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29/10/2017

La banda del Lenzi: le scorribande fra i generi di un regista d’azione

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di Carlo Cantisani
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Dopo Tobe Hooper e George A. Romero, un altro della vecchia scuola, questa volta italiano, se ne va, dopo aver segnato profondamente il cinema di genere nazionale e internazionale: Umberto Lenzi, cineasta e scrittore toscano, classe 1931, fra i più prolifici artisti dediti alla settima arte fra gli anni ’70 e ’80. Lo si celebra per la sua maestria nel saper creare e girare  storie coinvolgenti, dove l’azione fa da padrona in scene concentrate, fulminee, immediate e violente. Proprio come alcuni dei personaggi dei suoi film, in primis quelli interpretati da Tomas Milian, il quale può rappresentare in qualche modo la variegata cifra espressiva entro cui si muovono i reietti dei film di Lenzi: solitari e disillusi in Il giustiziere sfida la città (1975); spregevoli e aggressivi in Milano odia: la polizia non può sparare (1974), Roma a mano armata (1976) e Il cinico, l’infame, il violento (1977); indolenti ma dal cuore d’oro in Il trucido e lo sbirro (1976), sino ad arrivare all’unione degli opposti con La banda del gobbo (1977), dove un incredibile Milian interpreta sia il Gobbo che Er Monnezza, due facce della stessa medaglia criminale. La critica dell’epoca bollò questi film come “fascisti” e Lenzi come un regista “ di destra”, a causa dei metodi violenti e poco ortodossi dei vari commissari di polizia, interpretati soprattutto da Henry Silva e Maurizio Merli, altri due volti costanti nei film più di successo del regista. Ma scegliendo questa chiave interpretativa si rischia di perdere di vista il fulcro principale dei polizieschi lenziani, che è quello di mettere in mostra una violenza quotidiana e reale che proprio durante gli anni ’70 stava attraversano l’Italia con gli anni di piombo. Quei film, come tanti altri dello stesso filone, erano il termometro politico e sociale di una stagione molto cruenta della storia italiana dove, oltre al brigatismo e agli attentati di matrice politica, si aggiungevano crimini di ogni tipo, amplificati dai media e dalla cronaca, dando la percezione di vivere in uno stato di allerta molto alto. Etichettare Umberto Lenzi come un cineasta “di destra” risulta, quindi, alquanto gratuito, considerando anche il fatto che in alcune sue dichiarazioni ha spesso evocato la sua appartenenza libertaria.
Che il punto di vista di Lenzi sia alquanto peculiare e, a suo modo, critico lo si nota anche dal fatto che il cineasta toscano definì alcuni suoi film “thriller dei quartieri alti”, ovvero pellicole ambientate negli ambienti dell’alta borghesia dove i vari personaggi cercano di mascherare la loro ipocrisia dietro il lusso, le buone maniere e una reputazione rispettabile. Film come Un posto ideale per uccidere (1971), Il coltello di ghiaccio (1972), Sette orchidee macchiate di rosso (1972), Spasmo (1974) e Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975) trovano il loro fulcro nella psicologia dei personaggi e soprattutto nelle specifiche relazioni che questi ultimi intrecciano con specifici ambienti sociali. Qui l’assassino sembra essere più la conseguenza anziché la causa dei rancori e delle faide fra le ricche famiglie, oppure fra le vecchie e nuove generazioni, e la sua scoperta mette sempre a disagio rivelando segreti disdicevoli che solo con la complicità della propria posizione sociale potevano essere tenuti nascosti. Carol Baker, stella del cinema statunitense a partire dalla metà degli anni ’50, diventerà simbolo dei thriller/gialli di Lenzi, recitando anche in quelli in cui l’elemento sessuale ed erotico diventa soverchiante e pericoloso alla stregua di un assassinio, come nel capolavoro Orgasmo del 1969 e in Così dolce… così perversa dello stesso anno, e in Paranoia in quello successivo.
Quella elencata è solo una piccola parte della filmografia del cineasta toscano, considerata fra la più interessante e dove Lenzi ha potuto manifestare tutto il suo potenziale, grazie a una tecnica registica assai dinamica e solida che riusciva mantenere alta la tensione anche con storie magari non proprio all’altezza. La sua versatilità nel mestiere si manifesta anche in generi come l’horror, ritenuto dallo stesso regista alquanto estraneo alla sua poetica. L’incontro con questo genere, però, ha saputo indicare aspetti e caratteristiche inedite che verranno poi ripresi da altri registi, basti pensare a Il paese del sesso selvaggio del 1972, che ha introdotto la prima scena di cannibalismo in un film sostanzialmente d’avventura, e che poi influenzerà tutto il filone dei cannibal movie sino al capolavoro del genere Cannibal Holocaust di Deodato. Seguiranno gli efferati Mangiati vivi! (1980) e Cannibal Ferox (1981), con in mezzo un altro cult come Incubo sulla città contaminata (1980), realizzato con un budget ridottissimo ma che sprizza idee a ogni scena, a cominciare dalla rappresentazione degli infetti dediti a ogni sorta di violenza non come zombie ma come uomini, capaci anche di usare oggetti e di correre (più di vent’anni prima e 28 giorni dopo e World War Z). Uno dei film più amati da Tarantino (che, oltre a essere estimatore del cinema di Lenzi, è stato suo amico) e Rodriguez, che lo omaggerà ampiamente in Planet Terror.
Da menzionare sono anche alcuni suoi war movies nati negli anni ’60 e che lo accompagneranno sino alla fine degli ’80, come Attentato ai tre grandi (1967), La legione dei dannati (1969), su sceneggiatura, fra gli altri, di Dario Argento e che vede protagonista una star internazionale come Jack Palance; Il grande attacco (1978), Un ponte per l’inferno (1986) e Tempi di guerra, quest’ultimo del 1987. La storia, e in particolare le vicende belliche della prima metà del ‘900, saranno sempre una grande passione per Umberto Lenzi, probabilmente perché in questi scenari riesce a far incarnare ai suoi personaggi determinati ideali, mostrandoli divisi fra eroismo, tragedia e umana fragilità. Non è un caso, quindi, che le stesse cupe ambientazioni verranno rievocate in una serie di successivi romanzi, quando, a partire dal 2008, l’ormai ex-regista deciderà di affrontare un nuovo mondo, quello letterario, e con buoni risultati da parte della critica. Bruno Astolfi, detective privato antifascista che indaga su dei casi nel mondo del cinema degli anni ’40, sarà l’ultimo di una lunga serie di personaggi memorabili che Umberto Lenzi ha lasciato a chi ha seguito e amato la sua capacità di narrare l’azione di personaggi sempre inquieti, al limite, abbandonati ma pur sempre accompagnati da una loro irreprensibile umanità.

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