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Romano, classe 1976 e una passione sconfinata per il cinema, in particolare se si tratta di quello di genere, il buon vecchio cinema di genere che fra gli anni ’60 e la metà degli ‘80 dominava i cinema italiani, portando masse di persone nelle sale e facendo da scuola a tanti registi, sceneggiatori, attori e compositori divenuti negli anni delle vere e proprie leggende sopravvissute al tempo o simboli di un culto underground riscoperto nel XXI secolo dai vari Tarantino e compagnia cinefila. Tutto questo sembra riecheggiare alla lontana nella figura di Gabriele Mainetti, il regista che grazie alla sua opera prima Lo chiamavano Jeeg Robot è ora sulla bocca di tutti, appassionati di cinema e spettatori occasionali, cultori di manga, comics e anime e semplici curiosi della domenica. Una folta schiera di seguaci, un piccolo e grande esercito che ha ritrovato in questa pellicola ciò che il cinema italiano sapeva fare molto bene e che rischiava di essere messo in ombra: narrare storie avvincenti ed emozionanti con stile e personalità. Ed anche una certa dose di originalità, visto che dopo Il ragazzo invisibile diretto da Salvatores, Lo chiamavano Jeeg Robot si pone come il più compiuto esperimento del cinema italiano nei confronti del filone supereroistico dominato dagli americani. A distanza di tre mesi dall’uscita ufficiale del film e uno solo dai sette David di Donatello vinti durante l’ultima edizione, giovedì ventisei aprile il Cinema Arsenale di Pisa ha ospitato una lunga rassegna dedicata al giovane regista romano: alla presenza dello stesso Mainetti si sono succeduti sullo schermo dapprima due dei suoi cortometraggi, Basette del 2008 e Tiger Boy del 2012, e come gran finale Lo chiamavano Jeeg Robot. Di fronte a casi cinematografici di questa portata è bene interrogarsi sul valore di tali opere e sul perché del successo di critica e di pubblico: dopo le tre proiezioni, Gabriele Mainetti ha intrattenuto un lungo dialogo con i numerosi presenti in sala che lo hanno incalzato con disparate domande sulla realizzazione del film, sulla sua carriera e su altri eventi collaterali scaturiti proprio grazie al successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, come il suo incontro con il maestro Go Nagai, fonte primaria del film. Produttore, compositore, attore di televisione, cinema e teatro, il trentanovenne amante del cinema di Park Chan-wook e in particolare di Old Boy si è aperto completamente nell’ambiente intimo del Cinema Arsenale, raccontando di come sia riuscito a sintetizzare tutte le sue influenze cinematografiche ed extracinematografiche nella sua opera prima, creando un prodotto che gioca con il genere dei cinecomics ma reinterpretandolo sotto il profilo psicologico dei personaggi in maniera inedita e più complessa, elemento questo evidente già dai due corti e culminato nel lungometraggio.
La critica grida già alla via italiana ai film sui supereroi; al di là di queste facili etichette, il tocco di Mainetti, affiancato dagli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti, in bilico fra dramma e azione ha dato vita ad un cinema che recupera il passato e nello stesso tempo rimane ben radicato nel presente reinventato in chiave pop. Il segnale è stato lanciato: ora bisognerà vedere se anche altri fra registi e produttori sapranno raccogliere la sfida. ![]()
Perché hai deciso di ispirarti proprio a Jeeg Robot di Jeeg Robot d’acciaio e non a un altro personaggio dei cartoni giapponesi dell’epoca? E soprattutto che cosa volevi che rappresentasse per te all’interno del film la figura di Jeeg Robot?
Quando abbiamo pensato ad un supereroe nostrano, non essendocene di veri e propri in Italia a parte Ranxerox, che toccasse quante più persone possibile per il suo immaginario pop, l’associazione mentale immediata è stata quella con i cartoni del programma Bim Bum Bam che hanno cresciuto la mia generazione. All’inizio doveva essere UFO Robot; successivamente abbiamo scelto Jeeg Robot sia per una questione puramente estetica, per via dei suoi colori chiari e meno scuri, sia perché ci sembrava che rispetto a Goldrake e a Mazinga, una delle opere più riuscite di Go Nagai, fosse un pochino più “sfigato” e quindi in linea con il personaggio del mio film. Bisogna tenere conto anche di un’altra cosa: Hiroshi Shiba, rispetto agli altri personaggi dei cartoni coi mecha, è l’unico ad avere davvero una forma di superpotere che consiste nella sua trasformazione nella testa di Jeeg Robot, la quale si va poi ad assemblare con le altre parti meccaniche lanciate da Uzuki, il personaggio femminile del cartone. Infatti durante il film il personaggio di Alessia dice di voler lanciare i componenti a Enzo Ceccotti: ci sembrava quindi divertente fare questi rimandi continui al cartone. Jeeg Robot è comunque quello al quale ero più affezionato e mi sembrava inutile lanciarsi su una ricerca dei supereroi americani: sarebbe stato difficile per i diritti ed anche perché noi italiani non li conosciamo bene. Mi ero già ispirato in passato a Tiger Man e Lupin III per Tiger Boy e Basette: continuare ad ispirarmi ai personaggi dell’immaginario giapponese mi è sembrata una scelta obbligata anche per il film. Che rapporto c’è quindi fra i due corti Tiger Boy e Basette e il tuo primo lungometraggio Lo chiamavano Jeeg Robot? Innanzitutto c’è un lavoro che va avanti da vent’anni con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone, affiancato da un bravissimo fumettista per la stesura della sceneggiatura del film, ovvero Menotti, che ci ha aiutato tanto nel migliorare l’elemento cinematografico generale. Nel 2005 a me e a Nicola venne fuori l’idea di raccontare la figura di Lupin III per come l’abbiamo vissuta in prima persona con i nostri occhi, lasciando quindi da parte qualsiasi operazione filologica sul personaggio e mescolandolo invece con quella che era la nostra realtà quotidiana. In questo modo è nato allora Basette, attuando la stessa operazione anche per Tiger Boy anche se in maniera più velata per quanto riguarda la figura di Tiger Man durante il corto. In Lo chiamavano Jeeg Robot l’immaginario del cartone originario ritorna a palesarsi un po’ di più: Jeeg Robot è l’anima dell’eroe che riverbera durante il film e uno strumento pop che abbiamo utilizzato per raccontare una storia che non ha niente a che fare con il mondo di Go Nagai. ![]()
Il tuo film riprende tanto dai canoni del cinema supereroistico ma a mio avviso sarebbe anche un po’ riduttivo appiattirlo solo su questa idea: giusto per fare un esempio, i tuoi personaggi non sono certo dei classici supereroi ma piuttosto persone molto fragili, sole e caratterizzate da una sfaccettature interiore molto travagliata. Per certi versi mi hanno ricordato i personaggi di Non essere cattivo di Caligari, film uscito poco prima del tuo, che quelli della Marvel o della DC che imperversano nelle sale. C’è quindi alla base una reinterpretazione non solo dei canoni supereroistici ma anche di determinati stilemi cinematografici.
Quello che più mi interessa è di intrattenere facendo spettacolo, con l’obiettivo di trasmettere emozioni. Io ho una mia idea di quello che è il genere cinematografico migliore e che si ricollega a ciò che ho trovato molto interessante leggendo un manuale di sceneggiatura di Robert McKee, Story: ebbene, in questo testo si dice che le storie servono a dare senso all’ambiguità del reale, e quando un paese non riesce a produrre delle storie, e in particolare quando le produce tutte uguali, allora è in profonda decadenza. Questo pensiero mi è piaciuto tantissimo perché è riuscito a mettere sotto la giusta luce le storie ispirate a determinati film e cartoni che avevo scelto durante il mio percorso. Non capivo per quale motivo, nel corso del mio cammino universitario, dovessi mettere da parte questo tipo di storie e tutelare invece un cinema autoriale considerato più sofisticato e migliore; non sono caduto però in questa trappola, continuando a pensare che quelle storie erano altrettanto importanti per me. Ho voluto quindi proteggere quel tipo di cinema che secondo me è meraviglioso: meraviglioso perché gioca molto con lo spettatore, costringendolo a mettersi in una posizione di sospensione dell’incredulità alta. In questo modo, lo spettatore si rilassa molto e si lascia andare con più facilità: è a questo punto allora che riesci ad emozionarlo più nel profondo, cosa che magari non è detto che riesca ad ottenere quel tipo di cinema intimista che imperversa in Italia e che è diventato ormai un genere a sé, sempre uguale a sé stesso e che non funziona ormai più. Naturalmente quest’ultimo discorso non è riferito a Caligari che io considero un maestro. Azzeccatissima la scelta di Ilenia Pastorelli, come mai la scelta è ricaduta su di lei? Dopo aver fatto una trentina di provini, nei quali avevo visto alcune tra le più grandi attrici italiane del panorama italiano, non ero ancora stato convinto da nessuno. Ero in un enorme fase di conflitto; se da un parte non volevo fare delle riproduzioni filologiche scontate, avevo il forte bisogno che l'attrice protagonista fosse autoctona, del quartiere, o quantomeno avesse il talento di poterlo raccontare quel quartiere. Purtroppo non riuscivamo a trovarla. Nicola addirittura si era ispirato in alcune battute, proprio a lei, che l'aveva vista al grande fratello! “A na certa” mi disse “ma guardate a Pastorelli, me fa tanto ride e magari è pure brava”. Alla fine la sua intuizione si rivelò esatta, era bella, simpatica e brava! Abbiamo lavorato tanto, l'ho fatta studiare con un mio amico in un “super corso intensivo” di come gestire il proprio vissuto e la propria emotività. Il valore umano di questa ragazza è davvero importante, parliamo di una ragazza che ha avuto dei trascorsi particolari e dovevamo lavorare proprio su questo, dovevamo saper gestire quella preziosa emotività. Un giorno mi chiama e mi dice con grande spontaneità: “Senti Gabriè ma comunque sto lavoro funziona così: devio pijà quello che sento e metterlo dentro e battute, no?”. Io gli risposi un “semplice”: “sì è così, fallo te và” e da lì ebbe inizio il nostro lavoro! Aveva decisamente imparato (ride). ![]()
Dietro il mistero del budino alla vaniglia, alimento preferito da Enzo, cosa si nasconde? Ce lo puoi svelare?
Guarda questa “cosa” del budino mi diverte tantissimo. Spesso litighiamo con Nicola Guaglianone e Menotti per la paternità di questa invenzione. In realtà per anni, non potendo più mangiare latticini, una cosa che, non vi nascondo, “mi fa rosicare da morire” considerato che ne bevevo un litro e mezzo al giorno, per ovvi motivi di salute ho iniziato a mangiare gli yogurt. La mattina prendevo chili di corn flakes e “ce mettevo” gli yogurt dentro. La gente quando veniva a casa mia e apriva il frigo rimaneva abbastanza basita e perplessa, si trovava davanti a uno spettacolo bizzarro perché vedeva oltre cinquanta yogurt. Loro (gli sceneggiatori) per farmi un dispetto hanno messo i budini alla vaniglia, che c'hanno il latte (ride). Ovviamente tutto questo serviva a raccontare l'immaturità del protagonista. Se il Leon di Luc Besson ha il latte, il nostro Enzo ha il budino, perché sostanzialmente è un bambino che si nutre ancora di cose dolci, non avendo ancora imparato a nutrirsi come i grandi. Questo è senza dubbio il significato principale. Il finale di Lo chiamavano Jeeg Robot è aperto, facendo presagire la possibilità di un suo seguito. Stai lavorando a qualcosa del genere? Ci stiamo lavorando, e quotidianamente butto giù idee insieme agli altri. Nicola faceva un paragone interessante, dicendo giustamente che non avrebbe senso raccontare di nuovo Rambo con i muscoli, fascetta e mitra in mano ma sarebbe più interessante parlare invece dello stesso Rambo con gli stessi muscoli, fascetta e mitra ma con maggiore conflitto interiore. Se non si fa questo ma si ripropone semplicemente il protagonista contro il cattivo di turno si perde la grande emozione che un personaggio travagliato come Ceccotti può regalare. Vogliamo anzi che il secondo capitolo sia migliore del primo.
Basette (2008) e Tiger Boy (2012): la recensione
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«Il mio primo vero giorno da ladro iniziò con le lacrime. Vorrei che l’ultimo finisse con un sorriso» Vogliamo inziare con questa frase per introdurvi lo struggente: Basette, un corto ispirato ai personaggi del celebre cartone giapponese Le avventurre di Lupin III, si tratta del primo esperimento da parte della coppia Mainetti/Guaglianone di inserire un personaggio protagonista della loro infanzia in un contesto difficile come la periferia romana, non un fan movie ma un vero e proprio corto di qualità diretto magistralmente dal nostro regista. Protagonista è Antonio, interpretato dal grandissimo Valerio Mastrandea, un giovane della borgata romana che tira a campare compiendo piccoli furti; una persona mediocre cresciuta negli anni Settanta con il mito del più famoso ladro dei cartoon. La sua è una famiglia di taccheggiatori di supermarket, che ricorda più i personaggi di Pier Paolo Pasolini che i coatti visti in Er Monnezza. Proprio il costume di carnevale del ladro gentiluomo fu il suo primo furto, nel giorno in cui la mamma fu arrestata. Da quel momento sono passati tanti anni e ora Antonio parte con i suoi due compagni Franco (Marco Giallini) e Tony (Daniele Liotti) per andare a fare una rapina all’ufficio postale, che dovrebbe sistemare per sempre le loro vite ‘’già scritte’’. Di colpo il corto diventa un adattamento a la romana di un possibile episodio del famoso manga. Antonio è proprio Arsenio Lupin durante il paradossale interrogatorio con l’ispettore di polizia Zenigata (Flavio Insinna), e i suoi due soci si sono trasformati in Jigen e Goemon, che invece di salvare l’amico arrestato si mettono a consumare droga (er pakistano del cavaliere nero) trovata nel deposito sequestri nel commissariato. Il nostro eroe, tuttavia, riesce a evadere anche da solo, ingannando per l’ennesima volta il goffo ispettore, andandosene poi in moto con Fujiko(Luisa Ranieri). La fine è incredibilmente amara e commovente. Da mozzare irrimediabilmente il fiato. Proiettato al sedicesimo Arcipelago Film Festival, il film ha vinto una lunga lista di premi per il genere cortometraggio e non c’è da stupirsi: nonostante i personaggi dei cartoni animati giapponesi siano soltanto degli involucri in cui agiscono dei personaggi assurdi ma pur sempre scelti in un panorama realista, questa atipica unione tra anime e criminalità di borgata è stata una ventata di freschezza e di novità. Stesse sensazioni che si possono provare vedendo Lo chiamavano Jeeg Robot. Il formidabile corto è già un Cult e non possiamo non lodare il regista romano per l’azzecatissima scelta degli attori, un mix tra volti cinematografici e televisivi. La trasposizione è a dir poco incredibile e Valerio Mastrandea nei panni del ladro più amato di sempre è assolutamente irresistibile! Menzione d’onore(lasciatemelo dire) anche per il grandissimo Marco Giallini, nessuno avrebbe potuto interpretare Jigen meglio di lui. Nel secondo corto presentato sempre da Mainetti al Cinema Arsenale di Pisa possiamo ammirare tutta la maturità acquisita dal regista.
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Il potentissimo e d’impatto Tiger Boy ci catapulta nella vita del piccolo Matteo, interpretato dal brillante Simone Santini, un bimbo di nove anni, che decide di riprodurre con ago e filo, la maschera del suo eroe preferito,‘’El Tigre’’, luchador professionista della periferia romana. Attraverso gli occhi brillanti e sognatori del piccolo compieremo un viaggio di rara bellezza, lo spettatore verrà subito colpito dalla durezza dell’argomento trattato. Scopriremo insieme che dietro ‘’il capriccio’’, battezzato troppo in fretta dalla stessa madre del protagonista e dai grandi, si nasconde tutta la paura e l’insicurezza di un bambino abusato, dall’insospettabile psicologo infantile della scuola, interpretato da Francesco Foti. Vivremo insieme a Matteo la sua innocente routinne, fatta da merende a base di sandwich al tonno e lunghe passeggiate tra i quartieri periferici di Roma, scandite purtroppo da tormentati incubi. Un giorno però la vita del nostro piccolo paladino cambia. Da solo trova la location dove il suo combattente preferito di Corviale deve sfidare il temibile avversario ‘’Er Dannato’’! El tigre ‘’gana’’ (vince) l’incontro e si volta verso Matteo, guardando dritto negli occhi, infondendogli quel coraggio e quella forza che servirà al piccolo a sconfiggere il suo aguzzino e a riprendersi le redini della propria giovane vita!
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‘’I pezzi de merda fanno meno paura, visti dall’alto!’’ è questa la frase ‘’fatality’’ del luchador romano ed è proprio la sfrontatezza e la ‘’cazzimma’’ di quest’ultimo che aiuteranno il nostro piccolo protagonista, dal cuore grande, a ritrovare la sua strada e strapparci più di una lacrima e un sorriso alla fine del corto. La dinamica è la stessa vista per ‘’Basette’’. Il corto è ispirato al famoso manga: ‘’Tiger Man’’ il nostro mitico ‘’Uomo Tigre’’. Attraverso il parallelismo col cartoon Mainetti e Guaglianone ci raccontano un storia vera e cruda, un rapporto madre figlio difficile, velato da un grandissimo e macabro segreto, una storia di riscatto e coraggio, un racconto puro che prende subito lo spettatore e ci fa notare fin da subito il grandissimo balzo in avanti compiuto dal regista e dallo sceneggiatore, dal 2008 al 2012. Ovviamente il secondo capolavoro di Mainetti ha riscosso un notevole successo, ottenendo notevolissimi e prestigiosi premi come: Grand Prix du Film Court de la Ville de Brest al Festival Européen du Film Court de Brest, Premio Nastro d'argento al migliore cortometraggio o il Best Script Award al Naoussa International Film Festival! Il regista si supera addirittura, firmando anche la musica e la produzione, mentre Guaglianone cura il soggetto e la sceneggiatura. Qui In basso potrete trovare entrambi i corti, pubblicati dalla Goon Films, casa di produzione di Gabriele Mainetti.
TIGER BOY from Goon Films on Vimeo. Immagini tratte da:
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Maggio 2023
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