Che cosa rende un film un Cult? Una regia memorabile, una sceneggiatura originale, la bravura di un gruppo di attori perfettamente immedesimati nei ruoli a loro richiesti? Oppure una colonna sonora da urlo in simbiosi eccellente con le immagini, una serie di battute e scenette strampalate difficili da cancellare dalla testa, se non addirittura la capacità da parte del film di trasformarsi in un fenomeno di massa e costume. Bene, nel 1998 Joel della Premiata Ditta "Fratelli Coen" è riuscito a comporre con "Il Grande Lebowski" un mosaico vibrante al quale appartiene buona parte di questi elementi al punto tale da assicurargli una popolarità clamorosa ed un'assenza nelle sale mai troppo lunga.
Reduci dal successo planetario di "Fargo" (1996) che valse loro la Palma d'Oro a Cannes, i Coen decisero di abbandonare le distese ghiacciate e provinciali del Minnesota per scendere di peso tra le strade soleggiate e affollate di una Los Angeles come corteggiata dalla cinepresa alla scoperta di una galleria di "tipi" fortemente diversi l'uno dall'altro se non spesse volte lontani anni luce l'uno dell'altro e volutamente contrapposti. Se il protagonista "The Dude" (termine che indica genericamente "l'individuo, il tizio" , ma tradotto arbitrariamente nella versione italiana con "Drugo") è un disoccupato pacifista che vive di soli White Russian e Bowling, mentre il suo omonimo Jeffrey Lebowski rappresenta l'emblema spiccicato dell'uomo d'affari statunitense miliardario, pragmatico, eroe della solidarietà e della Nazione dopo aver perso l'uso delle gambe nella Guerra in Corea. Se accanto ad un reduce schizzato del Vietnam che si spaccia per ebreo compaiono una pittrice femminista lunatica il cui unico reale interesse consiste nella gravidanza, e un trio di svitati "Nichilisti" che d'altro canto sono disposti a tutto pur di acchiapparsi un bel po' di quattrini, allora ci si rende facilmente conto di come i Fratelli Coen tendano in questa, come in altre loro opere, a portare sotto la luce dei riflettori personalità tirate a galla dai margini della società a stelle e strisce, dalle sale infoiate dei birilli ai villoni con piscina di Malibù.
Tanti Frankenstein, caratteristici a loro modo, si alternano nelle vesti di squinternati ma indimenticabili solisti che accompagnano il Drugo nella caotica ricerca della mogliettina playmate da copertina Playboy del Lebowski magnate cominciata perché nella sua vita tranquilla da nullafacente convinto, campione di pigrizia e meditazione zen e seguace del trotzkijsmo, viene a mancare il tappeto, una delle tre cose cui tiene seriamente oltre alla palla con i tre buchi e il suo cocktail preferito. Quando il suo omonimo famoso gli chiede se lui abbia un lavoro, il Drugo lo guarda attonito, come se stesse cadendo dalle nuvole al suono di quella parola. La trama centrale che lo vede protagonista di per sé non brilla particolarmente per scorrevolezza e sostanza, ma tutto ciò accade proprio secondo le intenzioni del regista che d'altronde è interessato a fornire una sequela di tanti piccoli bozzetti in cui si elevano tanti "soggettoni" artisticamente geniali, che fanno il verso al ritratto del cittadino americano medio, cattolico, razionale, appassionato di football e donuts.
Da sinistra a destra Jeff Bridges è "Il Drugo Jeffrey Lebowski", John Goodman alias "Walter Sobchak", Steve Buscemi "Donnie" e Julianne Moore nei panni di "Maude Lebowski".
Da sinistra a destra John Turturro è "Jesus", Peter Stormare, Flea e Torsten Voges interpretano "I Nichilisti",Philip Seymour Hoffman nelle vesti del "maggiordomo Brandt", e Sam Elliott "Lo Straniero" e voce narrante del film.
Resta molto difficile da dimenticare dopo averla vista anche solo la prima volta la scena cult in cui Walter, il miglior amico di Drugo reduce dal Vietnam, minaccia con la pistola un avversario durante una partita di bowling reo di aver commesso di una penalità e mettendolo in guardia che "Stai per entrare in una Valle di Lacrime". Così come non si può non apprezzare la presentazione di Jesus, l'indimenticabile giocatore di bowling messicano pervertito che esibisce un rituale tutto suo nell'approccio al gioco al ritmo di una bollente interpretazione latina di "Hotel California" da parte dei Gypsy Kings ("Il Grande Lebowski" possiede una colonna sonora di alto livello e variegatezza musicali, che spazia dal country dei Sons of the Pioneers e il folk di Bob Dylan a "Oye Como va" di Santana e al pop della classica "Just dropped in" di Mickey Newbury qui cantata da Kenny Rogers). Senza tralasciare il docile Donnie, l'amico ritardato di Walter e Drugo le cui incursioni fuori luogo danno vita a siparietti esilaranti, il laboratorio snob in cui Maude Lebowski catapultandosi "dipinge" su una tela poggiata sul pavimento e, per concludere, la scena del Gutterballs, il sogno in preciso stile Lebowski. Non vi ho certamente detto tutto, né spoilerato nulla, anche perché per un motivo e numerosi altri "Il Grande Lebowski" non deve mancare prima o poi nella lista di un vero amante del cinema.
Immagini tratte da:
- Locandina da movieposter.com - Galleria da wikipedia.org, movieplayer.it, paperblog.it, nientepopcorn.it, nehovistecose.com, gazzetta.it, lascatolachiara.it, pianetadonna.it
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Giugno 2023
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