies Inspired

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 Dopo Jackie l’ottimo Pablo Larraín torna in Cile, a Valparaiso, dove si svolgono le peripezie di Ema, presentato in Concorso alla Mostra di Venezia. Soprattutto, però, Larraín torna a raccontare un club di psicotici in una commedia stordente e frastornante. Le psicopatologie interessano da sempre il regista cileno, che le ha messe in scena per parlare della dittatura (Tony Manero, Post Mortem) e per raccontare le deformazioni psichiche implicate nel potere o negli effetti della sua violenza dogmatica (Il Club). Larraín ambienta invece il suo ultimo film nel Cile contemporaneo e in un contesto underground, un po’ punk e sfacciato, ma tutto sommato in una società libera e non più schiacciata dal terrore degli anni bui. È proprio in questa società, finalmente schizoide alla stregua di ogni altra democrazia, che il regista riesce a raccontare per la prima volta le dinamiche di potere nelle relazioni affettive e forse a prefigurare, ma sarà lo spettatore a decidere, la possibilità di nuovi legami, famiglie, connessioni amorose.
 
In Ema tutti i personaggi sono, infatti, più o meno consapevolmente bipolari dunque responsabili di dover trovare un equilibrio tra il desiderio e il dovere, tra la pulsione e la conservazione. Tutti tranne Ema, almeno così parrebbe. Ema (Mariana Di Girolamo) è, in ogni caso, una giovane donna che si affida poco al raziocinio preferendogli pulsioni e istinti. Fin troppo didascalico, ma furbescamente efficace per dare alle scene una certa “spettacolarità”, è il fatto che Ema sia una ballerina e la danza, come il sesso, sia espressione erotica di questa ragazza continuamente eccitata e soprattutto eccitante. Il film si apre però con i toni del dramma domestico: la fanciulla ha infatti restituito ai servizi sociali il bambino di 6 anni che aveva adottato assieme al marito, il coreografo sterile Gastòn (Gael García Bernal) che infatti non è un danzatore ma un “regista” di danzatori. Il piccolo aveva combinato un bel casino e, tra le altre cose, aveva dato fuoco ai capelli della sorella di Ema ustionandole la faccia. Senza porsi troppe domande, i due non se la sono sentita di proseguire nell’educazione del pargolo ma allo stesso tempo nei primi minuti del film non smettono di rinfacciarsi pesantemente colpe. E di dolersi per il fatto di non avere più un figlio, in dialoghi spezzettati, tutti in primi piani frontali e senza raccordi che fotografino uno spazio comune.  
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​I due componenti, un marito e una moglie che Ema avvicinerà separatamente per realizzare il proprio disegno, sono i nuovi genitori adottivi del suo ex figlio. E sono incompiuti nel matrimonio, che ha significato conforto regolato ma pure sacrificio di parti significative di sé: anche loro sono bipolari e schizoidi, giunti a compromessi con le loro nature sessuali e desideranti. È su questo che farà leva Ema per gettare l’edificio famigliare nel caos. Ema è la visceralità sincera, autentica senza mediazioni che nessun altro ha il coraggio di vivere. Ma siamo sicuri che sia così? Chi è, infatti, questa donna?  Nelle risposte a queste domande, che Larraín lascia parzialmente aperte, sta la scelta dello spettatore rispetto a come porsi nei confronti del personaggio, della “morale” del film e anche, perché no, della propria soglia di compromesso tra pulsione animale e regola sociale. Il dialogo centrale di Ema è quello tra Gastòn ed Ema: Bernal/Gastòn dice alle donne che è un ballo che le umilia (riferendosi al raggaeton), facendole dimenare per eccitare gli uomini, e le riporta indietro di decenni rispetto alla dignità femminile. Le donne ribattono che quella danza è sessuale, è orgasmo, e che l’orgasmo è vita. Che lui stesso è nato da un orgasmo: senza il godimento non c’è nulla e loro sono portatrici di godimento. Larraín ci sbatte in faccia questa contrapposizione senza dirimere la questione ma ponendo una serie di domande certamente non banali. Tra cui, per esempio, quella dello sfruttamento consapevole del corpo femminile per acquisire potere e “fottere” il maschile.
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​Ema è, senza alcun dubbio, un film che obbliga a prendere posizione laddove fornisce più di una lettura possibile. I problemi però ci sono e di vario ordine: contenutistici e formali. Larraín non ci fa mai conoscere intimamente la sua protagonista, un personaggio puramente reattivo o meramente attivatore di azioni altrui. Non potendo empatizzare con un essere che è solamente una pila erogena si può valutare Ema o come una povera idiota oppure come una manipolatrice psicopatica che usa il sesso per dominare tutti e far andare le cose come vuole. Essendo arrivata a un punto morto della propria vita, e con ciò non avendo niente da perdere, è poi la sola ad avere il coraggio di bruciare tutto per seminare da capo alla propria maniera. Il fuoco è infatti l’elemento con cui si apre un film in cui gli incendi diventeranno ricorrenti e forse inarrestabili, perché è attraverso il fuoco (altro simbolo ricorrente) che Ema devasta l’esistente e costruisce l’avvenire. Benché Larraín non fornisca risposte univoche e definitive, è evidente che Ema, anche solo per istinto animale e scarso calcolo, usi i desideri inappagati di chi la circonda per raggiungere i propri scopi. Ovvero replichi le dinamiche di potere, semplicemente, per il proprio soddisfacimento e per vedere riconosciuta la propria personale visione delle cose. Non si sfugge dal potere, va bene, ma non c’è niente di straordinario in questa Ema, come invece talvolta una certa aura epica potrebbe far intendere. Ema è inoltre una persona cui non abbiamo accesso perché il film non ci concede un filo di introspezione, di empatia, di umanità: se Larraín era riuscito a farci sentire il dolore e l’umanità addirittura di un prete pedofilo, non riesce questa volta a farci sentire alcuna motivazione interiore, emotiva, in questa donna che fa gola a tutti.
 
Dal punto di vista formale il film acquisisce un’ulteriore serie di punti deboli che vanno da una scrittura farraginosa, con dialoghi eccessivamente sbandierati nel dover significare tanto, troppo e in continuazione, fino a un virtuosismo registico che, in un film già tanto debordante, fa da inutile o addirittura dannoso raddoppio di senso. Ema vuole con tutte le proprie forze essere sorprendente e vitale, con un inizio su di un semaforo che brucia e le prime scene drammatiche che sfociano in un montaggio alternato con momenti di danza selvaggia. Che proseguono sempre più, col reggaeton in luoghi fatiscenti, incendi appiccati, tute fluorescenti in bar squallidi, inquadrature di specchietti retrovisori da cui si vedono accoppiamenti, fino al montaggione dei coiti e a un vago senso di esagerazione architettata. Ema vuole essere frammentato, spezzettato, rapido, cool, insomma rifugge alla linearità e sceglie la via del cool per sorprenderci e soggiogarci. 
Immagini tratte da:
Locandina: MioCinema
Immagine1: wikipedia
Immagine2: cinefilos.it
Immagine3: RepubblicaTv

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