25/9/2016 Quattro film di velluto rosso - The Neon Demon, The Witch, It Follows, Man in the DarkRead Now
Alcuni dei film più interessanti e intriganti dell’anno sono stati all’insegna dell’horror e del thriller, generi classici che nelle mani dei cineasti dei seguenti film hanno assunto forme originali, personali e di alta qualità. The Neon Demon, The Witch, It Follows e Man in the Dark, tre dei quali opere di giovani registi, hanno saputo far ripiombare la tensione in sala, raccontando di storie morbose, personaggi complessi e di luoghi famigliari e nello stesso tempo oscuri.
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La pellicola più particolare delle quattro è indubbiamente The Neon Demon, decima opera del danese Nicolas Winding Refn, che sin dalla sua comparsa al Festival di Cannes ha suscitato scalpore e pareri altamente contrastanti. Non poteva essere altrimenti, visto che tutta la produzione del regista (che oggi si firma con la sigla NWR) è sempre stata controversa e altamente particolare, il riflesso di quella singolare fusione di arte e vita che ha fatto di Refn oramai uno dei cineasti più interessanti del secolo. Questa volta l’intento dichiarato del regista è stato quello di fare un film sulla bellezza, e per raggiungere questo scopo usa tutta la sua decennale esperienza creando un mix incredibile di immagini altamente estetiche e dettagliatamente curate, dove i dialoghi vengono completamente assorbiti e i pensieri dei personaggi si perdono. La diafana e innocente bellezza di Elle Fanning viene continuamente scrutata con gelido distacco dalla camera da presa, mentre il mondo della moda nel quale la ragazza si ritrova catapultata assume i contorni assurdi e surreali alla Alice nel paese delle meraviglie. Dietro alle passerelle, alle luci delle macchine fotografiche e a tutto questo mondo sgargiante si annida però una sete di bellezza costante, che farà emergere ossessioni e fantasie deviate dei vari personaggi che la protagonista incontrerà nel corso della vicenda. Refn tesse i contorni di un incubo ipnotico dove più che la trama sono i colori, i suoni e il non detto che dominano il film, invitando continuamente lo spettatore ad abbandonarsi ad essi per godere appieno del risultato. Alla fine, non si potrà rimanere indifferenti di fronte a The Neon Demon: lo si amerà o lo si odierà. E questa è una prerogativa soltanto dei grandi artisti con una visione forte della propria arte.
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Vera e propria rivelazione in campo horror è stato The Witch (o The VVitch secondo una dicitura più antica), opera prima dell’americano Robert Eggers dai trascorsi da scenografo teatrale e da sempre appassionato a tutto ciò che circonda la figura della strega. Non è un caso quindi che il giovane Eggers ambienti nel nativo New England la vicenda del film: nel 1630 una famiglia calvinista viene cacciata dalla sua comunità insediandosi al limite di un bosco, facendo così emergere tensioni fra i membri della famiglia stessa, mentre nello stesso tempo un’oscura figura emerge dalla profondità della natura. Eggers è abilissimo nel saper dare un tono ambiguo all’intera vicenda, portando lo spettatore a chiedersi se la strega sia reale o la proiezione dell’inconscio puritano della famiglia. La sua rappresentazione infatti ha un vago sapore antropologico, essendo anche storicamente molto accurata in ogni dettaglio, dagli abiti, all’ambientazione, sino alla lingua parlata, l’inglese dei coloni del XVII secolo: si ha quasi l’idea di essere di fronte ad un’opera di teatro. Completamente girato in luce naturale e con delle sequenze che sembrano dei veri e propri dipinti d’ispirazione dell’epoca, The Witch gioca tutto sull’atmosfera plumbea e sporca che rispecchia perfettamente l’animo dei personaggi, sui quali primeggia la figura della giovane Tomasin (Anya Taylor-Joy, incredibile se si considera che è un’esordiente), protagonista in continuo divenire sino al finale. In bilico fra fiaba gotica e realismo, l’opera riesce a rielaborare in maniera personale un topos della letteratura e del cinema senza ricorrere a particolari effetti o a scene sanguinolenti ma solo attraverso la forza dell’atmosfera, seminando dubbi e accennando al possibile orrore nascosto.
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Terzo film dove per la terza volta ci si imbatte in una protagonista femminile, giovane e bella. Se in The Neon Demon e The Witch la bellezza è lo specchio dell’ambiguità dei personaggi (tratto fondamentale nel film di Refn, accennato ma comunque presente nella vicenda in quello di Eggers), in It Follows assume i contorni di un’assurda condanna. Condanna a morte, naturalmente, visto che la “cosa” del titolo viene trasmessa da persona a persona tramite il sesso, perseguitando in maniera inesorabile chiunque abbia avuto un rapporto sino ad ucciderlo. La giovane Jay ne viene a contatto e solo lei può vedere questa minaccia che si nasconde dietro corpi e visi di persone dall’aria zombesca, lenti ed implacabili. Dietro ad una storia del genere sarebbe troppo facile intravvedere lo spauracchio di qualche malattia sessualmente trasmissibile o quello del senso di colpa di cattolica memoria; queste possono essere alcune delle numerose chiavi di lettura del film, e la bellezza e lo scarto che rende It Follows unico rispetto ad altre pellicole del genere è la sua predisposizione a molteplici interpretazioni. A ciò contribuisce la messa in scena, atemporale e immersa in luoghi così tipici e comuni della periferia americana da essere completamente svuotati di qualsiasi caratterizzazione. Agli appassionati, questo dato, insieme al complesso della messa in scena, farà venire in mente classici come Halloween o Nightmare e tanti altri slasher anni ’80, ma la bravura di David Robert Mitchell (giovane talento al suo secondo film) è tale da occultare benissimo le sue influenze, rielaborandole grazie ad una regia molto particolare e dal sapore sperimentale. Pur con un occhio distaccato, It Follows riesce a calare completamente lo spettatore nella vicenda, sino ad immedesimarsi non tanto con i giovani personaggi ma con i luoghi, le strade e tanti altri piccoli particolari che, sapientemente gestiti, creano tensione e suspance continua. Come per The Neon Demon, anche It Follows è un’opera senza mezze misure, che si può amare od odiare. Ciò che è indubitabile però è l’altissima qualità che lo rende un film apprezzabile anche al di fuori del suo genere d’appartenenza.
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La periferia, classico non luogo per molti horror statunitensi, ritorna anche in Man in the Dark dell’uruguaiano Fede Alvarez, qui alla sua seconda opera dopo il remake di Evil Dead (La Casa, per chi non lo sapesse). E Sam Raimi (ideatore della saga della Casa, per chi non sapesse anche questo) lo ritroviamo anche fra i credits in veste di produttore, oltre che come nume tutelare per quanto riguarda lo stile generale del film di Alvarez. Una trama tanto semplice quanto efficace: tre ragazzi, Rocky, Alex e Money, sono specializzati in furtarelli in varie case di persone ricche e agiate. La giovane Rocky in particolare pensa solo a mettere da parte un po’ di grana per portare via la sorellina dal degrado in cui versa la sua famiglia, con una madre assente e un padre scomparso. Un giorno per tutti e tre si presenta l’occasione della vita: derubare un vecchio e cieco reduce del Vietnam che abita in una zona completamente isolata della città, possessore inoltre di un discreto gruzzolo. Niente di più facile quindi, ma naturalmente non è così. I predatori si trasformeranno ben presto in prede e la discesa verso l’inferno che Alvarez prepara lungo l’ora e mezza di film è implacabile e perfettamente orchestrata con un continuo crescendo di tensione che inchioda letteralmente lo spettatore sino alla fine. Ogni particolare viene abilmente calibrato per poter preparare il terreno all’esplosione successiva: prima di tutto dal fatto che i ragazzi non possono parlare fra loro (da qui il titolo originale Don’t Breathe rende molto più l’idea) e poi grazie ai tocchi registici che riescono a giocare con l’ambiente, trasformando una vecchia e fatiscente casa in un labirinto di stanze, con la camera che si aggira fra gli ambienti proprio come un ladro e soffermandosi furtivamente su alcuni particolari (un martello, delle foto, una campanella) che spingono lo spettatore a chiedersi quali siano i loro scopi. Il male, rappresentato dal vecchio cieco e interpretato da un’incredibile Stephen Lang, assume forme concrete ma non di meno implacabili, quasi soprannaturali, cosa che rende i protagonisti completamente in balia degli eventi e della violenza feroce e, letteralmente, cieca di questa oscura figura. Pur essendoci sangue, Alvarez lo usa il giusto senza mai soffersi a contemplarlo o scadendo nello splatter: il tono generale è quello di un thriller cupo e nero, che prende un’inaspettata piega horror quanto più il regista si addentra nella descrizione della vicenda del vecchio. Nessuna disamina sociologica sul degrado delle periferie, nessun sottotesto particolare, nessun messaggio di natura intellettuale: Man in the Dark va dritto al sodo raccontando una storia con piglio da film di genere, ma dei migliori. Una martellata in pieno volto, una rasoiata improvvisa alla gola che lascia senza respiro: questo è Man in the Dark, che saprà accontentare i fan della tensione o chi vuole provare un po’ di sani brividi lungo la schiena.
Immagini tratte da:
· http://mr.comingsoon.it/ · http://media.cineblog.it/ · http://images.movieplayer.it/
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