Midsommar, che in Italia ha per sottotitolo Il villaggio dei dannati, è l’ambiziosa opera seconda di Ari Aster. Un delirante viaggio nell’incubo, horror emotivo privo di vie di fuga “logiche”, immerso nella luce nordica del sole di mezzanotte.
di Salvatore Amoroso
Dani e Christian sono una giovane coppia in crisi: lei si aggrappa a lui per paura della solitudine, lui vorrebbe lasciarla da tempo ma non riesce a farlo specialmente dopo che una tragedia familiare si è abbattuta sulla vita di Dani. Così anziché andare da solo in vacanza con gli amici, Christian porta con sé dagli Stati Uniti anche la fidanzata non proprio ben voluta dai suoi sodali: meta del viaggio è un remoto villaggio svedese dove si svolge un misterioso “festival”. Un lungo attacco di panico che inghiotte a ondate. Allucinazioni da depressione e ansia miste a un feroce e sempre meno represso desiderio di distruzione. Prima di ogni altra cosa Midsommar – Il villaggio dei dannati si distingue per il fatto di disinteressarsi al racconto “corretto” per esprimere invece visceralmente il profondo dolore di Dani (Florence Pugh, già apprezzata in Lady Macbeth) che ha perso la sua famiglia in modo orribile e si ritrova pure non amata da Christian (Jack Reynor), l’unica persona cui può aggrapparsi ma che non le è realmente legato. Essenzialmente sola, disperata e nonostante questo propensa a controllare le emozioni ragionevolmente, Dani lascerà fluire i propri stati d’animo soltanto a Hårga, immaginario villaggio della Svezia settentrionale che il regista Ari Aster (Hereditary – clicca qui per la recensione) ha creato assieme allo scenografo Henrik Svensson dopo studi e letture sui riti pagani dei popoli nordici e scandinavi e sul folklore delle hälsingegårds, le fattorie in cui vengono conservate memorie di usanze rurali, tribali e religiose.
Ad Aster non interessa chiudere il discorso definitivamente, onorando verosimiglianza e razionalità narrativa. Gli interessa invece accompagnare lo spettatore in un percorso psicotico di lutto, angoscia e reattività. Così come gli interessa accompagnare la sua protagonista dal fondo della negazione al trionfo di un istinto omicida, costruendo in questo senso una traiettoria emozionale chiara e necessaria al superamento del conflitto interiore. Se non avete voglia di essere disturbati da un film, lasciate perdere questo lungo trip psichedelico e grottesco, reso abbagliante e a tratti insostenibile dalla felice scelta di girare un horror tutto alla luce del sole. Nel tremendo villaggio di Hårga, comunità endogamica dove ogni 90 anni la comunità sacrifica qualcuno per rinnovare la propria persistenza, il sole non tramonta infatti mai del tutto e il film è luminoso, stordente, lisergico e capace di mettere in difficoltà lo sguardo dello spettatore. A differenza del suo esordio, Hereditary, in Midsommar c’è tutto sommato poca trama e molta più visionarietà. Ben venga. In un periodo dominato dall’ossessione della storia, intesa serialmente come racconto ben (per)formato, Aster si prende la libertà di realizzare un gesto espressivo, ossessivo, splendido a livello figurativo, lasciando da parte l’irrisolutezza o la scarsa “credibilità” horror di quel che mostra. Come detto i percorsi emotivi dei protagonisti sono chiari e ben risolti, ed è solo attorno a quelli che si snoda la perturbante messa in scena che certamente deve qualcosa a The Wicker Man (Robin Hardy, 1973) e a Picnic a Hanging Rock (Peter Wier, 1975). Punteggiato, specie nell’incipit, da un umorismo nero che scaturisce dall’incongruità del rapporto tra Dani e Christian, Midsommar si trasferisce presto in Svezia, meta delle vacanze estive del gruppo di studenti di antropologia di cui Christian fa parte. Qui, immersi nella luce di un verde prato, il gruppo di giovani famigliarizza con alcuni membri della comunità mangiando dei funghi allucinogeni. Da questo momento la sospensione del principio di realtà è pressoché totale e il film devia persino dallo spiegare esaustivamente cosa sia la comunità in cui i ragazzi americani sono capitati. Non è infatti questo il punto. Se Midsommar si concentra su alcuni riti degli abitanti di Hårga è più per far emergere il rimosso, l’indicibile della vita e della morte in un gruppo di bulletti americani e in una giovane donna traumatizzata. Dalla magnifica scena della “roccia” a quella ancor più folgorante della danza per incoronare la Regina di Maggio, ovvero la fanciulla che riuscirà a ballare più di ogni altra, Aster gioca a figurare un inconscio sia cinematografico che umano e che pur innervando in profondità la vita è relegato ai margini dell’esistenza individuale e sociale. Dal punto di vista visivo, Midsommar è un film sontuoso che può rimandare persino al primo Greenaway e nel finale ai tableaux vivants del Von Trier di Melancholia. Questo dispendio non è per nulla asettico o fine a se stesso ma è capace di produrre una forte reazione emozionale, di essere immersivo e brutalmente coinvolgente. Dopo un esordio interessante, Aster fa un passo in avanti dal punto di vista artistico con un horror emotivo senza vie di fuga, senza rassicuranti spiegazioni interne al genere, sempre più privo di logica man mano che avanza nell’incessante luce. Un lavoro che, fortunatamente, si concentra sull’espressione e non sulla comunicazione, prendendosi perciò le necessarie libertà formali di cui il cinema ha sempre vitale bisogno. Immagini tratte da: Locandina: ImDb Immagine1: Esquire.com Immagine2: Cinematographe.it Immagine3: PopSugar.com Immagine4: IndieWire
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Marzo 2023
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